Ne avevamo scritto per la virtuosa produzione televisiva del 2016, lo replichiamo quest’anno nella convinzione che uno sguardo alle migliori novità seriali del 2017 confermi come oggi le tv via cavo non solo tengano fede alla lotta, di forme e contenuti, ingaggiata con la produzione cinematografica mainstream, ma riescano anche ad anticipare, o sviscerare senza remora alcuna, quelle tensioni sotterranee che ne segnalano crisi o contraddizioni latenti (come non ritrovare sottili echi dello scandalo #metoo in Big Little Lies, The Handmaid’s Tale o persino I love Dick?). Insomma, la spia del fatto che la televisione sappia nutrirsi di realtà, indipendentemente da orientamenti produttivi, ambientazioni più o meno contemporanee o generi narrativi di riferimento, sembra rafforzarsi ogni anno più distintamente. Merito di alcuni autori e registi chiave nel panorama seriale degli ultimi anni – su tutti, David Fincher e David Simon – che non rinunciano a rinnovare le proprie scommesse con le storie e con il pubblico. E per chi non volesse riconoscerlo, come ignorare l’evento televisivo più importante del nuovo millennio, quello che per mano di David Lynch rilancia la riflessione stessa sulle forme di cui già era stato promotore? Twin Peaks: The Return spariglia nuovamente le carte in tavola, per dirci che anche in tv, oggi come ieri, tutto è possibile.
Mindhunter (Netflix)
Nel 1977 Holden Ford, giovane negoziatore in crisi dell’FBI, trova nel collega e veterano Bill Tench e nella docente universitaria Wendy Carr i possibili alleati per rinnovare la ricerca psicologico-comportamentale su un nuovo tipo di assassino, presto sdoganato come serial killer. La metodologia è tutta da trovare: per affermare la bontà del nuovo metodo di indagine e individuazione del colpevole noto come “profilazione”, l’unica strada praticabile è quella di visitare le numerose prigioni degli Stati Uniti e intervistare i maggiori e celebri pluriomicidi che stanno scontando la loro condanna. Basata su fatti e protagonisti reali, la prima stagione della serie diretta e supervisionata da David Fincher è un nuovo salto negli orrori della psiche tanto cari al regista americano. Dilatazione paziente di quasi tutte le scene madri de Il silenzio degli innocenti, clamorosa dissimulazione dei momenti di agnizione del killer, tipici della serialità residuale (vedi CSI, NCIS, etc.…), Mindhunter indaga le tare storiche del bene e del male in una maniera che forse Fincher non aveva mai esplorato così a fondo: per decifrare oggi i segni di una devianza – se davvero è possibile chiamarla tale – occorrono strategie aggiornate di rappresentazione e smascheramento della rappresentazione. Con True Detective non ha niente in comune, se non la cosa più importante, la fuga dal canone e dal genere: là per sprofondamento, qua per logoramento. [Marco Longo]
I Love Dick (Amazon)
Nel raccontare l’ossessione erotica, I Love Dick sta alle donne come Lolita sta agli uomini. La serie prende le mosse dall’omonimo romanzo di Chris Kraus, “docufiction” letteraria in cui l’autrice raccontava l’incontro con Dick Hedgbie, tra i fondatori dei cultural studies britannici, avvenuto tramite il marito Sylvère Lotringer, fondatore della casa editrice Semiotext(e). Più Alexander Portnoy che Madama Butterfly, Kraus pur nel rifiuto e nell’umiliazione scopre una scorciatoia comune a tanti autori maschi per mantenere una forma di controllo anche nella perdita di sé rappresentata dall’eros. Nell’idealizzazione del suo oggetto inaccessibile, trova la fonte a cui abbeverare il suo ego ferito dall’insuccesso professionale, la forza per uscire da un matrimonio castrante e soprattutto una storia, un modo per esprimersi. È il rapporto tra autore e musa, per una volta a generi invertiti. In una delle tante lettere che scrive a Dick afferma “I don’t care if you want me. It’s enough that I want you”, una dichiarazione che in bocca a una donna suona liberatoria, ma che pronunciata da un uomo suonerebbe sinistra e minacciosa. Per questo l’interesse della serie creata da Jill Soloway sta nel riuscire ad andare oltre al semplice ribaltamento dei ruoli di genere, dimostrando che se davvero la storia del cinema è stata la storia dell’oggettificazione femminile, questo è accaduto per volontà deliberata, e non per la natura intrinseca del dispositivo, che invece ha la capacità di farci entrare nelle individualità dei personaggi e, mostrandone l’interdipendenza reciproca, di scompaginare le dinamiche gerarchiche che strutturano la società. [Elisa Cuter]
