Proiettando La stella del cinema di Mario Almirante, lo scorso 11 dicembre la Casa del Cinema ha ricordato due scomparse, o meglio due immortali presenze del cinema (non soltanto) romano: gli occhi prolifici degli stabilimenti Cines e l’occhio critico di Ciro Giorgini [1], che questa gemma del cinema d’antan aveva “lungamente inseguito”.
Agli inizi del secolo scorso la Cines era stata una delle più note “manifatture cinematografiche” dell’Appio Latino, assieme agli stabilimenti Caesar, Scalera, Titanus-Appia e SAFA. Era stata fondata nel 1906 da Dante Santoni e dal tecnico della fotografia Filoteo Alberini, inventore di quella “Panoramica Alberini” che avrebbe ispirato il Cinemascope [2]. Entrambi furono presto rimpiazzati da “uomini d’affari”, ma in seguito la Cines sarebbe stata nuovamente diretta da pionieri dell’industria cinematografica, divenendo la scuola d’arte e nuovi mestieri di quelle “famiglie di maestranze” succedutesi per generazioni.
Nel 1929 il suo più noto direttore, lo storico produttore-esercente-noleggiatore Stefano Pittaluga, aveva potuto acquisire i teatri di via Vejo, e con essi dominava l’area di piazza Tuscolo, subito fuori Porta San Giovanni. La sua Cines era in grado di fornire settimanalmente agli esercenti “1 dramma (600 m. circa), 1 commedia, 2 comiche e 2 documentari”, eccellendo in particolare nella produzione storica e in costume. La notte del 26 settembre 1935 gli stabilimenti vennero distrutti da un incendio, ma caso volle che il neoproprietario di allora, il gerarca fascista e palazzinaro Carlo Roncoroni, aveva già istituito la società Cinecittà qualche mese prima.
La tradizione che voleva far partorire tutti i film nei dintorni dell’Appio Latino fu dunque mantenuta. Cinecittà, che in poco tempo tutta la fama avrebbe inglobato, si stanziò dall’aprile del ’37 solo un po’ più ai margini di Roma Sud Est, al n. 1055 della Via Tuscolana (che all’epoca, certo, era ancora “piena campagna”, difatti il terreno, precedentemente usato per lo smaltimento dei rifiuti, era stato acquisito per pochissime lire: come dire dalla monnezza in combustione ai sogni in pellicola… Sogni da cui rimasero fuori, almeno ai suoi inizi, solo gli ex dipendenti della Cines che rifiutavano di iscriversi al Partito Nazionale Fascista, mentre tutti gli altri tecnici furono ricollocati nella “città del cinema” con le stesse mansioni). La Cines in ogni caso, nonostante il “misterioso incendio”, non è mai morta, tanto quanto la sua nota erede di periferia. Venne ricostruita e riavviata per ben tre volte (integrando altre attività e avviando molte co-produzioni), fu temporaneamente trasferita a Venezia, e pure oggi esiste ancora: si trova sull’Aurelia ed è diretta dal maestro Leonardo Bragaglia.
Vedendo La stella del Cinema, che è del 1931, godiamo di ottima visuale sugli estinti teatri-studio cinematografici di via Veio, che Pittaluga aveva inaugurato l’anno prima. Il film è stato presentato in DCP, grazie a quel restauro appena terminato che ha permesso di recuperare e digitalizzare il negativo prima della decomposizione del supporto nitrato in 35mm. Un restauro che però, come sottolineato durante il dibattito in sala, ha scelto di non “ripulire” la pellicola oltre il necessario, ovvero di non offuscare con splendore digitale né l’immagine né il sonoro, che allora celebrava le sue prime albe. Di esso una parte andò irrimediabilmente perduta, e la restante risulta ancora “acerba” a causa degli ovvi difetti dei sistemi di registrazione di prima generazione.
Definito un metafilm perché in esso effettivamente si spalancano “le quinte” del sistema di produzione, realizzazione e distribuzione cinematografica nell’Italia degli anni ’30, il film è anche, a nostro parere, l’allegra metafora della fase di transizione tra il muto e il sonoro. Transizione di cui Stefano Pittaluga fu primo artefice, avendo riallestito i suoi stabilimenti per meglio accogliere “i films sonori cantati e parlanti”, e finanziandone il primo italiano tentativo: quel pirandelliano In silenzio poi re-intitolato La canzone dell’amore, diretto da Gennaro Righelli nel 1930. Quest’ultimo era stato presentato allo stesso Supercinema (oggi Teatro Nazionale) che possiamo ammirare ne La stella del cinema. Ne era protagonista l’Elio Steiner che avrebbe vestito i panni del romantico Nerio Fumi nella pellicola di Almirante.
