All’interno del discorso su cinema e realtà, non si può tacere l’attenzione riservata negli ultimi mesi al lavoro di Jonas Carpignano: nato negli Stati Uniti da padre italiano e madre afroamericana, cresciuto tra New York e Roma, a trentaquattro anni Carpignano è un autore che dialoga tanto con il panorama dei grandi festival internazionali, quanto con la ricezione e i riconoscimenti in Italia, terra di adozione delle sue storie. Già forte del suo primo lungometraggio, Mediterranea, con A Ciambra il suo lavoro ha configurato una maniera di approcciare il reale e rielaborarlo con le forme del cinema, fondando su un’idea di adesione e appartenenza ai luoghi la cifra necessaria a modulare un racconto che supera la cronaca e si fa autentica restituzione, testimonianza. Ospite della Summer School 2017 di Filmidee, Carpignano ha risposto alle nostre domande sul rapporto con Gioia Tauro, sulla scrittura dei personaggi e la relazione con le persone, sul metodo di lavoro con la troupe.
Filmidee: In Mediterranea e A Ciambra la tua relazione con la rappresentazione di una specifica realtà passa attraverso i corpi, più che attraverso i luoghi, come se i corpi fossero la mediazione necessaria, perché tutto ciò viene mostrato è quello che essi vivono. Da cosa deriva questa scelta?
Jonas Carpignano: Dal fatto che io sono interessato alle vite dei miei protagonisti ma non non vivo la loro vita. Nonostante ormai abiti a Gioia Tauro, si tratta ancora di un mondo molto lontano da me, perché se non vivi quella vita per 365 giorni all’anno non è la tua vita. In Mediterranea ho fatto al fianco di Koudous tutto il viaggio dall’Africa all’Italia, la partenza dal Burkina Faso, l’attraversamento del deserto… Tutto tranne il viaggio in gommone, che era davvero pericoloso: non per il viaggio in sé ma perché gli scafisti libanesi che organizzano i viaggi sono persone “difficili”, per così dire. Koudous è una persona carismatica, e questo fa si che nel film si riesca a empatizzare con la sua vicenda, ma non in maniera pietosa, sia chiaro: io sono contro il buonismo e la retorica. Lo stesso vale per Pio in A Ciambra: siamo amici da quando aveva 9 anni e nel momento in cui ho pensato di raccontare quel mondo non ho potuto fare a meno di pensare a lui, perché è stato lui a farmi capire come funziona.
Fi: Ci interessa molto la relazione che intrattengono i corpi che filmi con il paesaggio circostante. Non concedi mai loro campi lunghi, sono sempre in primo piano…
JC: Per me è fondamentale che la macchina da presa rispecchi il punto di vista del personaggio. In Mediterranea il racconto può apparire frammentario perché è tale la percezione che ha Koudous di ciò che gli sta intorno. Scopro i posti attraverso i miei personaggi, non il contrario: non mi servo del personaggio per scoprire un luogo. Quando Pio va in giro per Gioia Tauro in A Ciambra, quel posto per lui è la normalità, mentre a chiunque altro verrebbe da dire “mamma mia, quanto è brutto questo posto”. Se io pensassi di voler dire una cosa del genere allargherei il campo dell’inquadratura, ma non lo faccio perché il punto di vista è quello di Pio: a lui non interessa dire che il posto è brutto. Per me è più importante il rapporto del personaggio con la macchina da presa dello stupore che si può creare attraverso l’immagine.
Fi: E la distanza con i personaggi, come la scegli?
JC: Non mi piace utilizzare i dialoghi per spiegare i personaggi. A me non interessa quello che mi raccontano ma quello che fanno, quello che vedo quando sto con loro. Quindi cerchiamo di mettere la macchina nella posizione ideale per capire in che modo si sentono i personaggi. Ad esempio: nella scena della cena di A Ciambra volevo dare l’impressione che noi fossimo a tavola con loro e la macchina sta in un posto in cui sto io quando mi siedo a tavola con loro. È anche il modo di far capire allo spettatore quello che io ho compreso stando con loro, sulla base di un’esperienza diretta.
Fi: In questo senso, tra i due film c’è un’evoluzione. Forse anche nel passaggio tra il protagonista assoluto di Mediterranea e la coralità di A Ciambra, nonostante la rilevanza che acquisisce Pio in questo film. Un altro scarto riguarda le scene più liriche, come quelle in cui compare l’antenato della famiglia.
