Come ogni struttura sintagmatica, guidata (il più delle volte) da un principio narrativo, un film è la realizzazione concreta di alcune fra le infinite, possibili declinazioni di una successione di immagini, il risultato di intuizioni, scelte, accidenti, compromessi che hanno fatto sì che, alla fine, fossero certi frame, e non altri, a vedere la luce del proiettore. Ma una volta messe in circolo, quelle stesse immagini entrano a far parte di un repertorio condiviso, di una sorta di dizionario visivo di motivi stilistici, formali, narrativi che si ripropongono, talvolta con variazioni minime, talaltra con trasformazioni radicali, nella storia del cinema e delle immagini più in generale. È stato ampiamente ribadito che quella in cui viviamo è l’epoca della postproduction (Bourriaud), del database come “forma simbolica” (Manovich), del remix (Navas et. al), in cui la dominante creativa ed estetica è quella del montaggio, del riuso di materiali, fra cui le immagini, la cui facilità di condivisione e di appropriazione sembra invitarci ad attingere a questo enorme repertorio per operare continui innesti, riconfigurazioni, détournement.
The Green Fog, di Guy Maddin e dei fratelli Evan e Galen Johnson, è un’opera su commissione – nasce dalla richiesta di realizzare un omaggio alla San Francisco raccontata dal cinema (la committenza era proprio il San Francisco International Film Festival) – ed è emblematica di quel processo che Manovich definisce “l’inversione” della relazione postulata dalla semiotica tra il sintagma e il paradigma. Il sintagma (una successione di elementi collegati da nessi sintattici) è il frutto di una correlazione esplicita fra le unità che lo costituiscono, mentre nel paradigma i legami fra i diversi elementi sono di natura associativa e la loro correlazione si dà in absentia; nell’era dei new media, tuttavia, “al database (il paradigma) viene data un’esistenza materiale, mentre la narrazione (il sintagma) viene dematerializzata”. [1] In The Green Fog, la narrazione che lo spettatore può solo rievocare con la memoria è Vertigo (La donna che visse due volte) di Hitchcock, non solo una delle più iconiche vicende ambientate a San Francisco, ma il canovaccio intorno al quale si snoda la selezione di immagini di film di serie A (tra cui capolavori come Greed, Dark Passage, Sans Soleil) e di serie B, di fiction televisive, di videoclip, di materiali non theatrical (filmati didattici e industriali o riprese amatoriali dell’archivio Prelinger) che compone The Green Fog. Come in alcuni film di found footage sperimentale cui evidentemente fa riferimento – da A Movie (Bruce Conner, 1958) a Verifica incerta (Grifi e Baruchello, 1965) fino a Home Stories (Matthias Müller, Dirk Schaefer, 1990) – The Green Fog non rinuncia alla tentazione di ricreare nessi logici e narrativi a partire da frammenti eterogenei. Allo stesso tempo però nega il racconto attraverso la ripetizione di gesti e azioni (le fughe sui tetti, le cadute, i risvegli), la sistematica eliminazione di gran parte delle battute di dialogo, il proliferare di schermi – riempiti di altre immagini, attraverso un collage interno al quadro –, di pellicole, di soggetti che guardano, rimandando così al dispositivo e a una dimensione metacinematografica e ricordando costantemente allo spettatore la natura non solo ludica e ironica dell’operazione – certe trovate sono irresistibili, dai videoclip degli N Sync che fanno capolino sui monitor a una delle protagoniste di Sister Act che appare in luogo della suora la cui comparsa è fatale a Judy/Madeleine in Vertigo – ma anche critica. L’accostamento e la ripetizione di cliché, di formule ricorrenti, di corpi e di volti mette in evidenza la frequenza con cui, per esempio, nel cinema mainstream ricorrano scene in cui i personaggi femminili sono sottoposti a tentativi di makeover: isolate dal loro contesto, le espressioni smarrite delle protagoniste di questi frammenti risultano quasi tragiche.
Ma The Green Fog, in questo senso, opera alcuni significativi rovesciamenti rispetto alle dinamiche di genere del cinema classico: alla fine del film il meccanismo di colpa e punizione si abbatte sui personaggi maschili, e uno dei pochi dialoghi mantenuti nel film è quello fra due donne in cui una confessa all’altra di andare spesso i sabati da sola al museo: un momento che, per Maddin, potrebbe “superare il Bechdel test”, e in cui al personaggio femminile è concesso di aprirsi e di manifestare il proprio desiderio e il proprio mondo interiore. [2]
Nonostante venga fatto oggetto di una riflessione critica, e non solo di un omaggio passivo, il capolavoro di Hitchcock, seppur in absentia, è una presenza costante, intossicante come la nebbia verde che di tanto in tanto sembra calare sinistramente su alcune scene del film. La produzione artistica di Guy Maddin, del resto, si confronta tenacemente con un patrimonio di immagini con cui fare inevitabilmente i conti, con tutto il già visto e il già filmato che informa oggi il nostro sguardo sul mondo, e insieme ne denuncia la natura effimera, precaria, continuamente minacciata dall’oblio. Non a caso, il suo è un cinema da sempre popolato di fantasmi e di morti che ritornano (The Dead Father, Archangel, Brand Upon the Brain!…), un cinema che cerca ossessivamente il confronto con il passato: non solo individuale, dell’autore, ma anche del cinema stesso, amorevolmente omaggiato senza rinunciare a metterne a nudo le convenzioni attraverso un umorismo surreale. Riuso, ripetizione, recupero del passato e senso di perdita contraddistinguono anche le sue ultime installazioni, fra cui Hauntings – in cui rifaceva alcuni film muti considerati perduti o mai prodotti – e Seances (realizzata, come The Green Fog, insieme ai fratelli Johnson), fruibile anche online: attraverso un algoritmo e il rendering in tempo reale il sito è in grado di generare un numero infinito di brevi film a partire da altri corti girati in passato da Maddin (fra cui alcune parti del film precedente, The Forbidden Room) e sempre ispirati a opere del muto perdute. Ciascun film viene visto per la prima e unica volta dall’utente per poi venire cancellato dal sito, senza che ne rimanga traccia alcuna, come avvenuto per i film muti che hanno ispirato l’installazione.
E se nel caso di The Green Fog la matrice è un film notissimo, sopravvissuto brillantemente (anche come fortuna critica) al trascorrere del tempo, tutta l’opera è comunque pervasa da una nostalgia cinefila per ciò che si è perduto, che non può tornare. Vertigo è un film che parla dell’amore impossibile per una donna morta, che in realtà non è mai esistita e che il protagonista prova inutilmente a riportare in vita. Allo stesso modo, questo tentativo di “remake” attraverso una collezione di immagini patinate o cheap, drammatiche o ironiche, celebri o anonime sembra costituire, per il cineasta canadese e i suoi collaboratori, un modo per scendere a patti con la propria ossessione verso il passato (del cinema, dello spettatore), rifiutando ogni attaccamento feticistico a esso per mantenere, invece, uno sguardo lucido sulla natura effimera e al contempo profonda, transitoria e durevole del nostro amore impossibile per le immagini.
[1] Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano, 2001/2011, p. 287.
[2] Per Guy Maddin Vertigo costituisce “la quintessenza dello sguardo maschile in un film”, e dunque molte scelte sono deliberatamente finalizzate a criticarne apertamente i limiti. Eric Kohn, ‘Vertigo’ Revisited: Guy Maddin Explores Hitchcock’s Classic With Found Footage — SF International Film Festival, «Indiewire», April 15, 2017 (ultima consultazione il 15.04.2018).