Periodicamente si torna a riflettere sulle pratiche adottate dal cinema contemporaneo per raccontare il proprio tempo, e quando si parla di cinema italiano il termine “realismo” non smette di riassumere la tendenza seguita dalla maggior parte dei film dei giovani autori. O almeno, di quei registi che riescono a seguire un percorso produttivo canonico e ad affacciarsi nel circuito internazionale, presentando la loro opera prima o seconda nei maggiori festival. Da qui deriva la trappola insita nel riconoscere come “di valore”, da parte degli interlocutori istituzionali o privati, solo quei progetti che attingono a un presunto verismo, fatto soprattutto di corpi adolescenziali, scenari del Sud o periferie romane, canzoni neo-melodiche, temi sociali scottanti. Ma come si sa, il realismo è soprattutto uno stile, che segue i dettami di una certa epoca fino a essere totalmente assimilato e aver bisogno di una nuova rivoluzione.
Proprio in questo precario equilibrio si muovono le opere dei nuovi autori italiani, tra chi ha assimilato la rivoluzione documentaria e la riconverte nell’immaginare un diverso cinema di finzione, e chi, prendendo a esempio il cinema d’autore europeo prova ad elaborare nuove pratiche per calare le proprie storie in una dimensione di realismo. Entrambe le strade prevedono esiti e possibilità preziosi, talvolta inattesi, lasciando intendere un orizzonte ideativo tutt’altro che sterile sul panorama nazionale: se preme un desiderio di fronte a questo cinema, è proprio quello di non appiattirne e svilirne le caratteristiche singolari, cercando al contrario di entrare nel merito di ogni approccio, per cogliere direzioni che, almeno nell’immediato futuro, ritorneranno a più riprese nell’alfabeto del cinema italiano in dialogo con la realtà.
1. True/False
Paradossalmente si è spinto più in là chi si occupa di documentario in Italia, territorio d’esplorazione comune per coloro che iniziano a fare cinema, non accontentandosi di Lampedusa e dei “personaggi” napoletani, ma andando alla ricerca dei luoghi di potere e di controllo ormai sublimati nella loro azione quotidiana (Martina Parenti e Massimo D’Anolfi), recuperando figure ai margini e il loro nesso profondo con la nostra memoria (Pietro Marcello, Giovanni Cioni), facendosi carico di una cultura altra che rispecchia i grandi interrogativi politici del presente (Roberto Minervini, Gianfranco Rosi). Questo gruppo di autori è marginale in relazione agli incassi dei film ma centrale nella ridefinizione del cinema italiano contemporaneo, perché proprio la riflessione che diparte dalle loro opere detta un nuovo approccio verso l’impressione di reale ricercata nel campo della fiction.
Esempio migliore ne è il lavoro di Jonas Carpignano, che già in Mediterranea (2015) metteva in dialogo un rapporto di scambio e reciprocità con i propri protagonisti, mutuato dalle pratiche del documentario, e un’estetica propria del cinema di finzione. Qualcosa ancora strideva, nel montaggio a tratti troppo sincopato che non lasciava la giusta libertà al suo straordinario protagonista Koudous Seihou, ma l’elaborazione del metodo è sicuramente messa a fuoco nel successivo A Ciambra (2017), che diventa un racconto condiviso della realtà di Gioia Tauro, in cui la preparazione di ogni scena è una conquista: il giusto posto in cui sedersi a tavola per riprendere, la situazione più efficace da innescare per arrivare a creare un sentimento, la relazione di fiducia reciproca per restituire una storia che ci riguarda. Pio e la sua famiglia sono chiamati a intraprendere un percorso nell’arco del film: loro offrono la propria presenza, le proprie case, i propri pensieri; in cambio, il regista li colloca in rapporto diretto con il proprio passato mitico, facendo loro dono dell’attraversamento di una faglia da sempre aperta nella propria cultura.
