Il Novecento è il secolo nel quale lo sviluppo tecnologico ha subito una crescita ascendente, occupando gli spazi del quotidiano e veicolando nuove forme percettive. Le macchine fotografiche amatoriali, le cineprese Super 8, il nastro magnetico, il video, fino ad arrivare alle numerose tecnologie digitali, invadono gli spazi privati in maniera sempre più totalizzante. Un vasto archivio di pellicole in fase di decomposizione, milioni di nastri magnetici rinchiusi negli armadi, terabyte di contenuti mediali isolati nelle celle di memorie di un hard disk: immagini disattente e balbettanti che aspettano di reinserirsi in un nuovo circuito, ansiose di privarsi dello statuto fantasmale cui sono destinate. Come dei diari di bordo delle nostre esistenze questi audiovisivi rimettono in discussione lo statuto dell’immagine proponendo un nuovo spazio di costruzione per modelli artistici-visivi eterogenei. Ripensare l’immagine attraverso queste forme anarchiche significa mettere in gioco una delle questioni fondamentali affrontate da Walter Benjamin, il progressivo venir meno nell’opera d’arte dei criteri di autenticità e unicità. Queste tracce del passato non rappresentano unicamente i fantasmi di un tempo trascorso che riemergono dall’inconscio ottico della macchina, ma costituiscono un nuovo spazio di gioco per la realizzazione di nuove forme. L’appropriazione e il riutilizzo di immagini è un lavoro di analisi approfondito, minuzioso e altamente politico, troppo spesso rubricato esclusivamente come sindrome postmoderna. Una cultura che rimuove la sua stessa memoria è destinata all’impotenza quanto una cultura bloccata nella costante commemorazione del passato: non basta ricordare, bisogna riscrivere.
Nel panorama cinematografico contemporaneo il documentario si è imposto come strumento di indagine per decodificare il presente, ragionando sulle dinamiche tecnologiche del dispositivo e non limitando lo sguardo all’osservazione del reale, ma agendo su un terreno fitto di contaminazioni. Al contempo, il carattere sempre più liquido del medium e le opportunità espressive offerte dal digitale hanno aperto a una sorta di democratizzazione dell’immagine nella quale ogni individuo è in grado di registrare filmati grazie al supporto di numerosi devices. Questo ha portato a un ingorgo di dati facilmente manipolabili che rimettono in discussione il concetto di reale. Sebbene numerosi studi evidenzino la sostanziale continuità tecnologica tra i media digitali e gli apparati analogici, è palpabile la diffidenza nei confronti di questo cambiamento, vissuto dagli apocalittici come svolta esiziale e dagli integrati come discontinuità che apre a numerose possibilità. Nella diatriba tra il vecchio e il nuovo si inseriscono molte operazioni in ambito documentaristico che affrontano da prospettive diverse la questione del reale e del riciclo di immagini. Negli ultimi anni guadagna sempre più spazio il ripensare le forme del passato, e in particolare i materiali d’archivio, in una nuova prospettiva estetica e risignificante. Proprio dalle immagini di un piccolo archivio dismesso ha inizio L’immagine mancante (Rithy Panh, 2013), premiato nella sezione Un Certain Regard della 66ª edizione del Festival di Cannes, un’opera fondamentale per rileggere la storia del popolo cambogiano e del delirio rivoluzionario di Pol Pot e dei Khmer Rossi. Con una serie dissolvenze notiamo lo stato di