Non è difficile immaginare Aleksandr Sokurov entrare in una delle aule della Kabardino-Balkarian State University, non lontano dai monti del Caucaso, per iniziare la sua lezione di regia cinematografica, con gli studenti che lo attorniano ascoltando cosa significhi fare cinema per un autore russo nel 2018. Insegnare a costruire un’immagine che sia insieme etica e dissacrante, sporca e allo stesso tempo ripulita da ogni scoria di spettacolo fine a se stesso, nella Russia di Vladimir Vladimirovič Putin, non dev’essere invece affatto facile. Eppure sembra che almeno uno dei suoi allievi abbia interiorizzato questi insegnamenti e sia riuscito, a soli 26 anni, ad affiancarsi ai migliori registi russi contemporanei, maestro compreso. Kantemir Balagov, classe 1991, con Tesnota (Closeness), firma una delle opere prime più importanti degli ultimi anni.
1998, Nalchik, Caucaso settentrionale, gli stessi luoghi di origine del regista. Ilana lavora con il padre in una piccola officina meccanica, mentre tutta la famiglia è in attesa dell’imminente matrimonio di suo fratello David, che tuttavia un giorno viene misteriosamente rapito, insieme alla sua promessa sposa. La comunità ebraica di cui le famiglie dei due fidanzati fanno parte si riunisce per mettere insieme il denaro necessario per pagare il riscatto, ma i soldi non bastano.
Closeness traduce solo in parte il titolo originale: in russo infatti tесноtа più che vicinanza significa spazio ristretto, claustrofobico, ed è proprio da questa claustrofobia che Balagov dirama i significati più intimi della sua opera. Questa asfissia degli spazi (sia interiori che esteriori) viene tradotta in immagini incorniciate da un ingabbiante aspect ratio 1.33:1, e non è un caso che Ilana faccia la sua comparsa intenta a riparare il motore di un’automobile, muovendosi tra anfratti angusti e pressoché inesistenti. Ogni contatto personale, ogni rapporto con i luoghi della quotidianità di Nalchik viene messo in scena a spazio ristretto, tradendo volutamente un equilibrio precario, che dalla dimensione fisica si trasferisce immediatamente a quella mentale, restituendo un’immanenza assoluta dell’immagine narrata e dei corpi che la abitano, immanenza che mai come in questo cinema assume il significato puro (o ripulito, appunto) di una realtà che rimane tale in quanto intimamente legata a un’altra, di cui costituisce le garanzie di sviluppo e di affermazione. Tuttavia il legame ontologico tra i personaggi e la situazione sociopolitica russa sullo sfondo non assumono mai uno slancio propositivo, ma al contrario generano un vortice che risucchia il futuro e lo trasforma in un assoluto presente. Ecco allora che lo snuff movie che testimonia le feroci uccisioni che avrebbero dato inizio al secondo conflitto ceceno, e in cui Ilana e un gruppo di amici si imbattono increduli un pomeriggio, espande il proprio significato e mediaticamente diventa specchio della violenza terroristica che nell’era contemporanea si appropria delle astuzie della società dello spettacolo occidentale, per insinuare la propria propaganda all’interno di più menti possibili (uno dei ragazzi che assistono al videotape nel film ne giustifica infatti la violenza).
Se nel cinema russo degli ultimi 20 anni cineasti come Aleksej German Jr., Andrey Zvyagintsev e lo stesso Aleksandr Sokurov hanno sempre cristallizzato nella finzione il riflesso di una realtà che a stretto giro legava pubblico e privato, Balagov si spinge a confondere queste due dimensioni in un unico spazio, partendo da vicende realmente accadute e immergendole in una fiction depotenziata, che assume la forma di una realtà altra, riuscendo a ricollocare determinati elementi del suo svolgersi e riflettendo così l’essenza più profonda del complicato divenire postmoderno. L’ascesi compiuta da questa delicata operazione di riposizionamento delle istanze realiste (e reali) schiude la sua sintesi nella scena del ballo in discoteca, quando la musica attorno a Ilana si zittisce, ma la ragazza continua la sua danza: l’unico momento del film in cui il regista mette da parte una messinscena rigorosamente tangibile, lasciandole in questo modo guadagnare un’autonomia dalla realtà raccontata, e che tuttavia non smette di essere tale, ma che in quanto finzione assume un valore verista ancora più forte e sentito.
Nonostante Tesnota sia ammantato di un’irruenza quasi disturbante, la sua conclusione ripiega volutamente all’interno di un’atmosfera estremamente malinconica, ribadendo il senso assoluto di claustrofobia che caratterizza ogni anfratto del microcosmo messo in scena, e che destina il primato di questa claustrofobia al rapporto umano d’amore più forte, quello tra genitori e figli. Se in Il ritorno di Zvyagintsev questo legame era dispiegato attraverso l’indefinito e l’incomunicabile, prediligendo una chiave di lettura quasi religiosa, mentre in Madre e figlio di Sokurov la positività del rapporto affettivo vinceva anche l’ineluttabilità della morte, in Tesnota Balagov mette in scena un amore rinchiuso in una gabbia di arretratezza atavica, una gabbia dalla quale Ilana tenta invano di liberarsi, ma dentro cui tornerà di propria spontanea volontà, avvolta in un abbraccio che ancora una volta unisce amore e morte in un unico, soffocante afflato.
Asfissia dunque come dipendenza reciproca, asfissia di un’immagine dichiaratamente posticcia, rallentata al montaggio, carrellate di uomini e donne che vagano ai bordi di una strada innevata, asfissia di un giovane regista ventiseienne che ha tentato di liberarsi dei propri maestri e allo stesso tempo ha fatto proprio il loro cinema, mentre ascoltava e memorizzava la lezione in una di quelle aule affollate, non lontano dai luoghi dove Ilana ripercorre esausta la sua disperazione, ai piedi dei monti del Caucaso.