Pochi registi contemporanei si sono interrogati sullo statuto dell’immagine digitale in ambito cinematografico come Olivier Assayas. La riflessione sulla smaterializzazione dei contenuti e la conseguente instabilità del sapere che caratterizza la nostra epoca è confluita in opere capaci di intrecciare ad essa discorsi sulla fluidità del corpo sessuale e attoriale, sul desiderio e sul doppio, in libere impalcature edificate su forme di genere – crime, thriller, fantascientifico, sovrannaturale – entro le quali dissimulare “film saggi”, in cui hanno largo spazio la formulazione del pensiero e la teorizzazione. Tale approccio si è fatto, negli ultimi anni, sempre più esplicito: basti pensare al dittico composto da Sils Maria e Personal Shopper, due opere che hanno portato definitivamente allo scoperto la tematica di fondo che innerva anche Double vies (Non Fiction), presentato in Concorso a Venezia 75. Che cosa definisce l’identità di un individuo, sempre più sfuggente in un momento in cui essa si configura non più a monte, come una emanazione del sé, ma piuttosto in quanto prisma riflesso prodotto a partire da percezioni altrui? E dove si situa il confine tra pubblico e privato, se l’esternazione dell’essere va a sostituirne l’interiorità?
In questo labile confine fatto di incertezze professionali, tecnologiche, culturali e sentimentali si inscrive un film che ha come figura centrale quella di uno scrittore (interpretato con la consueta disinvolta sciatteria da Vincent Macaigne) che dopo un altalenante successo come autore di autofinzione, si trova di fronte a un’impasse: l’editore di sempre (Giullaume Canet) rifiuta di pubblicarne il nuovo romanzo, il cui principale personaggio femminile, a sua insaputa, è tratteggiato sulla falsariga di sua moglie (Juliette Binoche), attrice in una serie TV di successo e amante dello scrittore. Non che lui le sia fedele: se la spassa con una giovane e ambiziosa collaboratrice bisessuale (Christa Theret) che fa di tutto per convertirlo alle favolose sorti del digitale, in un’idea di democratizzazione dell’informazione che l’altro mette fortemente in discussione. Ne viene fuori un film da camera, corale, quasi esclusivamente basato sui dialoghi, lunghe discussioni che conducono oltre i rischi di un compiaciuto battibecco borghese, verso una labirintica indagine del concetto di verità: se tutto è opinabile, se ogni cosa, o atto, è osservabile da un punto di vista che ne ribalta il senso, e se ogni assunto può essere capovolto nel suo opposto, come è possibile giungere a un punto di arrivo, ristabilire un ordine, ritrovare una forma di autorità all’interno del caos?
Il film pone più domande delle risposte che è in grado di dare, ma poco importa: è apprezzabile la leggerezza della ronde sentimentale che si intreccia tra i vari personaggi, svolta in forma di simposio, e divertono, se si è capaci di lasciarsi andare al gioco intellettuale, i cortocircuiti cinematografici, come quello in cui confliggono, in maniera esilarante, la saga di Star Wars e Il nastro bianco di Michael Haneke, quasi a minare alla base l’idea stessa di “tradimento”, in primis quello che vuole non comunicanti le dimensioni del cinema d’autore e commerciale. Un concetto che è stato sempre al cuore del lavoro di Assayas, mai esposto in maniera così ironica. [Alessandro Stellino]
C’ERA UNA VOLTA IL WEST
Era circolata la voce che i fratelli Coen stessero lavorando a una miniserie per Netflix, invece questo ritorno all’epopea western ha preso forma in un film a episodi, ispirato (almeno nelle parole dei registi) alla struttura del cinema italiano degli anni Sessanta. Fin dalle prime immagini, The Ballad of Buster Scruggs appare perfettamente coerente con il percorso dei due registi, sostenitori di una narrazione tanto avvincente quanto affrancata dallo svelamento di senso rincorso da tanto cinema contemporaneo.
