C’era una volta Ana, una ragazza perbene che, per quanto affascinata dal cerimoniale proprio del suo milieu di appartenenza, non riusciva (e possibilmente non voleva) sottostare ai dettami morali che guidano le “persone come lei”. La ragazza incontrerà due tall dark strangers, un uomo-lupoide che la ingraviderà per poi scomparire, e Clara, una donna senza referenze, fino a quel momento confinata nella periferia di San Paolo, che si prenderà cura della sua casa e, soprattutto, della sua persona.
Da questa traccia dai toni favolistici, As boas maneiras – in concorso al Sicilia Queer Filmfest e già premio speciale della giuria a Locarno nel 2017 – sviluppa un intreccio in cui la realtà non è una semplice costruzione mentale di una soggettività singola. Nel film viene meno una visione della realtà ancorata a un impianto dualistico che la contrapporrebbe all’onirico, a favore, invece, di una concezione per cui ogni apparizione, persino la più idiosincratica, può trovare posto nel flusso del reale. Questa realtà è dunque indissolubilmente legata alla finitezza e alla potenzialità del corpo: «Come la nostra nascita ci ha portato la nascita di tutte le cose, così la nostra morte produrrà la morte di tutte le cose»[1], scrive Montaigne. Gioioso e greve mistero della sparizione e della riparazione nella metamorfosi.
Discostandosi dalla tradizione folkloristica e da quella del cinema di genere, i registi Marco Dutra e Juliana Rojas non considerano la licantropia, il sonnambulismo e le forme di presunta perversione come dei fardelli atavici, maledizioni che si propagano di generazione in generazione senza che sia possibile trovare scampo. Nessuna sublimazione o amara constatazione dell’isolamento interindividuale, ma un atteggiamento abbracciante – per quanto goffo esso sia – nei confronti di ogni manifestazione “eventuale” (e quindi imprevedibile, tracciabile soltanto a posteriori) che non sancisce la pluralità del reale, ma ne celebra le qualità onnicangianti.
La realtà non è un oggetto che può essere maneggiato e informato, fissato come dato aprioristico cui le soggettività dovrebbero adeguarsi. Così la realtà sociale esperita da Clara, personaggio subalterno per eccellenza nel suo essere nera e lesbica, non è un prodotto della mente, una condanna all’incomunicabilità, ma una conformazione lampante cui ciascuno ha il dovere di confrontarsi.
La nascita della creatura (Joel) è quindi la messinscena di un «falso evento» che «si rinnova a ogni cedimento alla pulsazione erotica, agli istinti animali, alla disattenzione, al sonno»[2]. E sebbene la nascita diventi una truculenta e parossistica autoaffermazione di un essere che, pur non avendo ancora scoperto il potere della volontà, sa già come esercitarlo, il film non denuncia mai uno slittamento di piani che intaccherebbe il «principio stesso di realtà»[3]. Difatti, l’inserto animato o l’impiego di fondali posticci diventano contrassegni delle efflorescenze del reale che sanciscono il rifiuto di una prospettiva escapista che cerca rifugio nel mito e/o nel sogno.
La peluria che invade il corpo di Joel sembra inizialmente una minaccia, un rinchiudersi nel dominio del corpo, in un’animalità lontana da quella concepita da Ana quando osserva la foto del suo cavallo, il cui sguardo le dà l’impressione che esso sia capace di pensare. Ogni sforzo di Clara di rapportarsi alla “creatura della luna piena” dovrà andare oltre il concetto più ovvio di genitorialità (e umanità), sino alla scoperta della «debolezza del rapporto» che lega i corpi «all’identità»[4].
Ana e Clara sono due donne sole, non indifferenti alla seduzione del normativo, della patina regolarizzante che, mentre elargisce una pace fugacissima, condanna già allo svigorimento; ma entrambe preferiscono cedere alla tentazione di esistere, bruciare, ascoltare la carne e il sangue. Da qui, forse, la predisposizione dei registi verso una messinscena artaudiana, consapevole che la crudeltà è una forma «di rigido controllo, di sottomissione alla necessità»[5].
L’esperienza spirituale segna i corpi che, esponendosi al pericolo della follia, sperimentano le metamorfosi attraverso cui lo spirito potrà realizzarsi. E per quanto riguarda le madri e il figlio, sarà il canto «a impedire la cristallizzazione degli elementi interiori»[6], a far ingaggiare una lotta contro l’idea di un sé monolitico e avito. Un elogio della metamorfosi, del rifacimento dell’anatomia che, nel finale, investirà definitivamente anche Clara.
Così, mentre la porta viene divelta, sono le esistenze, fino a quel momento eterodirette, di Clara e Joel a incenerirsi, e i significa(n)ti preconfezionati a disperdersi. Si leverà soltanto un urlo, intonato dai due prima di lanciarsi verso la folla berciante che, misconoscendo la crudeltà, cerca un bieco appagamento nell’esercizio della violenza.
[1] M. de Montaigne, Saggi, Mondadori, Milano, 1970, p. 118.
[2] A. Cappabianca, L’immagine estrema: Cinema e pratiche della Crudeltà, Costa & Nolan, Milano, 2005, p. 129.
[3] Ivi, p. 64.
[4] Ivi, p. 141. Corsivo presente nel testo.
[5] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, p. 217.
[6] Y. Mishima, Una stanza chiusa a chiave, SE, Milano, 2003, p. 44.