David e Judith MacDougall, insieme a Robert Flaherty e Jean Rouch, appartengono a quella rara stirpe di cineasti che ha dato un contributo sostanziale alla tradizione del documentario e del cinema etnografico. Se i film dei MacDougall sono conosciuti, i testi di David MacDougall lo sono forse meno. I suoi saggi sono stati occasionali, scritti nelle pause fra due periodi di riprese e caratterizzati fortemente dalle contingenze del momento in cui venivano redatti. Questi lavori si raggruppano intorno a due tematiche preponderanti. Da un lato MacDougall si preoccupa per la fragile condizione del cinema documentario, ancor di più in un’epoca di spettacolarizzazione e simulazione come quella odierna. Dall’altro riflette sulle rispettive qualità di immagine e testo e, più in particolare, sul film etnografico e il testo antropologico. Questi propositi interconnessi si integrano come principi in due ambiti paralleli: quello del consolidamento del documentario, che MacDougall vuole ancor più impegnato nel reale, e quello del revival dell’antropologia visuale. Quest’ultima, non solo rivela aspetti del mondo alquanto diversi da quelli che l’antropologia scritta analizza, ma è anche dissidente rispetto a concetti normativi che definiscono cosa dovrebbe essere un’antropologia “visuale”.
Allo stesso tempo, questo libro [Cinema transculturale] cerca di compiere una significativa rivalutazione del cinema documentario e della relazione dell’osservazione documentaristica alla partecipazione (con i propri soggetti) e alla rappresentazione (dei propri soggetti). Questo tentativo posiziona MacDougall contro le ortodossie prevalenti in regia, critica cinematografica e antropologia. Non dovremmo pertanto farci sedurre dallo stile sobrio della sua prosa, o dall’andamento di certi suoi saggi, con il rischio di non riconoscere che la sua è un’intenzione fortemente revisionista. Poiché, se è vero che l’approccio di osservazione nel documentario è oggigiorno quasi universalmente deprecato, MacDougall ci ricorda che è bene riflettere due volte su quali siano le conseguenze di tale atteggiamento. A questo fine egli guarda ancora una volta alla relazione tra cinema documentario e mondo circostante, ma anche tra realtà e finzione. A un primo sguardo questa rivalutazione dell’osservazione documentaria potrebbe semplicemente apparire come una sua ostinata eccentricità; quello che invece emerge è che MacDougall è uno strenuo sostenitore del cinema di osservazione del genere “trasparente”, che è stato così aspramente demolito dalla critica cinematografica. Dovremmo quindi già sapere, attraverso i suoi film, che esiste un approccio di osservazione non come contraddistinto da qualità partecipative o “riflessive” ma piuttosto come loro compimento. Ciò che diventa indiscutibilmente chiaro in questi libro è che, se l’osservazione non è partecipata e autoriflessiva, allora non si può dire umana. […]
Solo a un’analisi superficiale può sembrare paradossale che David MacDougall sia al tempo stesso il critico più rigoroso del cinema di osservazione e uno dei suoi più esperti accoliti. “Cinema di osservazione” è, naturalmente, una delle tante definizioni di un certo stile documentario – o meglio di quell’insieme di stili, dal “cinema diretto” al “cinéma verité”, influenzati dalle peculiarità dei suoi fautori e che condividono poco più che una somiglianza somatica – che si sviluppò sull’onda dell’invenzione dei registratori portatili di presa sonora sincrona, nei primi anni ’60. Le implicazioni di questa nuova tecnologia furono varie e la misura della loro importanza è il fatto che ancora oggi li utilizziamo. La presa sonora sincrona permise di filmare individui e interazioni in ambienti casuali in una maniera che fino ad allora non era possibile, se non ricostruendo e drammatizzando le azioni; il che costituisce intrinsecamente un approccio di finzione. Per il documentario ciò rappresentò un vero cambiamento: dalla rappresentazione dell’ambiente pubblico a quello privato, e dunque dal generale al particolare e dal tipico (costruito come tipico) all’unico. Per dirla in poche parole: soggetto del documentario divenne la più ampia varietà delle esperienze personali, quella che Jean Rouch, Richard Leacock, i Maysles e i MacDougall avrebbero, ognuno a modo loro, esplorato.