Tutto inizia da un vecchio libro nel quale si succedono sei racconti brevi, sintetizzati ognuno in un’illustrazione accompagnata da una battuta, che anticipa il cuore della storia. Tra duelli di pistoleri canterini e la spasmodica ricerca dell’oro, impiccagioni e spettacoli ambulanti, carovane assaltate dagli indiani o perse verso mete ignote, i Coen condensano l’immaginario western, scendendo i gironi infernali della nascita di una nazione fondata sul sopruso e sull’insensata accumulazione del capitale. Si inizia ridendo ma si finisce con un brivido che corre lungo la schiena, in un film che non risparmia nessuno: in una società in cui l’uomo lotta con il proprio simile perché sa di non poter decidere nulla del proprio destino (come dimostrano i primi due episodi), quello che rimane è lo sfruttamento del più debole in una corsa verso il consenso del pubblico, che porta a sostituire le storie con il mero intrattenimento (il crimine di cui si macchia fin da subito anche la società dello spettacolo, nel terzo episodio). Se il pioniere della corsa all’oro ha salva la vita è soltanto perché ha rispetto per una natura che lo accoglie e lo difende, il matrimonio è una contrattazione in cui la condivisione più profonda – riguardo all’accettazione dell’incertezza che domina i nostri giorni – si paga con la vita, lasciandoci in viaggio verso una morte di cui non possiamo catturare il senso. E se la storia finisce nelle nebbie incerte di una locanda del vecchio West, qualcosa dei racconti morali del libro arriva fino ai nostri giorni e viene il dubbio che questo film, che parte come un divertissement sulle note di un musical, riguardi la genesi di un processo con il quale gli Stati Uniti stanno ancora facendo i conti. [Daniela Persico]
SANGUE BLU
A due anni da Spira Mirabilis Massimo D’Anolfi e Martina Parenti tornano alla Mostra del Cinema con un cortometraggio realizzato a Milano all’interno della TBM, il macchinario deputato a scavare il tunnel delle metropolitane in tutto il mondo. Blu è la linea della metro milanese che renderà la mobilità cittadina degna dei più alti standard europei, ma il risultato dei lavori sarà visibile (e fruibile) soltanto dopo il 2022. Nel frattempo, a diversi metri sotto la superficie della città, dove il buio è materia stratificata e quasi inscalfibile, la TBM percorre gradualmente quello che sarà l’intervallo da una stazione alla successiva, in una sfida all’invisibile, all’inaccessibile, che racchiude tensioni quasi primitive, e forse soltanto gli operai in azione riescono davvero a concepire.
Che il cinema dei due autori si metta a servizio di un processo che coinvolge il rapporto tra tecnologia e umano ingegno, abitando la transizione tra passato e futuro, non appare affatto peregrino: Blu è a tutti gli effetti l’occasione per proseguire un discorso sullo statuto del cinema – suono e immagine – quale spazio di rivelazione del reale. Una discesa che si nutre della metafora – un rapido passaggio su alcuni prelievi del sangue, rituale obbligato per vagliare le condizioni di salute dei lavoratori – e consegna allo spettatore l’intuizione della risonanza profonda di cui gli eventi si fanno portatori, passaggio dopo passaggio, gesto dopo gesto. Dietro a ogni azione manuale c’è un pensiero, dietro a ogni pensiero un’emozione, singola e collettiva, che scorre come linfa tra le viscere di una città, per alimentarne il cambiamento.
Anche nella breve durata D’Anolfi e Parenti rivendicano la libertà di costruire, secondo principi ellittici e soluzioni organiche di montaggio, la qualità esperienziale di questa vita al lavoro. Il magistero incontestabile della composizione visiva porta il film a suscitare la vertigine dell’astrazione, anche quando in quadro sono le delicatissime operazioni di precisione che presiedono agli scavi e agli attraversamenti. Ancora una volta la dignità del lavoro invisibile diventa parte fondante di questo viaggio, dal quale si ritorna in superficie con una nuova consapevolezza, un senso vivo di partecipazione. [Marco Longo]