Ma l’utilizzo di personaggi reali disposti a offrire le proprie vite quotidiane alle possibili manipolazioni operate dalla finzione può far affiorare diverse problematicità: ne è esempio un altro film interessante dell’ultima stagione, Il cratere (2017) di Luca Bellino e Silvia Luzi – presentato alla Settimana della critica di Venezia – che fin dall’incipit (in cui la giovane protagonista Sharon recita una lezione su verismo e naturalismo) mostra di ragionare sull’operazione che sta mettendo in atto. Sharon è realmente la figlia di due giostrai irrequieti, il padre la vorrebbe famosa e spera che la voce della ragazzina possa essere notata tra i nuovi talenti della scena neo-melodica. Ma quale patto sta alla base di questa rappresentazione? Il percorso di Sharon verso la ribellione che si attua nel film sembra collidere con ciò che avviene fuori dal testo: la presentazione de Il cratere a un pubblico non fa pericolosamente coincidere le giuste attese dei registi con le reali mire del padre? E quindi a questo si riduce il fatidico scambio tra i componenti in gioco? Ovviamente la partita è più complessa, ma resta centrale la questione legata alla responsabilità della rappresentazione dell’altro, che non può essere demandata. Anzi, a volte farla diventare il meccanismo centrale dei propri film può essere una risorsa preziosa, come accade nel cinema di Tizza Covi e Rainer Frimmel. La coppia di autori, che da più di una decina d’anni segue la comunità circense stanziata nella periferia romana, ha lavorato proprio sulla propensione performativa dei suoi protagonisti (abituati a esibirsi in scena) per metterne a nudo desideri e paure, difficilmente esternabili, e sui quali lavorare insieme per trovare un nuovo equilibrio (esemplare il percorso di Tairo, giovane domatore di leoni, personaggio secondario in Non è ancora domani – La pivellina, 2009, poi protagonista di Mister Universo, 2016, in cui si fa i conti con l’ingresso nel mondo degli adulti in una fiaba che non rinuncia a citare Il mago di Oz). O ancora l’approccio stimolante (anche se solo abbozzato a livello formale) verso un racconto iscritto totalmente in una comunità di nuovi italiani, come quella che è al centro di Per un figlio di Suranga Deshapriya Katugampala, che trova i suoi momenti migliori proprio nel restituire lo straniamento di un ragazzo per cui le origini srilankesi sono un fardello da lasciarsi alle spalle.
2. False/True
Si sa che l’asticella del “vero” al cinema viene ridefinita di decennio in decennio, e passa spesso attraverso grandi fratture. Negli ultimi vent’anni c’è stata la lezione degli autori iraniani, con la mise-en-abyme del cinema nel cinema che destabilizzava lo spettatore; il dissacrante movimento del Dogma, che puntava sull’estetica amatoriale per raccontare le pulsioni più viscerali; e infine la rigorosa camera a spalla dei fratelli Dardenne, che invocava una radicalità del punto di vista per innescare una dialettica con il fuoricampo propria di una presa di coscienza politica. Quest’ultima pratica, che gli stessi Dardenne hanno progressivamente abbandonato a favore di un uso più raffinato del piano sequenza, è ancora oggi la “forma” più comune che si sceglie per ottenere l’effetto di realtà.
Ne è un esempio, tra i tanti, Fiore (2016) di Claudio Giovannesi, film ambientato nelle carceri minorili che si appoggia sui corpi di due straordinari giovani protagonisti, Daphne Scoccia e Josciua Algeri, per raccontare un primo amore impossibile. Il film, pienamente riuscito dal punto di vista della direzione degli attori, sembrerebbe mostrare il suo limite proprio nell’utilizzo della camera a spalla, che segue Daphne senza troppa convinzione, in traiettorie sinuose che non tengono realmente conto dell’imprescindibile rapporto con il fuoricampo, offrendo allo spettatore una visione totale degli eventi che finisce per indebolire la tensione emotiva in campo, risultando soltanto imprecisa. In maniera simile ma contraria, la regia di Manuel (2017) di Dario Albertini, racconto dell’uscita dal carcere di un adolescente alle prese con una madre difficile, segue letteralmente l’asciuttezza narrativa tipica dei primi film dei Dardenne (come può “tirare il fiato” un ragazzo difficile?), ma si appoggia a soluzioni compromissorie che indeboliscono la potenza dell’ingranaggio.
