È lecito constatare come, nell’ultimo decennio, la forza creativa e rinnovatrice del cinema italiano si sia fondata soprattutto sul sovvertimento degli equilibri territoriali: specialmente nel campo del documentario infatti si è assistito a un allontanamento dai centri produttivi tradizionali. Una vera e propria tendenza centrifuga, laddove le periferie, la provincia e i territori marginalizzati diventano terreno fertile per la creazione di un nuovo linguaggio.
All’interno di questo filone, variegato e complesso, c’è chi, più di tutti gli altri, ha tradotto le nuove possibilità espressive in una rielaborazione del segno cinematografico in un senso politico: è questo il caso di Felice d’Agostino e Arturo Lavorato. In Essi bruciano ancora, il loro ultimo film presentato alla scorsa edizione del Torino Film Festival, trova compimento una ricerca sul linguaggio che il sodalizio calabrese ha esplorato a partire dal 2005 col primo film Il canto dei nuovi migranti. Un percorso autonomo che si fonda sull’insistenza, sull’ostinazione, sulle rivendicazioni delle genti di Calabria come ispirazione poetica di resistenza.
Nicotera Marina, il paese sulla costa tirrenica di cui sono originari i registi, è, più che il set, il “teatro” in cui si svolgono i loro film, punto di osservazione privilegiato sulla realtà e le complessità di un territorio, le cui ragioni divengono quelle di ogni Sud. Partendo dal poetico Un racconto incominciato (presentato nel 2006 a Torino e poi a Cinéma du Réel), passando alla rielaborazione mitologica di In amabile azzurro (in concorso al Festival dei Popoli nel 2009), c’è una visione ricorrente: il golfo di Nicotera, con le barche in legno dei pescatori che attraccano sulla spiaggia, i volti stanchi degli uomini che dalla collina osservano lo spegnersi dell’arenile sull’orizzonte, dove si innalzano minacciose le immense gru del porto di Gioia Tauro.
Nell’ostinato ripetersi di questo motivo paesaggistico, emerge l’evoluzione di un discorso che ha il suo centro nella relazione col territorio. Un rapporto che è in primis simbiotico nel dialogo instaurato coi personaggi – a volte ascoltati in off, altre rivolti di fronte alla videocamera –, a cui segue poi un distanziamento, che si fa gesto poetico e politico: così come la montagna di Sainte-Victoire, oggetto per più di vent’anni dell’opera di Cezanne (ripresa non a caso da Jean Marie Straub e Danielle Huillet, indiscutibile punto di riferimento per il cinema di D’Agostino e Lavorato), il ritornare insistentemente sullo stesso oggetto diviene la chiave di uno svelamento. Sotto il loro sguardo, la materia fisica – il mare, la spiaggia, le barche, i pescatori che la abitano – acquisisce una nuova essenza: tramutato in materia filmica, il paesaggio diviene germe di una resistenza, la cui vita, nel suo protrarsi incessantemente, si configura quale testimone di un passato che perdura, che non si dimentica.
Il passato, quel passato, altro non è che il punto di rottura costituito dalle tragiche conseguenze del processo unitario, che ancora oggi affliggono la Calabria. In questo senso, le visioni della costa di Nicotera Marina hanno lo stesso statuto dell’archivio, elemento imprescindibile nella filmografia dei due registi. Questo, spogliato da ogni finalità storiografica o documentaria e strappato dal suo contesto originale, diviene strumento per creare un distanziamento critico, una rielaborazione che individua nella cronologia della Storia ufficiale il suo più grande nemico.
Le date, scandite nervosamente sullo schermo, compaiono e scompaiono, si confondono, generando nuove interpretazioni e nuove letture. Il dispositivo, già sperimentato nel cortometraggio In attesa dell’avvento (premiato a Orizzonti), realizzato nell’anno delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, dove, alle date 1861-2011 che fanno da cornice alla ricorrenza, viene interposto il 1971, l’anno dei Moti di Reggio, viene portato ad un livello decisamente più forte e intenso in Essi bruciano ancora: le date aggrediscono lo spettatore, portandolo a uno spaesamento. I numeri si trasformano poi in lettere, come in una trovata godardiana, formano delle parole, dei nomi e cognomi, luoghi, riconducibili alla Storia che tutti conosciamo: la Rivoluzione Francese, la Vandea, il brigante Carmine Crocco, Ercole Cavallaro, nuovamente i moti di Reggio, fino alla Strage di Melissa.
La ripetizione, ostinata, incessante, di motivi, date, archivi che interferiscono l’uno sull’altro è materia filmica che si fa pensiero, evocazione di quella “forza del passato” pasoliniana che tuttavia, per sfuggire alle tentazioni consolatorie, patrimonio reazionario di un nuovo possibile sanfedismo mai scongiurato, deve trasformarsi in gesto attivo, in azione.
La critica al processo unitario si sviluppa così nell’unico paradigma possibile per il superamento della questione meridionale: la lotta di classe. Il cambio di regime nel nuovo quadro statuale a guida sabauda, così come sottolineato dal testamento di Carlo Pisacane che fa da incipit a Essi bruciano ancora, e inevitabilmente anche l’avvento del regime repubblicano, non solo non mettono in discussione gli equilibri di classe ma, ancor di più, li congelano. La Nazione è da Negare nella sua essenza inscindibile dal Capitale.
In questo senso, alla tensione repressiva si risponde con un’azione brechtiana. Le statue dedicate a Garibaldi e ai caduti, con le voci off che leggono le ordinanze militari risalenti a “quando l’Italia arrivò a Nicotera Marina”, vengono sostituite dalle statue viventi degli abitanti del paese, immobili in posa di fronte alla macchina da presa: le donne, i pescatori sulla spiaggia di fronte alle barche. Le voci dei Sud si uniscono: gli accenti calabresi vengono accompagnati dall’archivio sonoro dei discorsi di Thomas Sankara. Un filo rosso mette insieme idealmente l’Italia meridionale con le ribellioni dell’Africa subsahariana, i pescatori e i diseredati con i migranti e i braccianti di Rosarno. Viene addirittura allestita una barricata, simbolo di una lotta che mai si deve arrestare.
È senza dubbio necessario guardare a Essi bruciano ancora come tassello di un percorso, un’opera che è sì compimento di un ciclo ma che pure lascia agli autori ancora tanto spazio per una nuova evoluzione. I film di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato sono attraversati in questo senso da un soffio liberatorio che, al di là di un’istanza a volte eccessivamente programmatica, offre una straordinaria consapevolezza: la possibilità di trovare nel linguaggio filmico l’unica, possibile risposta alla sottomissione, nel momento in cui questi amplia la possibilità di ridefinire e comprendere il reale, per poterlo infine combattere.