Fin da Sex, Lies, and Videotape (1989), il cinema di Steven Soderbergh si è confrontato con le nuove tecnologie dell’audiovisivo, portando avanti quella riflessione sullo sguardo cinematografico sviluppata da autori come Hitchcock, De Palma e Lynch. Di questa sua recente esperienza sul terreno del cinema digitale – Unsane è girato interamente con un iPhone – ciò che sorprende non è perciò tanto la sensazione di continuità tra la prima e l’ultima opera di un regista la cui lunga e prolifica carriera è per molti versi caratterizzata da un’estrema versatilità. Unsane colpisce invece per la convinzione con cui la questione delle nuove tecnologie sembra essere chiamata in causa per riaffermare la particolare capacità del cinema nell’esplorare la natura dello sguardo in un contesto audiovisivo apparentemente molto cambiato. Esattamente come nel suo film d’esordio, insomma, Soderbergh mostra di voler continuare ad affrontare le motivazioni profonde del suo mezzo espressivo, accettando le sfide dei nuovi media ma sforzandosi di dimostrare la vitalità di un’arte da troppi vista in modo nostalgico o museale.
È utile sottolineare che Unsane avrebbe probabilmente potuto evitare ogni riferimento esplicito all’attuale contesto mediale ed essere realizzato impiegando soltanto tecnologie “tradizionali” (comprendendo in questa definizione anche l’uso di videocamere digitali). Il film racconta di una giovane professionista vittima di stalking, prima, e di violenze sempre più brutali, poi, da parte di un uomo che si dice disperatamente innamorato di lei. Nei primi minuti, Unsane si preoccupa di fornirci un succinto ma incisivo ritratto della protagonista, magnificamente interpretata da Claire Foy. Sawyer è una donna ambiziosa ma fortemente asociale, del tutto incapace di avere rapporti sentimentali a causa della sua profonda paura nell’instaurare ogni tipo di relazione con gli altri. Quando la protagonista si presenta da una psichiatra per cercare rimedio ai suoi comportamenti paranoici, il film prende la direzione del thriller-horror psicologico di ambientazione manicomiale, con chiari richiami anche a “puzzle film” come Shutter Island (Martin Scorsese, 2010). Sawyer viene rinchiusa contro la sua volontà per una settimana all’interno dell’istituzione psichiatrica a cui si era rivolta: abusando della sua noncuranza nel firmare alcuni documenti, l’ospedale è in grado di tenerla “sotto osservazione” per un periodo minimo di sette giorni e incassare così i soldi della sua assicurazione. Sawyer, e lo spettatore con lei, cominciano a domandarsi se quello che vede è reale o solo frutto del suo stato mentale. La situazione precipita nel momento in cui lo stalker assume l’identità di uno degli infermieri e comincia a perpetrare una serie di omicidi nel tentativo di convincere la protagonista a fuggire con lui.
Unsane mette in scena questo materiale narrativo abbastanza convenzionale – e perfettamente adatto a un trattamento (post-)classico – senza richiamare costantemente alla mente dello spettatore la scelta di usare un iPhone come macchina da presa. Se Unsane certo enfatizza la mobilità e leggerezza del telefono-videocamera attraverso inquadrature angolate e l’uso persistente di primi piani ravvicinati, il film sembra insistere soprattutto sulla prossimità visiva tra lo spettatore e l’attrice protagonista piuttosto che attirare l’attenzione del pubblico sulla tecnologia utilizzata per effettuare le riprese. Altra cifra stilistica del film è l’uso molto insistito del grandangolo, chiaramente associato all’esperienza psicologica di Sawyer. Anche in questo caso la costruzione delle inquadrature che ne risulta è del tutto in linea con un certa tradizione di genere, ricollegandosi direttamente a certi stilemi del particolare filone a cui il film si richiama. Unsane può quindi essere tranquillamente fruito in primo luogo come un buon thriller in grado di coinvolgere lo spettatore nella situazione drammatica che mette in scena, piuttosto che essere immediatamente percepito come un esercizio meta-linguistico sull’impatto degli smartphone sulla produzione o l’estetica del cinema.
Se Soderbergh e gli sceneggiatori decidono di inserire esplicitamente il tema delle nuove tecnologie in un testo che potrebbe averne fatto tranquillamente a meno dev’esserci quindi un altro motivo, che può essere forse individuato nella volontà di mostrare la capacità del cinema di esplorare il contesto in cui il film prende forma. Nella sceneggiatura, in effetti, lo smartphone gioca un ruolo di primo piano non tanto nel far avanzare la trama quanto nel delineare la personalità di Sawyer, nel mostrare alcuni usi di questa tecnologia e addirittura nel permettere ai personaggi di discutere esplicitamente del suo impatto sulle relazioni sociali contemporanee. Da questo punto di vista è cruciale il flashback in cui la protagonista ingaggia una sorta di esperto della sicurezza personale per metterla al sicuro dalla minaccia dello stalker. Questa sequenza, per molti versi slegata dal resto del film, ha la funzione di chiarire senza ambiguità il contesto socio-culturale – per non dire ideologico – in cui l’atteggiamento paranoico di Sawyer prende forma. Le parole di questo “esperto”, un personaggio del tutto secondario rispetto al racconto principale (come sottolineato anche dal divertente cameo di Matt Damon), sono infatti volutamente didascaliche: “Lo smartphone è il tuo nemico!”. Come se non bastasse, lo stesso personaggio consiglia alla protagonista la lettura di un libro di self-help intitolato Il dono della paura (Gavin de Becker, Boston 1997). Insieme agli altri elementi della sceneggiatura menzionati sopra, Unsane offre perciò una prospettiva estremamente connotata dell’uso e dei discorsi dominanti a proposito di tecnologie come lo smartphone. Dalla paura del contatto sociale all’ossessione per il controllo della propria immagine, dall’essere oggetto di aggressioni di singoli individui al divenire vittima di una cospirazione di livello nazionale, la situazione in cui si trovano la protagonista e buona parte dei personaggi delinea senza dubbi una situazione di ansia e pressione psicologica continue, in cui il soggetto è costantemente bombardato da messaggi contraddittori che lo spingono a cercare di mantenere una sempre maggiore distanza dagli altri individui ma, simultaneamente, lo costringono a posizionarsi sempre più frequentemente sotto lo sguardo inquisitore dell’altro.
