Ho conosciuto Gianni Buttafava per la prima volta nel 1969, a una riunione del Cineclub Nuovo Teatro, diretto da Franco Quadri, Ettore Capriolo e lo stesso Gianni.
Io ero molto giovane e li aiutavo, seguendo i loro consigli per organizzare quello che fu indubbiamente il più importante cineclub di Milano tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. Un’esperienza proseguita poi col Cineclub Brera, insieme con altri amici: Alberto Farassino, Aldo Grasso e Tatti Sanguineti.
Gianni era una personalità gentile, precisa, acuta nelle sue scelte: erano sempre molto singolari e personali, si differenziavano da quelle che potevo trovare sui giornali o sulle riviste. Per me, leggere e ascoltare le critiche profonde e controtendenza di Gianni, anche dopo aver visto film muti famosi, è stata una delle matrici determinanti della mia conoscenza cinematografica.
La cultura cinematografica di Gianni andava dalle opere di Straub-Huillet a quelle del New American Cinema, dai film di Rossellini con Ingrid Bergman a Godard, da Murnau a Dziga Vertov e – perché no – a Buster Keaton. Ma la sua cultura spaziava nella letteratura (fu uno dei massimi slavisti italiani – mitica la sua traduzione dei Demoni di Dostoevskij per la BUR), nella musica e nell’arte. La cosa che mi colpiva era il fatto che non si desse assolutamente arie, anzi era un piacere dialogare con lui. La sua ironia era penetrante e possedeva un intelligente sense of humour.
Ci si vedeva al cinema. E alla fine delle proiezioni si discuteva e si parlava delle opere viste. Una domenica mattina, io e il mio amico Ermanno Margstahler andammo al cinema Anteo per vedere il film del 1937 Lenin in ottobre, di Michail Romm, grande autore sovietico, e trovammo Gianni che traduceva direttamente dal russo in italiano perché tutti i partecipanti potessero comprendere.
Un’altra volta, nell’agosto del 1976, mentre ero in licenza dal servizio militare in una Milano semivuota, incontrai Gianni al cinema Rivoli (che era situato vicino a piazza San Babila): come me, andava a vedere (ma lui forse andava a rivederlo) il mitico Tamburi lontani, un western avventuroso di Raoul Walsh con Gary Cooper – sicuramente una riedizione, perché il film non si vedeva da molti e molti anni. Ed eravamo entusiasti.
Non ci si frequentava soltanto al Cineclub, ma anche là dove si potevano ammirare e rivedere i film che maggiormente amavamo. Per esempio, ai due festival più importanti in Italia in quegli anni, cioè Venezia e Pesaro (che allora si svolgeva a settembre). Ci incontravamo anche con Tatti Sanguineti, qualche anno dopo, per le trasmissioni di “Radio-Occhio”, il cui direttore era Aldo Grasso.
Negli anni Ottanta, quando ormai Gianni viveva a Roma e scriveva per L’Espresso, non avevamo più occasione di vederci così di frequente. Ci incontravamo però alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, dove ci si divertiva a commentare gli splendidi film dell’epoca, dai western di Ince all’epopea di Griffith, alle leggendarie comiche delle origini. Una volta con Gianni rimanemmo sorpresi dalla fame atavica delle persone riprese, davanti a un’enorme pentolata di polenta, in un film prodotto dai fratelli Lumière.
Come dicevo all’inizio, l’importanza delle osservazioni puntuali e rigorose di Gianni si concretizzava nella devianza rispetto alla norma critica vigente. Ecco allora la profondità delle sue esclusioni (il non amore per Pabst e Pudovkin, per esempio), la sicurezza di giudizio su registi e autori determinanti quali Miklós Jancsó e Carmelo Bene.
Eravamo alla fine degli anni Sessanta, non bisogna dimenticarlo. Gli potevano dare fastidio i “nuovi-nuovi” oppure quelle incerte nouvelles vagues acclamate all’epoca. Ma i veri innovatori Gianni li inquadrava, li spiegava, e ne parlava e ne scriveva con acume profondo.
(Testo raccolto da Astrid Ardenti e Gabriele Gimmelli; foto di copertina: Giovanni Buttafava in una scena di La messa è finita, di Nanni Moretti)