totale abbandono dei rulli, la pellicola fortemente compromessa è decomposta. Sopravvivono pochi fotogrammi, un occhio osserva alcuni di questi resti scorrendoli a mano: si tratta di un film cambogiano dove una donna, a piccoli passi, danza. Rithy Panh è un sopravvissuto, un uomo che ha assistito allo sterminio della sua famiglia nei campi di lavoro da cui è riuscito a fuggire rifugiandosi in Thailandia per poi espatriare in Francia. Quale prospettiva adottare per mettere in scena la Storia di uno sterminio? Quali sono la distanza e il punto di vista corretto per render conto del genocidio di due milioni di persone? La soluzione adottata dal regista è quella di ricreare un mondo nel quale le piccole statue d’argilla nella loro rigida immobilità rielaborano la storia manomessa dal regime, alternandole (e sovrapponendole) con i filmati d’archivio girati da anonimi operatori al soldo di Pol Pot. La voce fuori campo del regista/testimone racconta in prima persona le terribili disavventure della sua famiglia e del popolo cambogiano: una voce lucida e disperata alla ricerca di un passato che non ha lasciato tracce. Ma che cos’è il testimone? Giorgio Agamben scrive a proposito della Shoah che i veri testimoni sono coloro che non hanno testimoniato né avrebbero potuto farlo. Sono coloro che hanno toccato il fondo, i sommersi, traghettati dall’essere al non essere e dunque giunti in una zona oscura. Rimangono i superstiti, i sopravvissuti, che svolgono il compito di testimoniare per loro: testimoniano l’impossibilità di testimoniare. Come dirà nel corso del film il regista: ‹‹Da anni cerco un’immagine mancante. Una fotografia scattata tra il 1975 e il 1979 dai Khmer Rossi, quando governavano la Cambogia. […] L’ho cercata invano negli archivi, nei giornali, nelle campagne del mio paese. Ora lo so: questa immagine manca […] allora la creo io. Quello che oggi vi offro non è un’immagine, o la ricerca di una sola immagine, ma l’immagine di una ricerca, quella che consente il cinema. Alcune immagini dovrebbero sempre mancare, sempre essere rimpiazzate da altre: in questo movimento c’è la vita, la lotta, il dolore e la bellezza, la tristezza dei volti perduti, la comprensione di ciò che è stato, a volte la nobiltà, e anche il coraggio: ma l’oblio, mai ››. Rithy Panh insegue questa immagine-fantasma e nel rincorrerla ne attraversa altre, come quelle costruite dal regime, immagini che non sanno raccontare e contro cui l’oralità del regista/testimone si oppone. Ne L’immagine mancante il found footage viene utilizzato per inoculare il germe propagandistico insito nelle immagini ribaltandone il significato, fornendo una riscrittura della memoria; la contemporaneità del film consiste dunque nel ripensare il cinema documentario come spazio aperto alla sperimentazione, come un’arte capace di dare il movimento, ma anche di cristallizzarlo, come le statue di argilla protagoniste del film che nella loro immutabile passività urlano. Ma il film è anche una potente riflessione sul passaggio dall’analogico al digitale: le immagini propagandistiche girate in 16 mm dall’operatore anonimo al servizio di Pol Pot sono lontane dall’essere l’impronta della realtà; il digitale utilizzato da Rithy Panh per riprendere le statue d’argilla con l’originale messa in scena di questo universo tutt’altro che fittizio segnano un nuovo, delizioso, ribaltamento, di certo inviso ai teorici dell’apocalisse.
