Tra il 1971 e il 1972 Rainer Werner Fassbinder stava lavorando a Le lacrime amare di Petra von Kant, uno dei capolavori del regista tedesco e del cinema tutto. Nel frattempo, grazie ai suoi ritmi infaticabilmente prolifici, lavorava anche per la tv: la Westdeutsche Rundfunk, dopo aver commissionato film ad altri registi come Christian Ziewer, Theo Gallehr, Rolf Schtibel, Ingo Kratisch e Marianne Ltidcke, scelse infine Fassbinder per una serie su una famiglia della media borghesia alle prese con i quotidiani problemi di lavoro ed i conflitti intergenerazionali. Acht stunden sind kein tag, traducibile in italiano come Otto ore non sono un giorno, andò in onda in cinque puntate tra l’ottobre 1972 e il marzo 1973 e chi oggi dovesse vederne anche solo un estratto, senza conoscere il nome dell’autore e senza riconoscere la sua consueta squadra di attori, farebbe fatica a dirlo lo stesso di Petra von Kant.
Le due opere dicono cose molto lontane, si occupano di mondi distanti eppure se si compie l’ardire di accostarle ecco svelato l’intero mondo fassbinderiano: la forza sofferente del mondo femminile, l’utopia, la radicalità del pensiero, il gruppo che sostiene, trasforma e rigenera il singolo. Tra il teatrale e magniloquente film presentato con stupore a Berlino e la pulizia di caratteri e di regia del serial interrotto prima di quanto programmato, la distanza va cercata nel contesto produttivo e nel target di pubblico su cui le due opere si modellano. C’è una precisa regola su cosa può fare un personaggio in una prima serata tv e cosa può fare, magari lo stesso personaggio, su un palco di teatro sperimentale, una cosa in particolare qui soffre della sua stessa evidenza: il desiderio di morire. Una delle donne in Le lacrime amare di Petra von Kant, in uno dei momenti culminanti del film, nel silenzio nell’attenzione assoluti degli spettatori, può dire a piena voce di odiare la vita; una delle donne di Otto ore non sono un giorno può dirlo con ogni espressione del viso, con le lacrime, con la postura del corpo e con la fragilità dei suoi passi, ma non può dirlo con la sua voce. Fassbinder dovette interrompere Otto ore al quinto episodio perché un suo personaggio odiava la vita e sullo schermo doveva invece trovare soluzioni alternative ed evitare, quasi per una repulsione magnetica – dove il magnetismo qui non è altro che morale – il suicidio.
Ma non fu solo questo: Otto ore non sono un giorno, visto nell’opera complessiva di Fassbinder, assume a sorpresa il ruolo del film più apertamente politico della sua cinematografia. Ciò ha una precisa spiegazione, data dallo stesso autore, che di nuovo tiene gran conto del sistema produttivo, del pubblico e del mezzo che avrebbe veicolato le sue storie. La WDR, con la sua collana di Arbeiterfilm (in italiano, Film di lavoratori), voleva perseguire uno scopo sociale e attraverso una riproduzione fedele, mimetica e quasi documentaristica delle classi meno agiate creare una vasta coscienza di cosa fosse il popolo tedesco in quel preciso momento storico. Fassbinder aderì molto positivamente a questo percorso ma con un’idea, come suo solito, molto personale: “I miei film e le mie opere teatrali sono create per un pubblico di intellettuali […]. Si può essere pessimisti con gli intellettuali e costruire film che finiscano senza alcuna promessa, perché un intellettuale può sempre permettere alla sua ragione di intercedere. Ma in una produzione televisiva, con un pubblico ben più ampio, sarebbe reazionario – quasi criminale – rappresentare un mondo privo di promesse, perché prima di ogni cosa bisogna dare coraggio agli spettatori e dir loro: per voi ci sono possibilità! Avete un potenziale da mettere all’opera, perché chi vi opprime dipende da voi”.