Inoltre, i documentari precedenti all’era del suono sincrono avevano dovuto necessariamente appoggiarsi al commento della voce fuori campo, per fornire un contesto al girato e renderlo comprensibile o per rendere esplicita la tesi sostenuta dall’autore. Ma quando gli spettatori furono messi nella condizione di vedere e ascoltare i protagonisti esprimersi con le proprie parole, e più o meno con i propri tempi – perché i cineasti di osservazione incorporano tipicamente piani sequenza lunghi, che di solito venivano tagliati dai montatori – la voce fuori campo si rivelò essere un ostacolo, una presenza ingombrante che non chiariva una scena quanto piuttosto la circoscriveva, e dunque la limitava.
Per di più, mentre in precedenza i documentari dallo stile espositivo tendevano a fondere la voce dell’autore con quella del film e di conseguenza con le voci nel film, nel documentario di osservazione la varietà di voci – del regista, del film-come-testo, dei soggetti del film – è di gran lunga più percepibile. Nel contenere o trattenere con sé tracce del rapporto scaturito durante le riprese, i film di osservazione sono, in un certo senso, la forma più “autoriale” di documentario. Come David MacDougall sottolinea in vari passaggi dei suoi scritti, l’esperienza scaturita dal visionare film di osservazione attiva la capacità di attribuire significato alle sequenze che sfilano davanti agli occhi, richiedendo un atteggiamento meno passivo di quello che si esprime quando si è guidati dall’autore attraverso una voce fuori campo. Alcuni diranno addirittura che, siccome il cinema di osservazione richiede un atteggiamento attivo, esso rende gli spettatori e i soggetti più autonomi poiché beneficiano di una maggiore libertà e autorità all’interno del film. Non è detto però che tale libertà sia apprezzata da tutti gli spettatori, visto lo sforzo di attenzione che il cinema di osservazione richiede al suo pubblico. Questo spiega in gran parte perché tale cinema sia quasi scomparso, eccezion fatta per il pubblico specializzato dei circoli di cinema etnografico e per un gruppetto di fedelissimi.
Nel documentario più diffuso – che equivale al tipo trasmesso dalle televisioni un po’ ovunque nel mondo – il cinema di osservazione degli anni ’60 e dei primi anni ’70 ha dato il via a uno stile che si basa principalmente su interviste, intercalato da materiale di archivio o di attualità. Come ci ricorda MacDougall, nonostante l’intervista sia figlia della tecnologia della presa diretta, la quale ha aperto la via al cinema di osservazione, i due modelli hanno uno spirito assai diverso; il documentario basato su interviste si rifà al precedente “espositivo” che il cinema di osservazione aveva invece cercato di superare. Nella modalità standard dell’intervista i soggetti sono invitati a dire quello che pensano o fanno, a riflettere sulle loro esperienze già accadute, mentre i cineasti di osservazione, come gli etnografi, sono maggiormente interessati a ciò che la gente fa in quel momento, all’esperienza per come viene vissuta nell’istante nel quale accade. Per chiarire questo punto: dire e fare non sono radicalmente distinti l’uno dall’altro, anche se i fenomenologi hanno la tendenza a dimenticare che riflettere sulla propria vita è parte integrante del viverla. Allo stesso modo, le performance messe in scena per la macchina da presa possono rivelare strette affinità con quelle che le persone interpretano per sé – e coloro che agiscono in questo modo non sono per questo meno fedeli a sé stessi (basta pensare al film dei MacDougall Photo Wallahas).
Ma se le distinzioni fin qui sembrano un po’ troppo assolute, non per questo sono meno importanti. Il cinema di osservazione tiene sicuramente di più alle esistenze delle persone che ritrae che non al fatto di raccontarle e mette l’accento su performance che sono parte integrante del tessuto della vita sociale, invece che su messe in scena create apposta per la macchina da presa. Nonostante questo, nelle mani dei suoi più rigorosi fautori, come i MacDougall, esso può anche fare luce sulla relazione fra i due aspetti. Questo perché anche la macchina da presa meno invasiva del mondo è comunque presente come un’assenza strutturante. Solo oi migliori cineasti d’osservazione riescono a esprimere la natura e la dimensione di questa sua azione strutturante.