Per quanto riguarda messa in scena e regia la questione è forse più sottile, sebbene la scelta di girare il film con lo stesso dispositivo di cui nella sceneggiatura si parla in questi termini sia ovviamente di per sé altamente simbolica. Come già detto, tra le principali scelte stilistiche di Unsane si trovano la valorizzazione della leggerezza della camera, l’uso costante del primo piano e del grandangolo e la centralità della performance dell’attrice protagonista. A contatto con la materia offerta dalla sceneggiatura, queste soluzioni stilistiche appaiono mirate alla costruzione di una posizione spettatoriale interamente presa nella tensione tra la focalizzazione sull’esperienza della protagonista e un’attenzione analitica verso le condizioni strutturali che informano la sua esperienza soggettiva. La prossimità al punto di vista del personaggio non intende quindi suscitare la semplice identificazione dello spettatore quanto piuttosto rendere evidente la persistenza di una frattura, seppure minima, che risiede all’interno del soggetto dello sguardo.
Come detto, questa tensione è evidenziata anche dalla sceneggiatura attraverso l’ambiguità che la prima parte del film si preoccupa di conservare circa la salute mentale della protagonista. Ma mentre sul piano narrativo questa incertezza viene sciolta abbastanza rapidamente – Sawyer è riconosciuta cioè come una narratrice attendibile – la tensione di cui si tratta qui è invece mantenuta fino alla fine attraverso il rapporto che il film istituisce tra lo sguardo dello spettatore e quello del personaggio, un rapporto che allude esplicitamente a quello tra il soggetto utilizzatore di tecnologie digitali e l’immagine (di se stessi) che queste producono costantemente. Lo sguardo della macchina da presa/smartphone non cerca infatti di metterci nei “panni” della protagonista, di assumere la sua identità, bensì di metterci in qualche modo nella sua “pelle”, in quello scomodo “contenitore” della nostra soggettività che mai potremo confondere interamente con la nostra identità. È questa la lezione di cinema di Soderbergh, ed è questa la lezione che il cinema (o questo tipo di cinema) ha da offrirci a proposito della promessa dei mezzi digitali di abolire la distanza del soggetto da ciò che guarda, e in particolare la distanza del soggetto da se stesso in quanto oggetto dello sguardo dell’altro. Ciò che Unsane racconta – mostrandocelo attraverso le stessi lenti di cui parla – è infatti l’impossibilità di utilizzare dispositivi come lo smartphone come strumenti in grado di tenere a distanza, e cioè sotto controllo, tanto il mondo esterno quanto l’immagine che il soggetto vuole proiettare di sé.
È infatti questa la funzione che sembrano poter svolgere gli smartphone all’inizio del film e che, invece, essi dimostrano progressivamente di non poter garantire. Nella prima parte, la protagonista e il film stesso appaiono suggerire la posizione di forza del soggetto/individuo parlante sulla (propria) immagine. Dalla primissima inquadratura accompagnata dalla voce narrante dello stalker a una di poco successiva in cui Sawyer discute con la madre via videochat, la parola indica allo spettatore e ai personaggi stessi il significato di ciò che lo sguardo dà a vedere. Man mano che film avanza, appare tuttavia sempre più chiaro come lo sguardo del soggetto non si trovi nelle mani (o nella voce) dell’individuo parlante, ma sia invece inscritto in una struttura simbolica (il rapporto vittima/torturatore, l’ospedale psichiatrico, lo stesso genere thriller) e poi ancor più radicalmente in un’economia libidinale e politica profonda (il background psicologico dei personaggi, il sistema della truffa assicurativa, le pulsioni sessuali, la violenza individuale e collettiva). Mentre il film si sviluppa e la protagonista perde sempre più il controllo sulla propria identità, lo spettatore è perciò portato sempre più a percepire e riconoscere il proprio stesso sguardo come sospeso tra la sensazione di prossimità permessa dalle tecnologie digitali e quella distanza minima e tuttavia incolmabile che permane tra colui che guarda e l’oggetto visto, anche e soprattutto quando quest’ultimo è il soggetto stesso che si guarda (o si sente guardato).
Non è quindi certamente un caso che l’epilogo di Unsane riattivi almeno per qualche secondo l’ambiguità che aveva caratterizzato l’inizio del film. In quest’ultima scena, Sawyer dimostra di non aver eluso il trauma che dava il via alla vicenda e che sembrava superato con il compiersi della trama. Se l’indecisione circa lo statuto di attendibilità della narratrice viene risolta rapidamente, eliminando ancora una volta l’ambiguità nei confronti di ciò che stiamo vedendo, questa conclusione non esita a mettere nuovamente lo spettatore nella posizione più scomoda, collocandolo cioè a stretto contatto con l’esperienza soggettiva della protagonista ma enfatizzando contemporaneamente la straniante sensazione di essere in grado di osservarsi dal punto di vista dell’altro.