Se nei rapporti personali ed emozionali, come per Petra Von Kant, le forze in gioco possono essere unilaterali e avere un unico punto di applicazione senza ritorno e aciclico, nei rapporti economici nulla sopravvive alla stessa maniera: ciò che avviene fluisce tra uscita ed entrata, trasformandosi, scambiando la sua natura a partire dal concetto di equivalenza. Otto ore non sono un giorno si definisce così come complementare a Petra von Kant: là lo spazio è chiuso, qui è centrifugo e moltiplicativo, la camera fissa si fa virtuosa, l’azione prende il posto della parola, lo scambio che lì è precluso qui diventa denominatore comune. Il valore delle “lacrime amare” non è quantificabile, non è equivalente a nulla, per assurdo l’unico aspetto che ha valore è quello che ogni altra cosa annulla: la meravigliosa pace della morte. Invece Jochen, il protagonista di fatto di Otto ore, è il contrario della morte, della pace, della stasi, è un generatore invidiabile di energie, laddove c’è ritrosia elimina gli attriti, laddove c’è rassegnazione lì fiorisce una sua idea. Geniale, cortese, determinato e un po’ codardo, Jochen è il motore degli eventi nei due ambienti in cui si muove la serie: la casa di famiglia e la fabbrica in cui lavora. “Prenditi il tuo tempo, non la tua vita”, dice una battuta del film, otto ore non fanno un giorno intero e non così vanno valutate; “un lavoratore non è solo un lavoratore” sembra dire Fassbinder, è anche un uomo, una donna, e la sua vita occupa più ore, quindi conta di più: si lavora per vivere e non viceversa. Il gruppo in cui lavora Jochen, bello perché vario, è una fucina di idee e di esperienze: alla fine delle cinque puntate promuove un proprio componente a caposquadra, ottiene l’autogestione dei turni di lavoro e dei mezzi di produzione, rende equanime la paga, realizza modelli meno costosi e più efficaci pensando più e meglio dei tanto riveriti ingegneri. Proprio le sue vicende e conquiste hanno procurato a Fassbinder un’accusa di aperta utopia, di distacco dalla realtà e di assoluta infedeltà sociale. La WDR sembra abbia rifiutato tutti gli estremi, quelli negativi come quelli positivi, mentre Fassbinder vuole accoglierli entrambi, invitando a cercare una dichiarazione etica non negli eventi, di per sé coscientemente improbabili, ma nello spirito collettivo e dei personaggi.
In uno scambio di vedute tra Jochen e il figlio di sua moglie Marion, nato da una precedente relazione, i due discutono di cinema e realtà concludendo che a volte “il cinema è realistico, mentre la realtà non lo è”. È questa una contraddizione apparente che Fassbinder ha la forza cinematografica per sovvertire e risolvere: narrare la realtà è ontologicamente impossibile perché, come nella rincorsa di Achille alla tartaruga, non appena la si vuol fermare per registrarla essa cambia; in questo modo quella appena descritta è una rappresentazione di fatto infedele. I personaggi di Otto ore mutano aspetto, tono, atteggiamento, tra sequenze diverse ma anche nel corso di una stessa scena, così la loro diviene una ricerca ipotetica, come quella effettuabile con personaggi storici o del futuro che collocati altrove parlano al presente: “Non tutto ciò che esiste è necessario” dice Jochen al padre incredulo di fronte ai suoi cambiamenti e ai cambiamenti delle dinamiche in fabbrica. Da questo punto di vista scommettere sull’ipotesi e sull’utopia ha tanto valore di verità della descrizione fedele; in più si infonde coraggio e a questa possibilità di emulazione Fassbinder ha affidato tutto il peso politico di questa opera “per molti”. Dove la rappresentazione vuole farsi positiva e propositiva lo spirito deve essere evidente e quest’evidenza equivalse per molti ad una presa di posizione, un aperto schieramento che un canale televisivo non poteva permettersi.
Quando Fassbinder tornò a parlare al grande pubblico direttamente nelle loro case – e non furono poche volte (Il mondo sul filo, 1973, Angst vor der Angst, 1975, Berlin Alexanderplatz , 1980, e altri ancora) – usò lo stesso ardore ed esercitò lo stesso democratico richiamo, quasi come se ciò che nel suo cinema è destinato a farsi assoluto e sublime, un’onomatopea del pensiero, trasferendosi nel mezzo televisivo si caricasse di genuinità e peso, donando ai suoi caratteri un’ombra pedagogica. Guardando al secondo episodio – quello in sé più compiuto, che lascia intravedere un arco narrativo più esteso di quello poi effettivamente realizzato –, in cui la nonna di Jochen e il suo compagno fondano clandestinamente un asilo, siamo di fronte ad una situazione che richiama e rispecchia metaforicamente autobiografia e ideali dell’autore tedesco, dall’idea steineriana di scuola alla tenace resistenza agli obblighi imposti dall’alto, dall’autoeducazione alla presa di coscienza collettiva. Ponendo Petra von Kant come soddisfazione tutta intellettuale di Fassbinder, Otto ore appare come la sua incarnazione, dando sfogo al suo istinto più pratico: se il Cinema se non può essere vita, né può essere la realtà, almeno la faccia nascere o rigenerare, anche tra coloro che dicono di sé “Siamo infelici, ma quando dobbiamo chiedere qualcosa per migliorare la nostra situazione, non sappiamo mai cosa dire”.