Feud: Bette and Joan (FX)
Accomodata su un elegante sofà dal gusto un po’ barocco, la Olivia de Havilland interpretata con riverenza e misura da Catherine Zeta-Jones annuncia l’inizio di Feud: le rivalità non nascono mai dall’odio ma dal dolore. Il concetto di “faida”, che permea la nuova serie antologica di Ryan Murphy (showrunner di Nip/Tuck, American Horror Story e American Crime Story), prende avvio raccontando l’incessante battaglia tra le attrici Joan Crawford e Bette Davis. Una faida che inizia negli anni Trenta e che culmina all’inizio degli anni Sessanta, quando le due dive – in drammatica flessione di popolarità – dividono il set dell’horror Che fine ha fatto Baby Jane?, firmato da Robert Aldrich. Quanto colpisce di Feud: Bette and Joan non è quello che a prima vista potrebbe sembrare l’omaggio al mondo del cinema del notoriamente appassionato Murphy, ma il racconto in cronaca del suo disfacimento. La serie, all’apparenza un esperimento riuscito di adorabile citazionismo (basti pensare al cameo di John Waters che fa William Castle…), è in realtà un dossier spietato sulla pigrizia e sulla capacità del cinema di “macchiare” se stesso e le sue creazioni, ancor più pericoloso poiché per consolidarlo si utilizza il medium televisivo: una scelta estetica, praticamente politica. Non va lodata solo la bravura di Murphy nel ricreare un’atmosfera o nel dirigere le due protagoniste – Susan Sarandon nei panni di Davis ma soprattutto Jessica Lange ai massimi storici in quelli della Crawford: tra le migliori visioni degli ultimi anni, Feud è un’opera corrosiva e devastante, che annega nell’impossibilità di essere salvata – ed è questo il suo fascino più grande. [Giuseppe Paternò di Raddusa]
Big Little Lies (HBO)
Nulla di più irritante delle futili chiacchiere fuori da scuola, mentre si attende l’uscita dei propri figli. Eppure, proprio a partire da questo rituale – che tutte le madri ben conoscono e con cui si sono dovute cimentare – si sviluppa l’innesco drammaturgico di Big Little Lies, la serie in sette puntate della HBO diretta da Jean-Marc Vallée. Poco importa quanto siano amiche: la brillante Madeline (superbamente interpretata da Reese Whitherspoon), con il pensiero di una figlia adolescente co-divisa con l’ex marito e le fantasie amorose di un amante da tenere a bada, la raffinata Celeste (Nicole Kidman), madre di due gemelli e sposa deferente di un marito tanto bello quanto violento, la riservata Jane (Shailene Woodley), ragazza madre appena approdata nell’upper class di Monterey, anche se vive in un prefabbricato. Una lotta tra bambini, che riflette i disagi dei loro genitori, sarà solo il progressivo disvelamento di ciò che si cela dietro la superficie di calma e beneducazione delle rispettive famiglie. Il rimosso arriva sulle ondate, lente e fragorose, dell’oceano su cui si affacciano le ville delle protagoniste, in un montaggio ritmico e immaginifico che lascia esplodere l’emotività di ciascuna. Persino l’acerrima nemica, la manager e aggressiva mamma in carriera Renata (Laura Dern), mostrerà la propria vulnerabilità in un finale che è un vero trionfo della solidarietà femminile, a cui si perdona di chiudere in maniera troppo prevedibile la narrazione. [Daniela Persico]
Twin Peaks: The Return (Showtime)
Sono molte e differenti le ragioni che rendono Twin Peaks: The Return la cosa più importante mai realizzata nell’ambito delle serie tv. La sua percezione della dimensione temporale, il suo tentativo di rivitalizzare un linguaggio, prendendosi gioco di espedienti narrativi abusati, sembra voler nuovamente indicare la via, dopo un quarto di secolo televisivo esistito proprio grazie a Twin Peaks. Ma come già in INLAND EMPIRE e nelle dichiarazioni di abbandono del cinema da parte di Lynch, sulla serie aleggia un’atmosfera da fine della narrazione, da morte dello storytelling. Una delle frasi-simbolo pronunciate da Dougie/Cooper, e divenuta immediatamente un tormentone, recita “Make sense of it”, “Dagli un senso”. Uno sprone, un gioco, una sfida, un invito all’esoterismo con delitto. Dare un senso al tutto richiede uno sforzo ulteriore: non può prescindere dalla sintesi del postmoderno, ma vorrebbe superarla, porsi “a parte”. Rivivono i feticci visivi di decenni di teorie sull’audiovisivo: una gabbia di vetro in cui catturare le immagini, che dialoga apertamente con lo sviluppo tecnologico del cinematografo, e un sicomoro parlante, attraversato da scariche elettriche, che assomiglia a una versione distorta di una macchina di Tesla. Come per Fuoco cammina con me la definizione di prequel era stretta e fuorviante, in Twin Peaks: The Return non stiamo assistendo a un sequel, ma a un upgrade, a un Twin Peaks 3.0, di cui capiremo l’importanza concettuale solo nel futuro. Né a un revival, per definizione rassicurante e nostalgico. Chi si aspettava un tuffo nel passato è rimasto fregato: l’artista può solo guardare avanti. [Emanuele Sacchi]