Sebbene sembri facilitare l’espressione dei soggetti, l’intervista in realtà dà maggior potere ai registi, che possono coprire così il proprio punto divista attraverso il montaggio e il loro discorso dietro la testimonianza dei protagonisti. Le interviste, scelte e tagliate con abilità, possono assumere il carattere conciso e preciso del commento fuori campo del documentario espositivo e, in questo, ci riportano a un genere in cui ciò che viene detto è altrettanto importante di ciò che si mostra, se non addirittura di più. È uno stile che, come molti altri aspetti della cultura occidentale, predilige la parola e non l’immagine. D’altro canto, grazie alla capacità del cinema di osservazione di lasciare liberi i soggetti di esprimersi a modo loro, è stato possibile scommettere tanto sull’attenzione visiva che sull’ascolto degli spettatori. E questo ha consentito al documentario di ricongiungersi a uno dei suoi principi fondanti: farci aprire gli occhi sul mondo e in questo modo riportarci nuovamente al suo interno.
Fra molti registi di documentario sperimentale, invece, il genere di osservazione è stato sostituito da uno o due stili, ognuno dei quali cerca di rimediare alle debolezze del primo. Da un lato c’è stato un revival di quello che in Gran Bretagna viene detto “docudrama”, uno stile – o meglio, ancora una volta, un misto di stili – che risale praticamente al film di Georges Méliès del 1902 sull’incoronazione di Edorardo VII, nel quale scene di attualità girate nell’Abbazia di Westminster vengono mescolate a ricostruzioni parigine dello stesso evento. Il “docudrama” intreccia immagini documentarie con messe in scena ricostruite, a volte consapevolmente e a volte meno. In qualche modo, il suo ritorno in voga è dovuto al fatto che lo sforzo dei documentaristi di osservazione di spostare l’attenzione dal pubblico al privato non poteva che essere solo parzialmente vincente. Diversamente da quanto è conservato in archivi e soffitte o evocato in reminiscenze e ricordi materiali, il passato è per sua natura inaccessibile al documentario (con implicazioni che MacDougall illustra nel capitolo “Cinema e memoria”). Ci sono condizioni oggettive nelle quali i registi esitano a fare riprese; ad esempio durante azioni di protesta quando c’è la possibilità di incidenti che potrebbero causare la distruzione della macchina da presa o danni gravi all’incolumità dell’operatore, o in momenti di intimità (personale o interpersonale) quando le persone filmate non possono ignorare o restare indifferenti alla presenza della macchina da presa.
Tutto ciò è per dire che ci sono situazioni in cui un vero occhio documentario violerà o distruggerà l’oggetto che desidera registrare. Una possibile risposta a questa impasse può essere il ricorso a una drammatizzazione stilizzata o a una ricostruzione che dichiara – semioticamente – il proprio carattere performativo senza farsi passare per realismo. Purtroppo è molto più comune trovarsi di fronte a una drammatizzazione ambivalente o mascherata che si vuol far passare come spontanea e non recitata. Molto di quello che oggi viene fatto passare per materiale cosiddetto “reality”, un po’ ovunque in televisione e nei documentari, è materiale di questo tipo. Che sia girato con la presa di distanza e la politura della finzione più classica o utilizzando quella che potremmo chiamare un’estetica “neo-observational” (caratterizzata da camera a mano traballante, illuminazione scarsa, dialoghi confusi, etc.) come prova della sua “autenticità”, esso sublima comunque il reale dietro una simulazione della propria messa in scena. Nel tempo, la rappresentazione di soggetti che ricostruiscono le proprie vite per la macchina da presa senza però farlo vedere è stata accettata come una parte della materia fondante del documentario. In questo senso, perciò, molto “docudrama”, nello spirito, è precedente allo stile d’osservazione, anche se in termini storici il suo ritorno è “post-observational”.
