Manuel è il nome di un ragazzo, appena maggiorenne, sul quale grava un’insolita responsabilità per il futuro prossimo: quella di assumersi il carico degli arresti domiciliari di sua madre, Veronica, detenuta da cinque anni. La formazione del ragazzo appartiene già al passato: cresciuto in una casa famiglia di Civitavecchia, lunghe tavolate in una mensa giallognola, stanzette spartane e buie, urla, punizioni e colloqui (più simili a interrogatori che a conversazioni di supporto) contribuiscono a plasmare emotivamente il suo sguardo, paralizzandone il corpo in uno spazio architettonico marginale e del quale si sente prigioniero. La luce si fa più bianca nella scena che decreta l’uscita da questa struttura e di fatto l’inizio della narrazione filmica. Nessuna inquadratura esclude il protagonista che, nella parte centrale del film, resta, tanto in primo piano quanto relegato in un angolo del quadro, il punto focale di ciascuna ripresa. Manuel dimostra di possedere l’ingenuità e l’altruismo più congeniali a un presunto “messia” che a un ragazzo diciottenne appena uscito da una casa famiglia: aiuta chi è in difficoltà, cade in via provvisoria nelle “tentazioni diaboliche” del mondo, si sacrifica e resta costantemente l’unica possibilità di salvezza per sua madre.
Il film, che è anche un ritratto antropologico dell’abbandono in cui versa il litorale laziale, segna l’esordio nel lungometraggio di Dario Albertini, premiato nel 2017 col Nastro d’Argento per il miglior regista esordiente. Parte della produzione precedente di Albertini, da sempre documentarista interessato alle realtà marginali dell’aerea metropolitana romana, sembra emergere, mediante precise spie, nelle scene di Manuel. Il personaggio di Frankino, muto e amante della musica elettronica, ricorda un altro Frankino ripreso nella realtà di Incontri al mercato (2015), ammutolito dall’uso smodato di droghe sintetiche. I suoni e le luci emesse dalla slot machine di un bar, scenario del colloquio tra Manuel e l’avvocato di sua madre, alludono a Slot, le luci intermittenti di Franco (2013), documentario dedicato a un commerciante abilissimo ma affetto da una devastante ludopatia. Oltretutto Manuel discende da La Repubblica dei ragazzi (2014), che racconta con precisione filologica la nascita e le idee progressiste dell’omonima casa famiglia, la stessa nella quale è stato accolto il giovane protagonista e la cui storia viene rievocata primariamente dal personaggio di Don Marcello.
Al di là delle corrispondenze appena rilevate, il legame di Albertini con i suoi lavori precedenti è tangibile attraverso un elemento più capillare: il lavoro sulla recitazione. Il film costituisce la prima prova di Albertini con attori professionisti, eppure le modalità recitative appaiono spezzate, incapaci di chiudersi in una forma finita o professionale. Albertini sembra costringere i suoi attori, lo stesso Andrea Lattanzi (Manuel), a cercare la modalità recitativa di attori non professionisti, che, come accade nei documentari, trasformano in battute i dialoghi estrapolati dalla loro realtà. L’operazione costituisce sicuramente un rischio, sul quale aleggia il fantasma della facile esecuzione, ma contribuisce, al contempo, all’espressione della tensione emotiva che informa tutta la diegesi. Il vuoto creato dall’imitazione della recitazione documentaristica crea un’atmosfera drammatica e di crisi, che ha, a sua volta, il vantaggio di costruire un’espressione autentica dello stato emotivo dei personaggi che vi prendono parte. La vicenda di Manuel, diciottenne scaraventato, senza mezzi termini, in una realtà durissima, potrebbe sembrare la versione estremizzata di una storia vera, che resta, in sostanza, una vicenda comune, ma poco visibile.
La resa della realtà emotiva del protagonista passa anche attraverso la rappresentazione degli spazi e del soffocamento visivo e fisico che questi ultimi sono in grado di creare. Man mano che il film scorre verso la tensione degli snodi finali, a Manuel manca fisicamente il respiro. Il ragazzo attraversa luoghi angusti e sempre ben delimitati: le stanze del carcere nella quali incontra sua madre, la casa di lamiere di Frankino, la stessa casa famiglia racchiusa nel confine di una linea ferroviaria, l’abitacolo asfissiante di una corriera. La mole imponente di una crisi riguardante un ragazzo con alle spalle un percorso di crescita difficile è resa con grande linearità sia narrativa che tecnica. Albertini non racconta una storia straordinaria, rifugge dagli effetti spettacolari e dall’abuso dei primissimi piani, riuscendo, con abilità, a tendere al massimo la delicatezza psicologica della sua opera.