La domanda non è se ci sia vita oltre il cinema pop, ma se ci sia vita nel cinema pop. Ovvero se, all’interno di opere apertamente votate alla maggior diffusione popolare possibile (non di per sé una colpa), sia possibile rintracciare i prodromi di un discorso “altro”, di un sottotesto politico/culturale/sociale o sapientemente orchestrato nell’ombra dall’autore (magari forte di precise attitudini, di una poetica ben fondata nella filmografia) oppure totalmente inconsapevole, tale da favorire nello spettatore riflessioni che esondano dalle volontà di regia e sceneggiatura. Prendiamo come modello il Far East Film Festival di Udine, che da vent’anni dichiara il proprio obiettivo primario con fiero entusiasmo, quello di essere “il più grande festival del cinema popolare asiatico”. Una tagline, un mantra, uno scudo dietro cui proteggersi ma al contempo una ferma presa di posizione contro certo snobismo respingente (di Cannes, di Berlino, talvolta di Venezia). Il Far East vuole il contatto con il proprio pubblico, lo chiama e lo ammalia, cercando di veicolare i propri messaggi sempre e comunque attraverso la pietra angolare della popolarità.
Al Far East si vedono, di anno in anno e nazione per nazione, i maggiori successi dell’annata appena trascorsa. È stimolante rintracciare i fili rossi che accomunano le produzioni di Corea del Sud, Cina, Giappone, Hong Kong, Thailandia, Filippine, anche perché ogni Stato necessita di una propria personale codifica. La Corea del Sud, ad esempio, attraverso le sue commedie patinate o i suoi blockbuster emulativi wannabe-Hollywood, ci parla spesso di perdità di identità, smarrimento e rimozione: come la storia del ragazzo scomparso che riappare dopo 19 giorni e non ricorda più nulla (Forgotten), o quella della giovane madre morta troppo presto che ricompare per miracolo ma non ha più memoria dell’accaduto (Be With You). Sotto la scorza action e melò scorgiamo una consapevolezza, un respiro “reale” che sa di resa e denuncia (la Corea asservita al capitalismo, che si guarda allo specchio e non si riconosce). Di più facile inquadramento invece – e per questo meno interessanti – le pellicole che giocano a carte scoperte: Steel Rain, spy-movie che ipotizza il rapimento di Kim Jong-un e sogna il disgelo fra Nord e Sud; The Battleship Island, epopea epica su un pezzo di storia coreana dimenticata; 1987: When the Day Comes, che ripercorre la vera storia delle ribellioni studentesche avvenute sul finire degli anni ’80, represse nel sangue e insabbiate dal regime militare di allora.
Apriamo una parentesi: per gli amanti delle statistiche, è interessante notare come sia proprio il cinema coreano quello a fare maggiormente breccia nei cuori della platea. I titoli più amati – e votati: la giuria del FEFF è totalmente popolare – sono stati i sopraccitati 1987: When the Day Comes (1° posto) e The Battleship Island (3° posto), seguiti da Last Child (Miglior Opera Prima). Un’egemonia spezzata solo dalla scheggia impazzita Zombie contro Zombie (2° posto), irresistibile virtuosismo made in Japan che, muovendosi in direzione ostinata e contraria rispetto al ragionamento fatto finora, restituisce a chi guarda l’idea di un cinema votato al purissimo divertimento privo di retorica e sottotesti, alla fantasia – e alla tecnica, e all’estetica – che si libera di qualunque orpello allegorico facendo coincidere catarticamente mezzo e fine, significante e significato. Di tutti i 55 film proposti in anteprima alla manifestazione udinese, solo Zombie contro Zombie è arrivato nelle nostre sale grazie ad una distribuzione ufficiale, per merito della Tucker Film: forse un segnale di come, al di là del circuito festivaliero, l’industria cinematografica nipponica continui ad essere quella più vicina al gusto europeo e occidentale, quella che produce una più immediata accettazione e condivisione da un punto di vista commerciale.
Dal Giappone alla Cina, dove invece ufficialmente esiste solo il cinema di regime, e non è ammesso parlare di eventi che scuotono le masse. La Settima Arte non deve impaurire (al bando gli horror), non deve affrontare argomenti spinosi che possono risvegliare e destabilizzare le coscienze e può mostrare eventi storici passati solo in chiave patriottica. I registi cinesi camminano sul filo: l’ostracismo è ad un passo (come insegnano i casi di Zhang Yimou – su cui pesa anche la “colpa” di non aver seguito la famigerata legge del figlio unico – e Jia Zhang-ke), per esprimere le proprie opinioni occorre essere degli illusionisti capaci di doppi, tripli giochi. Il maestro indiscusso di questa categoria è Feng Xiaogang, conosciuto come “lo Steven Spielberg cinese”. I suoi lavori sono al contempo clamorosi atti di sovversione sociale e inattaccabili prodotti invisibili ai severi radar della censura. La superficie da disaster movie celebrativo di Aftershock nasconde fra le righe l’inettitudine con cui le alte sfere statali hanno gestito l’emergenza terremoto del 1976; l’innocuo virtuosismo in costume I Am Not Madame Bovary svela col passare dei minuti una spietata denuncia alla illogica e controversa autorità precostituita del governo centrale; il manierato affresco storico Youth – ambientato durante la Rivoluzione Culturale e la guerra sino-vietnamita – ripercorre le gravi sofferenze patite da generazioni di cittadini cinesi, per avere accesso alla modernità.
I riferimenti al reale e ad una sua interpretazione abbondano anche nelle cinematografie minori, e anzi è proprio il coraggio espositivo e narrativo a nobilitare operazioni che altrimenti sarebbero probabilmente indifendibili: l’indonesiano Night Bus, senza la sua – per quanto didascalica e ripetitiva – retorica sull’orrore della guerriglia sub-urbana sarebbe ben poca cosa; il filippino Smaller and Smaller Circles trova la sua ragion d’essere nell’ingenuo incedere di film a tesi, volto a evidenziare le contraddizioni di una società divisa in caste e governata con ipocrisia. Ci sembra questo il fine ultimo del Far East Film Festival, cesellato pazientemente edizione dopo edizione: non tanto – o non solo – la mera rappresentazione dei maggiori incassi panasiatici, suddivisa abbastanza eterogeneamente fra commedie per teenager, sci-fi alternativi (allo strapotere occidentale), gangster movie ed epopee tragiche “bigger than cinema”; quanto piuttosto la certezza che sotto il guscio pop si annidino metafore e ragionamenti stratificati, tali da rendere possibile una mappatura della contemporaneità – cinematografica e umana – orientale.