In questo ibrido ed eterogeneo miscuglio di fatti e finzione, questo genere deve ovviamente affrontare problemi tutti suoi. Gli autori di “docudrama” giustificano spesso la loro impresa ricordandoci che fatti e finzione sono ineluttabilmente implicati l’uno nell’altro, in qualsiasi forma di ripresa filmata (e, in senso ampio, in ogni rappresentazione). Nonostante questo, il “docudrama” ha la tendenza a subordinare i fatti alla finzione ma anche a lasciare la distinzione fra i due inarticolata, pur giocando su di essa.
Il secondo stile che nella comunità dei filmmaker indipendenti sembra sia succeduto a quello di osservazione (ormai sempre più “mainstream”) è quello autobiografico: il film-diario in prima persona. Considerando il suo appello in favore di uno stile cinematografico più “partecipativo” al fine di controbilanciare il desiderio di un’autorialità invisibile che si ritrova latente nell’approccio di osservazione – per ironia della sorte, data la sua inclinazione – MacDougall non può negare la propria responsabilità. Detto ciò, il marchio dei MacDougall nella loro produzione è spesso autobiografico: se ciò è maggiormente evidente in Link-up Diary (1987) e in A Wife Among Wives (1981), la loro presenza in prima persona è comunque una presenza discreta in tutti i loro film. A suo modo, il documentario autobiografico è una risposta al fatto che vaste zone della nostra vita emotiva rimangono inaccessibili al cinema “non-di-finzione” oppure che le rappresentazioni in documentari in terza persona porrebbero problemi etici ed epistemologici molto profondi. Un approccio in prima persona rappresenta una logica evoluzione del cinéma vérité. Inietta una salutare dose di soggettività nel documentario e sfuma le demarcazioni nette tra soggetto e oggetto, così come fra attore sociale e attore cinematografico. Nonostante ciò, come il cinéma vérité stesso, tende a fondere il filmico e il pro-filmico e, in questo modo, distoglie l’attenzione da ciò che potremmo goffamente chiamare la vita “extra-filmica” dei protagonisti – cioè quegli aspetti delle loro vite che non sono esclusivamente una funzione della loro rappresentazione nel film. Il cinéma vérité infatti, caratterizzandosi come verità di cinema, invece che verità rivelata dal cinema, è andato così lontano da definire la questione della relazione tra filmico e pro-filmico al di là di qualsiasi restrizione.
Contro queste mode dominanti nel genere documentario, fin dal 1970, David e Judith MacDougall hanno continuato a raffinare il loro stile inconfondibile riuscendo a influenzare una generazione intera di cineasti etnografici anche mentre quello stesso stile continuava a evolversi. Basterebbe un confronto, anche superficiale, tra i loro film africani e australiani per dimostrare che il loro modo di filmare è tutto tranne che statico. I più importanti fra i loro primi lavori sono le due trilogie girate con alcune popolazioni pastorali dell’Africa orientale. Furono fra i primi film etnografici a tradurre i dialoghi dei nativi con i sottotitoli invece che utilizzando il doppiaggio o il commento fuori campo; questo assicurò che la qualità auditiva dei dialoghi originali venisse salvaguardata.
Se fin da quei tempi David MacDougall ha avuto ragione nel discutere le conseguenze del sottotitolaggio, i suoi risultati si devono ancora del tutto apprezzare. In particolare, traducendo il parlato per gli spettatori stranieri, pare che i sottotitoli siano stati efficaci nel convincere gli Occidentali che i non-Occidentali avessero una vita intellettuale. La prima trilogia dei MacDougall, girata nel 1968 fra gli Ji del distretto Karamoja in Uganda, consiste in due cortometraggi (Nawa [1970], Under the Men’s Tree [1972]) e nel lungometraggio di 70 minuti To Live With Herds (1972), uno sguardo sulla vita di una fattoria durante una dura stagione di siccità, e sulla relazione tesa degli Ji con il governo locale. La loro seconda trilogia venne girata nel 1974 con i Turkana del Kenia Nord occidentale e consiste di: The Wedding Camels (1977), sulla frode di una dote prima di un matrimonio; Lorang’s Way (1979), un sottile ritratto di un uomo sicuro di sé ma al tempo stesso vulnerabile che riflette sulla propria vita e sul futuro della propria cultura; A Wife Among Wives (1981), un’esplorazione di come alcuni Turkana guardano al matrimonio e alla poligamia.
