Nel 2013, dopo l’uscita del film tv Behind the Candelabra, Steven Soderbergh aveva annunciato il ritiro dalle scene, salvo poi cambiare idea in maniera neanche troppo plateale e ritornare in pista per fare quello che gli è sempre riuscito meglio: sperimentare sul linguaggio. Quasi in parallelo a La truffa dei Logan (Logan Lucky), infatti, Soderbergh ha girato in segreto Unsane, l’horror con Claire Foy realizzato con un iPhone 7 Plus, e la serie HBO Mosaic, disponibile anche su un’app che permette di concentrarsi sulla storia considerando la pluralità dei punti di vista dei protagonisti. Questo perché a) il mezzo tecnico e b) la modalità con cui formulare un contenuto che sia destinato alla ricezione culturale sono gli aspetti che più interessano il percorso stilistico di Soderbergh, da sempre disposto a sacrificare l’estetica in nome di un’idea di cinema sorprendente, diversificata e autonoma. È così che si spiegano diverse tappe cruciali nella sua carriera, dall’esordio folgorante con Sesso, bugie e videotape ai grandi successi commerciali (Erin Brockovich, Traffic, che gli è valso l’Oscar, la saga degli Ocean’s), fino ad arrivare alle rupi scoscese: operazioni come Bubble, che nel 2005 esce in simultanea in sala, su DVD, online e via cavo, con attori non professionisti, o come The Girlfriend Experience, girato con un budget risibile (1 milione di dollari e poco più), con una Red One e Sasha Grey come protagonista.
Il 2017 è l’anno in cui Soderbergh auto-produce e auto-distribuisce, attraverso la sua compagnia Fingerprint Releasing, proprio La truffa dei Logan. Un ritorno sulle scene che si traduce nella sintesi degli elementi più riconoscibili del suo cinema: da un lato la vocazione a circondarsi di grandi star (Channing Tatum, Adam Driver, Daniel Craig, Riley Keough, Katie Holmes, Hilary Swank), dall’altro il lavoro in riduzione, che scarnifica il suo cinema di orpelli e barocchismi poco funzionali, in questo caso, alla necessità della storia che vuole raccontare. La truffa dei Logan è il resoconto, parossistico ed emotivamente bulimico, di una rapina organizzata da una congrega di disgraziati: due fratelli (i Logan del titolo) reduci di guerra, menomati e allo sbaraglio, e un galeotto a loro vicino e altrettanto disperato. Obiettivo: una mega rapina nel corso della Coca-Cola 600, vertiginosa gara automobilistica organizzata alla Charlotte Motor Speedway, North Carolina.
Quello che colpisce del titolo di Soderbergh non è soltanto la rigorosa architettura da heist movie fatta di montaggi alternati e stratificato lavoro sui personaggi nella quale immerge il film, ma la straordinaria vitalità del suo autore nel reinventarsi seguendo un linguaggio assolutamente tradizionale: quello del grande ritratto umano. Tracciando una linea di energica classicità, il film si apre con una citazione di John Denver, ovvero Some Days are Diamonds (Some Days are Stone) e fa di Denver uno dei propri cuori pulsanti: la figlioletta del protagonista, in uno dei momenti più intensi del film, canta durante un concorso di giovanile bellezza Country Road, il brano preferito del padre. È un passaggio fondamentale: una traccia di quel residuo di America ingenua, provinciale e non bifolca, che probabilmente ha votato Trump e che ha diritto di essere raccontata nella sua umanità. Le viscere del North Carolina e del West Virginia si irrobustiscono nei pensieri dei protagonisti, soprattutto in riferimento ai personaggi di Channing Tatum e Adam Driver: sfigatissimi uomini “di cuore” in una terra che è un’infinita provincia, dove i dolori individuali vengono digeriti alla mercé di una grandezza impossibile da arginare.
È per questa ragione che le loro azioni, siano legate alla rapina o a gesti di curiosa gentilezza, sono destinate a essere obliate; non c’è retorica, nel film di Soderbergh, semplicemente perché i suoi personaggi non sovvertono nulla, sebbene la costruzione “classica” del film possa erroneamente spingerli verso una dimensione eroica. Viene in mente il discreto film di Martin McDonagh, Tre manifesti a Ebbing, Missouri: anche lì si parla d’America, di profondità e di disperate miserie, seppur con una dimensione storicistica piena, compiaciuta, che nel film di Soderbergh manca del tutto. È come se la miseria, il dolore e la disperazione fossero accompagnate dalle loro componenti più scanzonate, generando un equilibrio discreto che per Soderbergh bene si attiene alle regole del cinema tradizionale. Scavando, però, ci si rende conto come il regista non sia interessato a nessuno di questi aspetti; quello che vuole è catturare un frammento colorito, un attimo frenetico, un pensiero un po’ dolente dove un fratello zoppo si completa all’altro che è senza un braccio, tra una birra di periferia e un matrimonio finito, dettagli tra i dettagli di una medietà che lascia Soderbergh libero di divertirsi, e di consegnare al pubblico un film onesto, che si re-inventa a partire dal già conosciuto, che respira a pieni polmoni la sua libertà.