Se l’America aveva già fornito il sistema di registrazione su disco – quel Vitaphone che permise la creazione del primo part-talkie (The Jazz Singer) – il vero miraggio restava la sincronizzazione, o meglio la sincresi [3], fosse pure per qualche breve e ambitissimo “minuto parlante”. Pittaluga aveva comprato in America gli impianti e proiettori Vitaphone e Movietone, rendendosi però subito conto che essi erano già stati superati dal “sistema di presa Photophone RCA”, che prontamente ordinò. Come già il Movietone, il Photophone registrava il suono direttamente su pellicola, ma su aria variabile.
L’“avventura del sonoro” portava inevitabilmente nuove costrizioni e incredibili sfide per gli avanguardisti fonici e ingegneri del suono impiegati da Pittaluga (Vittorio Trentino, Giovanni Paris e Pietro Cavazzuti), ma portava anche la brezza dell’invenzione e la letizia dello stratagemma. Erano i precisi anni delle cabine per i dialoghi, dei microfoni a condensatori, delle giraffe di legno, dei truck sonori e delle batterie al piombo. Compariva (dietro la scena) il primo microfonista della storia, rigorosamente in camice bianco [4]. Questa fervida ansia sperimentale si ode pienamente ne La stella del cinema, e in parte anche nel precedente La canzone dell’amore (anch’esso metafilmico). Seppur en passant, La stella del cinema non si priva del piacere di fieramente illustrare l’installazione di apparecchiature ed amplificatori per il film parlato, e in esso si rende omaggio non tanto o non soltanto all’auspicato successo del sonoro, ma anche ai primi esuberanti esperimenti artistici e commerciali, a quel desiderio del sincronico così difficile da realizzare.
La giusta voce al momento giusto, quel suono pulito tanto atteso, è qui nel volto della nuova insospettata primattrice Fiorella D’Aprile [5], amabile comparsa ignara ella stessa di credere al cinema più che alla vita. Nei teatri di Via Veio è scovata con fatica. Quasi come se la parola per la prima volta pronunciata dovesse emergere a singhiozzi, a frammenti convulsi e a tratti sovrapposti, e la sua ricerca coincidere con l’esilarante costruzione di un film canoro futurista di cui la D’Aprile otterrà il ruolo di primo piano (inassegnabile alle attrici di prima, alle “voci di ieri”).
Pur essendo già lì, nelle arterie del labirinto-Cines, in quelle fragili mura di pellicole, la dolce Fiorella non si impone subito, ma è l’emblematica comparsa che va e viene, che inciampa negli stabilimenti, che s’intrufola sulla “scena buona” a sua insaputa, che è lì quasi per errore e si fa notare a speranze quasi perse. I suoi acuti emergono tra le gag dei mestieranti e del “comparsame” (il segretario del regista, ad esempio, si ubriaca e non ricorda il suo nome, pur avendola dovuta “cacciare più volte” dalla scena dov’era d’intralcio), e pian piano si fan strada tra i figuranti del muto, convincendo il pubblico vecchio delle intenzioni nuove (come quel suo fidanzato Nerio che, per troppo amore dell’unica figura in grado di convincer del suo canto, accetterà senza più gelosia tutta quella modernità, ovvero il successo della voce sulla scena cinematografica).
Il film è anche un dolce omaggio al vecchio motto amatoriale del kinoita, o almeno a noi piace vederlo così. Se è vero, come ben ricorda Ghezzi citando Rossellini a proiezione conclusa, che il cinema ci circonda e c’invade, perché esso è di fatto “in tutte le cose” (vano dunque sarebbe pensare di proteggersene), esso può facilmente ricrearsi tra le pareti di casa con un semplice macina caffè e un’ampolla per pesci rossi, come messo in scena da Fiorella e Nerio nel tentativo di “ripetere la parte” tra le mura decorate della loro abitazione in Via Nomentana, Roma. Persino in una “grande distribuzione” come questa, caduta nell’oblio prima del felice restauro, si può rendere omaggio a quei tentativi di cinema pubblici e privati, casalinghi o statali, commerciali o ingegneristici, che insieme e mai l’uno senza l’altro, hanno dato l’immagine e il sonoro, e il loro tanto atteso (ri)congiungersi in forme sempre nuove. In forme, ci si augura, sempre un po’ sperimentali.
[1] A cui, nello stesso luogo, due anni fa veniva dedicata la densa rassegna “TOO MUCH CIRO… Welles 100 anni (di magnifiche ossessioni) una manifestazione di e per Ciro Giorgini”.
[2] Ovvero la possibilità di “vedere con due occhi” anche al cinema. Cfr. https://sempreinpenombra.com/2008/06/12/filoteo-alberini-parte-seconda/.
[3] Ovvero la “saldatura inevitabile e spontanea che si produce tra un fenomeno sonoro e un fenomeno visivo puntuale quando questi accadono contemporaneamente”, assieme a tutti i desideri di volgere altrimenti questo legame… (Cfr. M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, tra. it. di D. Buzzolan, Lindau, Torino 1997, p. 58).
[4] Dobbiamo molte di queste informazioni alle storie visive dell’ingegneria del suono cinematografico messe online da Luciano Muratori.
[5] Nome d’arte della comparsa Rosa Bianchi, interpretata da Grazia Del Rio.