Lo stile laconico dei film dei MacDougall non condivide né la palpabile provocazione del cinéma vérité (che, retrospettivamente, appare piuttosto come fautore dell’intervista espositiva quanto del film in prima persona singolare), e nemmeno il carattere ellittico del cinema diretto che limitava la propria attenzione a situazioni implicitamente ricche di suspense e personalità particolari (celebrità, ma anche eccentrici, ad esempio). Ma è uno stile che è difficile non definire “observational”, essendo la sua capacità di osservazione solidissima ed esplicitamente parziale. Va detto ancora una volta però, che questo non significa che non sia partecipativo, e non vuol dire neanche che non sia riflessivo. Chi oggi rimprovera il cinema di osservazione di essere “stilisticamente insipido”, naif nel suo preteso “realismo”, e di costruire il proprio sguardo come distante o distanziante, quasi fosse quello di un voyeur o di un sorvegliante, non ne ha veramente colto il senso. Si direbbe piuttosto che sia vero il contrario. Sebbene i MacDougall sottolineino la propria condizione di “esterni”, i loro film sono esemplari nel rendere la prossimità con i soggetti.
È vero però che i loro film più recenti, che trattano della resistenza politica e del revival culturale dei popoli aborigeni australiani, sono piuttosto frutto di attiva collaborazione con i protagonisti (film come Familiar Places [1980], Take Over [1980], Three Horsemen [1982], Stockman’s Strategy [1984], Collum Calling Camberra [1984] e Link-up Diary [1987]). Questi film sono stati realizzati su iniziativa delle comunità aborigene stesse e hanno coinvolto i soggetti durante il montaggio sperimentando con voci fuori campo non sincrone – “commento interiore”, come lo chiama MacDougall – facendo i conti con il discorso allusivo e le reticenze dei protagonisti. Nonostante ciò, se i film girati in Africa sono meno direttamente collaborativi, essi sono comunque apertamente dialogici, tanto con i propri soggetti quanto con il pubblico. Lontani dal ritrarre il mondo da un punto di vista al di fuori dell’esperienza umana o, peggio, oggettivando i propri soggetti con uno sguardo distante, senza emozioni, essi vi si avvicinano invece progressivamente.
Sia nello stile delle riprese che in quello del montaggio, i MacDougall hanno cercato di connettere gli spettatori (fisicamente e psicologicamente) alla loro prospettiva limitata già mentre filmavano, dimostrando un rigore stilistico e una precisione estetica che si potrebbero quasi definire classici: per l’attenzione che il loro modo di filmare mette nei dettagli, il rispetto per le sfumature dell’emozione e del comportamento, la resa del ritmo spesso lento del tempo reale, la delicata consapevolezza della presenza del cineasta e la loro preferenza per una serie di sequenze legate le une alle altre, invece che a una sola sintetica narrazione. Se André Bazin e Siegfried Krakauer si meravigliarono di fronte alla “redenzione” della realtà fisica operata dal film – la sua rivelazione del mondo naturale – si è tentati di affermare che nei film di MacDougall non possiamo che ammirare la redenzione dell’esperienza vissuta.
A un livello meno sofisticato, il rifiuto dei MacDougall per l’inserto e il controcampo, e la loro tendenza alla sutura tra riprese da angoli diversi al fine di ricomporre l’unità diegetica, non è un’affermazione di “realismo” da parte loro quanto una critica di quest’ultimo. Non c’è nulla di scontato né di “realista” nel loro lavoro e, in generale, nel cinema di osservazione (parlo ovviamente dei film stessi, non delle dichiarazioni d’intento fatte dai loro autori, perché quella è un’altra faccenda). I film dei MacDougall registrano in infiniti modi la loro interazione con il mondo e, grazie a questo, permettono a realtà e rappresentazione di giustapporsi sistematicamente. Contestano le regole del realismo e altrettanto spesso le tollerano. E nel fare ciò, essi militano attivamente (anche se implicitamente) contro l’autosufficienza semantica verso la quale il realismo, nel suo costruirsi una diegesi ad hoc, intrinsecamente tende. Ed è questo senso di possibilità residue aperte a un approccio di osservazione, nel rendere l’esperienza umana e nel riflettere sull’interazione tra realismo e rappresentazione, che è al centro dell’interrogazione costante di MacDougall.