Dentro alla riscrittura del reale c’è chi si sta allontanando – almeno formalmente – da questi modelli, elaborando in maniera più complessa la tradizione realista a cui appartiene il cinema di finzione italiano. Da una parte c’è il film di Roberto De Paolis, Cuori puri (2017) presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, che opera uno stratificato lavoro di scrittura basato sulla ricreazione di una certa verità, dall’altro i film di Laura Bispuri (Vergine giurata, 2015, e Figlia mia, 2018, entrambi alla Berlinale), che lavorano su un approfondito piano di regia per ritrovare la naturalezza di ogni scena. Cuori puri, che certo non può vantare un’originalità di temi trattati o d’ambientazione (calato come è nella periferia romana e nella descrizione delle confraternite religiose), riesce però a fondere perfettamente i piani della strutturazione di un conflitto degno di una sceneggiatura anglosassone (la verginità del corpo e dei luoghi, come appannaggio di una purezza incontaminata, che deve fare i conti con l’ingresso nell’età adulta) e la sua messa in scena attraverso un gruppo di attori, non particolarmente noti ma professionisti (sui quali spiccano i due protagonisti Selene Caramazza e Simone Liberati), che danno corpo ai personaggi sorretti da una regia che non si stanca mai di mettere a fuoco il limite interiore o esteriore che sono chiamati a non valicare. In Figlia mia, invece, Laura Bispuri continua a esplorare la possibilità di un cinema che sappia mettere in relazione forze opposte: le attrici (Valeria Golino e Alba Rohrwacher) e i non professionisti, il piano sequenza e la trasparenza della macchina da presa, la rarefazione del sonoro e le esplosioni della musica. La regista l’ha definito un “realismo disegnato”, un termine che ben racchiude una ricerca stilistica che è più simile a quella della scuola rumena, di cui riprende la capacità di creare una distanza dai suoi personaggi, che non è mai giudicante ma lascia libero lo spettatore nell’identificazione in atto. In questa linea, in cui la regia smette di seguire i suoi personaggi ma si permette di precederli e perderli, si pone anche l’opera prima di Irene Dionisio, Le ultime cose (2016): uno dei pochi film ambientati nel Nord Italia, a Torino, che fin dall’assunto della sceneggiatura si pone come il racconto di un meccanismo, quello letale del monte dei pegni, e proprio da qui immagina una regia che si muove attraverso una giostra sinuosa che sembra scivolare da un personaggio all’altro.
Dentro alla precisa elaborazione di uno sguardo che sa concertare l’istanza narrativa e la sua costante messa in discussione sta il cinema di Alice Rohrwacher, che con Le meraviglie (premio della giuria a Cannes nel 2014) ha per prima portato a compimento il raggiungimento di un equilibrio, in cui la dimensione realista non avesse paura di spalancarsi a momenti onirici o visionari, restando più di tutti colei che ha saputo connettere una semplicità di luoghi e volti con un’immersione nell’intimità dei suoi protagonisti. Questo superare, o sarebbe meglio dire trascendere l’immagine è quello che purtroppo continua a mancare in un cinema italiano ancorato al sociale, ma spesso incapace di trasfigurarlo. Ci hanno provato Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in Sicilian Ghost Story (2018), che parte da un assunto stimolante, trasformare in fiaba un tragico fatto di cronaca sul sequestro e l’uccisione mafiosa di un ragazzino. La visionarietà del loro cinema travalica talvolta il senso stesso dell’opera, arrivando nel finale a dar pericolosamente ragione alla fantasia (e forse alla creazione cinematografica) nei confronti della Storia. Lo stesso afflato visionario è quello che guida I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin, il film meno compreso di questi anni (ma forse proprio per questo torniamo di continuo a riflettervi su). Come nel cinema della Rohrwacher, è nel raggiungimento di una dimensione intima che avviene la presa di consapevolezza politica dell’opera, anche se Comodin rifugge il realismo per inventarsi una nuova narrazione libera e sfuggente. Non reale, ma vera. Come l’abbraccio che farà ricongiungere passato e presente in un atto d’amore liberatorio e sodale.
Forse possiamo uscire dalla trappola, perché qualcuno non ha più paura dei lupi.