The Handmaid’s Tale (Hulu)
“In una vasca che si scalda poco a poco, finiremo bolliti senza accorgercene”. Questa una delle frasi più iconiche di The Handmaid’s Tale, serie tv targata Hulu e tratta dal romanzo distopico di Margaret Atwood. Come spesso accade in questo genere di racconto, le cause scatenanti il dramma collettivo sono la reazione al presunto decadimento morale della società americana e il degrado ambientale, con la conseguente creazione di una dittatura socio-religiosa che impone alle poche donne ancora fertili di procreare con gli uomini più altolocati, per poter poi lasciare il bambino alla moglie legittima. Come in ogni distopia che si rispetti la flebile via di fuga viene incarnata da una resistenza clandestina, con base in Canada (patria della stessa Atwood). Fino a qui tutto bene. Ma oltre all’impatto che intreccio e personaggi producono inevitabilmente sulla sensibilità di chi guarda, a rendere questo lavoro un’opera che si discosta da prodotti affini è la sua – potenzialmente pregnante – attualità. La fortissima risposta del pensiero progressista liberal americano alle accuse di chi lo taccia di inautenticità passa attraverso la forma di intrattenimento più massiva degli ultimi anni: la serie tv. L’incubo potenziale che nasce dalla voragine dell’arretratezza viene messo in scena con tale veemenza da annichilire qualsiasi smorfia di disapprovazione, lasciando spazio al silenzio di una riflessione che ricerca disperatamente l’equilibrio in un’equità sempre più difficile da collocare nel sentire comune. [Mario Blaconà]
The Deuce (HBO)
A New York, nei primi anni Settanta, la 42 ͣ strada o “The Deuce”, com’è chiamata, è il luogo osceno dove la carne si vende a ogni ora del giorno e della notte. E non in macelleria. Il pappone è il capitalista, la passeggiatrice è insieme classe operaia e merce. Alienazione e violenza la fanno da padrona. Candy (una splendida Maggie Gyllenhaal) è troppo indipendente per avere un protettore e sembra sempre più stufa di battere il marciapiede. But she never lost her head, even when she was giving head. Intuisce che la pornografia è la nuova industria del sesso, così ne approfitta per reinventarsi regista. Porno e prostituzione. Questi i due mercati, strettamente interconnessi e controllati dalla mafia, esplorati nella nuova serie scritta da David Simon e George Pelecanos, con la consueta etica dello sguardo e il distacco non giudicante dell’inchiesta giornalistica, da cui gli autori mutuano anche il metodo di preparazione. Molti dei personaggi, infatti, traggono ispirazione da persone reali, come i due gemelli che gestivano un bar a Times Square e che qui, con il nome di Vincent e Frankie, sono entrambi interpretati dall’ottimo James Franco, anche regista di due episodi. Grande apologo politico sul potere dei soldi, The Deuce ha il merito innegabile di riportare una New York mai così cupa al centro dell’immaginario audiovisivo. Un inferno a cielo aperto, brulicante di anime perse, vagabondi e peccatori. Take a walk on the wild side. [Francesco Grieco]
Legion (FX)
In quanto genere ormai codificato, anche il cinecomic cerca la strada del rinnovamento. Il mutante David Haller, antieroe fra i più bizzarri e complessi della Marvel, si presta bene a una rilettura iconoclasta del racconto supereoistico, e il talento di Noah Hawley coglie l’occasione per ribaltarne gli schemi: se il canone cine-televisivo tende sempre a proiettare l’azione verso l’esterno (dove entra in gioco una dinamica ben precisa tra minaccia e contrattacco), Legion compie invece il percorso inverso, poiché interiorizza il conflitto e stimola la fruizione attiva del pubblico. Come tutti i mutanti, David possiede straordinarie abilità che si manifestano durante lo sviluppo, ma nel suo caso si tratta di vastissimi poteri mentali che alterano la percezione della realtà. Diagnosticato come schizofrenico, David è rinchiuso in un ospedale psichiatrico dove s’innamora di Syd, mutante che può scambiare il suo corpo con chiunque la tocchi. Questo incontro esplosivo sconvolge le vite di entrambi: il tormentato protagonista, ora consapevole della sua natura, è costretto ad affrontare un velenoso