Ciò non si basa sul goffo desiderio di salvare il cinema d’osservazione in quanto genere o, addirittura come stile – dato che, se non fosse stato recuperato dal cinema di finzione, sarebbe oggi percepito come una parodia di se stesso, cosa che getterebbe un’ombra sul suo glorioso passato. E non si nega neppure che ci siano tanti film d’osservazione di bassa qualità quanto in ogni altra categoria: un approccio di osservazione non opera come garanzia di qualità o di rilevanza sociale, come d’altronde nessuna applicazione coatta di un metodo scientifico è garanzia di scoperta. È piuttosto una dichiarazione di apprezzamento dell’osservazione come dimensione o potenzialità del filmare, del film in se stesso. Sarebbe forse più rigoroso riferirsi a ciò come alla “dimensione documentaria” insita in ogni film e suggerire che i film catalogati alla voce “documentario” dovrebbero semplicemente accentuare questo aspetto. Più precisamente si tratta di quella specificità del mezzo che, registrando i
n apparenza soltanto il proprio oggetto, resiste a una incorporazione all’interno del discorso creato dal suo autore.
Come Dai Vaughan una volta notò: “Il documentario va sempre al di là delle prescrizioni del proprio autore… Se così non fosse, i film etnografici si sarebbero potuti realizzare in studio con attori” (“The aesthetic of ambiguity”, in Film as Etnhnography, Peter Ian Crawford e David Turton [Manchester University Press, 1992]). Ma in un’era in cui si è quasi dimenticato cosa significhi “documentario” – quando persino i produttori si riferiscono alla maggior parte delle immagini di attualità che non prevedono un presentatore o un interprete in termini di “vérité” e, ancor più spesso, una voce fuori campo di segnala quello che un intervistato sta dicendo per timore che lo spettatore mal intenda ciò che costui afferma – di questi tempi c’è semplicemente il rischio di imbrogliare ancor di più le carte.
Se questi saggi sono qui riuniti, anche come un’impresa a carattere politico, è per salvare il documentario dal suo letto di morte. Ciò potrebbe apparire troppo ambizioso o addirittura perverso, considerando il fatto che, se si calcolano le proiezioni nei vari festival, moltissimi sono i documentari presentati al giorno d’oggi. In gran parte, però, sono documentari che hanno lasciato da parte, o non osano guardare, la quotidianità e l’esperienza di tutti i giorni, e limitano i loro soggetti a temi da prima pagina. Tutto ciò contribuisce al fenomeno che vede il documentario pian piano svuotato di contenuto, fuso con il giornalismo e imbevuto di enfasi tanto nella difesa quanto nel “j’accuse”. MacDougall esige invece che il documentario torni ad essere un luogo di coinvolgimento con il mondo, dove ci si confronta attivamente con il reale sviluppando una modalità propria di interrogarlo.
Ma in che modo il documentario dovrebbe “interrogare” il reale? E come dovrebbe o potrebbe coinvolgersi con il mondo? Se ne analizziamo il contenuto, vediamo che la maggioranza dei cosiddetti documentari appartiene in maniera molto evidente al giornalismo, essendo in prevalenza rivolta al pubblico e al “politico”. Questo riguarda anche lo stile e la struttura narrativa, che tendono ad assomigliare a quelli degli articoli di attualità. MacDougall, invece, considera il dominio del documentario come appartenente a quello del romanzo, sia per il contenuto (un interesse per ciò che è personale, domestico, riflessivo) che riguardo alla forma. Il suo film Tempus de baristas (1993) racconta la solidarietà e la relazione tra tre pastori delle montagne sarde. Probabilmente è il più letterario dei film di MacDougall, per via della sua struttura e composizione, ma l’affinità con il romanzo è comunque evidente in tutti i suoi film.
[tratto dall’introduzione a Cinema transculturale di David MacDougall, edizioni ISRE, 2015; traduzione di Rossella Ragazzi; pubblicato per gentile concessione dell’editore]