Se il film di Rithy Panh ricostruisce le memorie, Eau Argentée – Autoritratto siriano (2014, Ossama Mohamed, Wiam Simav Berdixan) elabora un discorso critico a partire dal presente, sull’immagine come forma di resistenza alle rovine generate dalla crisi siriana. In Peeping Tom, l’obiettivo della macchina da presa diventa il prolungamento meccanico dell’occhio del cameramen/assassino. Come direbbe Paul Virilio, la funzione dell’occhio è dunque la funzione dell’arma. Sebbene si tratti di un film di tutt’altra natura, e il paragone risulti quantomeno azzardato, in Eau argentée la relazione occhio-assassino viene capovolta. Il film è un montaggio di 1001 immagini riprese da donne e uomini siriani, civili, soldati o ribelli, tragici documenti di una quotidianità sconvolta dai venti di guerra. Le immagini che ci vengono proposte da Ossama Mohamed sono sconvolgenti, testimoniano la drammatica quotidianità nella Siria devastata dalla guerra civile; un susseguirsi di uccisioni a sangue freddo, torture compiute dai militari, esplosioni durante cortei di protesta. È complicato decifrare la natura di questi frame a bassa risoluzione: immagini povere, registrate con le fotocamere dei cellulari o con altri supporti digitali; è la loro genealogia precaria a renderle uniche, imperfette, alternative, in totale contrapposizione alle immagini registrate dai network occidentali. È ancora più difficoltoso non distogliere lo sguardo di fronte alle violenze compiute dai militari di Bashar al-Assad, ma rifiutare queste immagini equivarrebbe a tradirle. Cosa comporta la loro fruizione? Esiste un’etica della visione in grado di filtrare con gli occhi le violenze dell’umano? Pietro Montani ne L’immaginazione intermediale utilizza il concetto di autenticazione per illustrare quel processo che determina la conversione dal trauma all’esperienza visiva: ‹‹Elaborare le immagini che riceviamo dai media significa attraversarle, aprire passaggi, disporre aree di intersezione, costruire strutture di intermediazione: adoperare, insomma, l’immaginazione non tanto come una forza che unifica il molteplice della sensazione, quanto come un lavoro, o una tecnica, che distribuisce e discrimina, differenzia e confronta. Un’immaginazione che potremmo definire critica, a patto di intendere la parola secondo il suo etimo antico – krinein – che significa separare e distinguere››.
Il regista Ossama Mohamed raccoglie il materiale, ne fa un montato, ma è costretto a fuggire in Francia per sopravvivere ai bombardamenti e alle devastazioni. Il film si trasforma in una sorta di processo di agnizione del regista, una fuga verso la salvezza e un’elaborazione del lutto. Ma tramite Skype viene contattato da Simav, una ragazza curda barricata in un distretto di Homs e determinata a registrare il desolante panorama cittadino, con le macerie, le carestie in atto e i pochi sopravvissuti. Il film si trasforma in un video epistolario tra i due, con la giovane ragazza, il cui nome tradotto dal curdo significa acqua argentata, intenta a documentare la quotidianità della guerra imbracciando la camera, cercando un senso nelle immagini che scorrono attraverso il dispositivo. Filmare equivale a resistere, l’occhio dell’operatore e l’obiettivo della macchina funzionano come arma di opposizione al regime, quella più potente. Documentare e mostrare queste immagini significa dunque compiere un atto politico, l’ultimo baluardo di sopravvivenza alla decapitazione di un paese insidiato dalla morte. In Eau argentée la pratica del found footage viene utilizzata non solo per comprendere la contemporaneità e rispondere all’urgenza di mostrare il reale, ma come arma fondamentale per combattere. A noi spettatori non rimane che autenticare queste immagini, contemplarle, renderne conto e assumerle, nonostante i rischi corsi per ottenerle, malgrado l’incapacità di guardarle come meriterebbero.
Dal lavoro di scoperta e riscrittura dell’archivio di Rithy Pahn all’immagine intermediale e di resistenza di Eau argentée, il cinema contemporaneo attrae come un magnete iridescente forme e pratiche eterogenee per interpretare la contemporaneità, per studiarne le sopravvivenze e i resti del passato, per indagare e riflettere sulle macerie del presente. Un cinema spesso emarginato dai circuiti virtuosi, che si muove sotto il flusso mediatico commerciale, ostruito da un mondo imbottito da merce immaginaria. Occorre far riemergere queste immagini, in qualche modo farci i conti affrontandole vis-à-vis, per decodificare il presente e risolverlo attraverso un processo critico.
Bibliografia
Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2011
Marco Bertozzi, Recycled Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2002
Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005
Elisabetta Galasso, Marco Scotini (a cura di), Politiche della memoria. Documentario e archivio, DeriveApprodi, Roma 2014
Claudio Marra, L’immagine infedele. La falsa rivoluzione della fotografia digitale, Bruno Mondadori, Torino 2006
Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Bari 2010
Paul Virilio, Guerra e Cinema. Logistica della percezione, Lindau, Torino 1996