nemico che si annida nella sua psiche, riesaminando i traumi di un passato sempre più inaffidabile. Su queste premesse, Hawley costruisce una narrazione astratta che dissolve i limiti fra il sonno e la veglia, dove lo straordinario lavoro di montaggio – anche sonoro – dà corpo alla fragilità cognitiva di David. Gli episodi di Legion, infatti, si svolgono per lo più in una dimensione sovrasensibile (astrale, onirica, mnemonica o psichica) che rievoca la celebre Black Lodge di Twin Peaks, sancendo il trionfo dell’irrazionale in un genere solitamente dominato dalla chiarezza espositiva. Gli archetipi – pur presenti in una certa misura – vengono rielaborati da Hawley con lo stesso piglio straniante di Fargo, la sua prima creatura televisiva, ma il terreno del fantastico gli permette di azzardare ancora di più: ne deriva una folle contaminazione di registri che unisce dramma, fantascienza, romanticismo, commedia, thriller e persino musical, con risultati ipnotici e spiazzanti. Senza dubbio, la miglior serie nel suo genere insieme a Daredevil. [Lorenzo Pedrazzi]
Dark (Netflix)
1953, 1986, 2019, un unico eterno presente. Probabilmente, ai tempi della seconda Golden Age della tv americana, Dark – una delle hit del listino Netflix 2017 – avrebbe avuto un hype incredibile, con una settimana intera, tra una puntata e l’altra, a disposizione dei fan per discutere sui misteri della cittadina di Winden. Grazie invece alla fruibilità in binge watching dei dieci episodi rilasciati simultaneamente, gli showrunner Baran Bo Odar e Jantje Friese hanno accettato di perdere la scia del fermento mediatico ma hanno potuto complicare senza limiti i tempi e i piani narrativi, con un livello di difficoltà così sfidante che sarebbe stato impossibile con una fruizione old style: sacrifici e vantaggi del VOD. Al centro del labirinto temporale di Dark c’è un oggetto perturbante, un reattore nucleare che si erge al centro di Winden, familiare e insieme oscuro catalizzatore dei misteri, delle apparizioni e delle sparizioni degli abitanti della piccola comunità. In realtà i due autori, con il loro Unheimliche atomico, piegano lo spazio e il tempo con il solo scopo di mettere i loro personaggi davanti a se stessi (letteralmente), all’incomprensibilità della perdita e all’elaborazione del lutto. Magnificamente supportati dal compositore australiano Ben Frost, che impreziosisce l’opera con una splendida partitura elettronica, Odar e Friese regalano a Netflix un prodotto di altissima qualità, più dalle parti di Twin Peaks e Lost che – come è stato erroneamente detto – di Stranger Things, e che si colloca senza dubbio tra le novità più riuscite e discusse della scorsa stagione. [Simone Spoladori]
13 Reasons Why (Netflix)
Il fenomeno adolescenziale del 2017 spinge il teen-drama verso nuovi orizzonti. Senza le patinature che spesso caratterizzano questo sottogenere, 13 Reasons Why sfrutta l’omonimo romanzo di Jay Asher per riflettere su varie sfaccettature del disagio giovanile, trovando un’efficace corrispondenza tra forma e contenuto: la storia ruota attorno al suicidio di Hannah Baker, una liceale della provincia americana che, vittima di stupro e di bullismo, prima di togliersi la vita decide di lasciare tredici audiocassette alle persone che ritiene responsabili della sua sofferenza; uno dei destinatari – l’introverso Clay Jensen – riceve i nastri e comincia ad ascoltarli, sperimentando per empatia il dolore di Hannah. Gli episodi della prima stagione sono tredici, ognuno corrispondente a un singolo nastro, e il racconto si struttura come un’indagine progressiva che assume i tratti del mistery. Al netto di alcuni schematismi, 13 Reasons Why mette in scena la crisi del pragmatismo americano davanti al caos dell’adolescenza, i cui turbamenti innescano conflitti sociali che non si possono curare con farmaci o programmi di recupero. Da qui scaturisce la frattura profonda col mondo degli adulti, incapaci di comprendere le tacite regole cui sottostanno i loro figli, basate sul pensiero collettivo e sull’importanza della reputazione. Tra slut-shaming e logica del branco, la serie non cerca edulcorazioni né scappatoie, ma costringe pubblico e personaggi ad accettare un lutto irreversibile, senza illudersi che possano trarne qualche insegnamento morale. Il risultato è un’epopea straziante, capace di attrarre l’interesse di due cineasti molto diversi come Tom McCarthy e Gregg Araki, perfettamente a loro agio con la pluralità dei punti vista e le sfumature caratteriali dei protagonisti. [Lorenzo Pedrazzi]