Per quanto sia privo del pessimismo antropologico di fondo che contraddistingueva l’opera del ’76, Thelma di Joachim Trier può sulla carta far pensare al Carrie di De Palma per più di un motivo: è difatti un racconto di formazione in cui una ragazza che cerca di emanciparsi da un’autorità genitoriale bigotta e opprimente è vittima di poteri psichico/telecinetici tutt’altro che facili da controllare. Se da una parte non fanno la loro comparsa (se non sporadicamente) l’emarginazione o il più generico scontro tra l’alterità sociale e il microcosmo familiare, dall’altra il percorso che tende la protagonista tra la mancata accettazione della propria crescita e natura e i più tremendi esiti della manifestazione dei suoi poteri è, a conti fatti, il nucleo vibrante del complesso narrativo di Trier. Vediamo quindi lo stile dilatato e gorgogliante del regista norvegese addentrarsi in una materia già sovrabbondante di topoi e archetipi, desunti direttamente dal super-eroistico quanto dal thriller sovrannaturale, e tratteggiare i confini di un mondo che sembra completamente disinteressato al proprio rischio di cadere nel già visto o nel già noto, di cui l’opera di De Palma e il romanzo di King sono solo alcune delle possibili scaturigini. Il punto di forza di Thelma è però il suo incedere interiore e simbolico – tutto basato sul problema, originale rispetto alla frammentata e vasta tradizione da cui il film deriva, della distanza tra realtà e finzione.
Per quanto a volte rischi di trasformarsi in onnipresente e sonnolento accompagnamento, il tappeto sonoro che carezza le visioni del film (e più in generale del cinema di Trier tutto, da Oslo, August 31st a Segreti di famiglia) va a sostenere un’idea di fondo tutt’altro che accessoria nella sua economia concettuale: la possibilità, rigorosamente non-visibile, che non ci sia modo di discernere la realtà delle cose dalla loro deformazione sovrannaturale – che cioè il racconto si pieghi a rappresentare un percorso a tutti gli effetti interiore, indipendentemente dal suo saltuario incontro col mondo dei fatti fisici e osservabili. Così per quanto si insista a smarrire la protagonista nella folla o nell’ambiente circostanti (con campi lunghissimi dall’alto o con visioni complessive di spalti, platee, paesaggi) si ha l’idea che la sua esistenza sia tutt’altro che analoga a quelle che la circondano: si inizia anzi ad avere il dubbio che i suoi poteri siano effettivamente creativi, oltre che pericolosi o distruttivi – che non solo siano in grado di uccidere gli animali o far tremare la terra, spostare o far svanire le persone, ma che possano di per sé essere anche alla base del sentimento che lega Thelma alla coetanea Anja. Ecco che le due ragazze non sono più semplici amanti alla scoperta della propria sessualità, ma che la prima diventa un mero oggetto del desiderio della seconda, investito come una marionetta di altrui volontà e brame. Se Thelma scopre con orrore di essere la responsabile di alcune morti, per forza di cose noi ci sorprendiamo a darle la colpa di ogni singolo evento che avviene sullo schermo: non possiamo conoscere il limite del suo controllo sulla materia e sulle menti di chi la circonda. Ci viene chiarito quando, la prima notte che le due escono assieme, Anja ricerca la protagonista come in preda a un episodio sonnambulico: non ricorda nulla e dà la colpa all’eccesso di alcool della serata – solo chi osserva da fuori (o chi si scopre da dentro – Thelma stessa) sospetta l’ingresso di un condizionamento altro. Così dal flashback ai ricordi rivelatori ogni interazione della ragazza al centro del racconto si trasforma in un’estensione diretta della sua volontà: la sua crescita utilizza gli altri come specchio esteriore, ma è un processo che non ha che matrici interne.
Seguendola, la gestione stessa degli spazi e tempi narrati si ritorce sull’individualità del personaggio: incapace di abbandonarsi all’indipendenza Thelma si nega il proprio desiderio e fa svanire la marionetta che ha avvicinato a sé, quindi si tuffa, in preda al terrore, in un passato rimosso. Dagli ambienti scolastici e cittadini di nuovo a quelli domestici: l’abitazione in cui è cresciuta e il lago dove suo padre si dirige periodicamente a pesca – qui il finale del suo viaggio di accettazione e responsabilizzazione passa per il culmine crudele del parricidio svelandola, questa volta più che mai, vicina alla genuina cattiveria della Carrie di King e De Palma. In risposta alla sua incapacità di affrontare la crescita, il ritorno alle origini di Thelma si chiude con un rifiuto netto di una familiarità disastrata: tuffandosi nel lago dove ha dissolto il fratello e il padre la ragazza si ritrova a nuotare nella piscina del college. Allora il passato si annulla nel presente, scoprendosi composto della medesima materia. È anche in questa transizione, spazio/temporale e interiore assieme, che il film di Trier riafferma la propria natura intimista: poco importa delle colpe dei genitori o della figlia, poco importa dell’autenticità dell’amore di Anja – i suoi poteri (e la loro natura squisitamente finzionale, sostenuta non a caso da vistosi effetti in computer grafica) hanno trasformato chiunque la circondasse in uno specchio della sua personalità, crudelmente asservito alla propria funzione formativa. In ultima istanza il potere della protagonista e di questo cinema, che gli ruota ossessivamente attorno, è tutto qui: consiste nella capacità di creare dal nulla un cosmo di storie, azioni e relazioni così ambiguo e sospeso da far smarrire del tutto qualsiasi polarità tra reale/finzionale o interiore/esteriore.
Che questo implichi il rischio di uno smarrimento del senso complessivo dell’opera, tanto autoriflessiva e referenziale da abbracciare quasi il gratuito (nella sua dilatazione, nelle tematiche, nelle modalità di messinscena), è un problema che Trier sembra non porsi affatto, ma che, a fronte di molti nodi di fascino, potrebbe essere lo stesso spettatore a suggerigli.