JC: In A Ciambra era molto importante mostrare il radicamento nella comunità, il loro senso di fratellanza: sono persone che hanno trovato un posto loro e lo difendono a tutti i costi. Il passato è ugualmente condiviso, c’è un che di tribale nella maniera in cui vi si rapportano, e quindi sapevo di dover rendere conto di questa tradizione. Trattandosi di qualcosa di molto astratto non sapevo bene come avrei potuto renderla, inizialmente, e questa mi è sembrata la cosa migliore da fare.
Fi: Come riesci a salvaguardare l’aspetto veritiero della recitazione dei tuoi protagonisti. In che modo lavori con loro?
JC: Cerco di fare come faceva Rossellini, che diceva che l’attore non professionista cerca a tutti i costi di recitare e il suo compito era farlo smettere di recitare. Si tratta di una cosa molto difficile, naturalmente, e credo che l’unica persona che non reciti nel mio film sia questo bambino di tre anni che c’è in A Ciambra, quello che fuma in continuazione… Non recita affatto, primo perché ha tre anni, e secondo perché io, con la mia macchina da presa, faccio parte della sua vita da quando è nato, quindi è abituato a vedermi lì. Per lui sarebbe strano il contrario, se non ci fossi. In ogni caso sarebbe impossibile far recitare un bambino di tre anni! In particolare questo! Fuma, guida… Una volta ha cambiato una ruota da solo! Sul serio!
Fi: C’è sempre il rischio di esporre eccessivamente i personaggi, soprattutto quando sono così giovani… Come ti relazioni con questa problematica?
JC: Cerco di non giudicare nessuno. In molti ce l’hanno con me per l’immagine che dò di loro, questi bambini che rubano e fumano, ma io non cerco di edulcorare la loro vita. Non sento il bisogno di renderla più “dignitosa”, perché non penso che non lo sia, e di certo non intendo farlo per rendere più facile l’immedesimazione dello spettatore o favorire l’accettazione di quello che vedono. Inoltre detesto l’approccio didattico, perché non credo che il cinema debba dare un messaggio o insegnare qualcosa. Mentre lavoro al film non penso mai a come verrà, a quali festival andrà… Sono impegnato in un progetto con loro, in qualcosa che stiamo facendo insieme, dove non impongo niente e l’idea che non li stia costringendo a fare niente che non vogliano fare per me è fondamentale.
Fi: In questa relazione che instauri con loro ci sono anche dei limiti, delle regole nel vostro rapporto e nella restituzione di qualcosa che appartiene alla loro esperienza?
JC: Credo sia diverso per ogni persona con la quale mi relaziono. Koudous, ad esempio: quando l’ho conosciuto era bloccato, perché non aveva il permesso di lavoro e non poteva farsi assumere regolarmente, ci conoscevamo da tre mesi e già convivevamo. Quindi ho avuto modo di stare molto con lui. Quanto a Pio mi piacerebbe poter dire che l’ho scelto io ma è il contrario: è lui che ha scelto me. L’ho incontrato per la prima volta nel 2011, quando suo fratello mi ha rubato la macchina. Ero parecchio stressato, perché tutto il materiale con il quale stavamo girando A Chjana, il mio primo cortometraggio, era in quella macchina. Sono andato alla Ciambra a chiedere che fine avesse fatto, perché mi avevano detto che l’avevano sicuramente presa loro. E in effetti era così. Mentre aspettavo di trovare i soldi per Mediterranea ho pensato che avrei potuto girare qualcosa di breve su quel luogo, e frequentando Pio e giocando a calcetto con lui e gli altri ragazzini sono stato progressivamente accolto in quella comunità.
Fi: Parliamo della scrittura dei film. Come lavori in relazione ad essa?
JC: Tendo a dire che il mio approccio non è molto documentaristico, tranne quando scrivo la sceneggiatura. Scrivo stando al fianco dei miei personaggi e cerco di inserire elementi reali nel testo. In Mediterranea, ad esempio, la scena della cena è scritta sulla base di quello che davvero i personaggi hanno detto in un’altra occasione simile. Quindi ho scritto i dialoghi sulla base di quello che ho sentito dire loro durante una cena, ma poi, durante le riprese, recitano i dialoghi che ho scritto io per loro. Lo stesso vale per la scena del viaggio in gommone di cui parlavo prima: è grazie alla testimonianza dettagliata di Koudous che ho potuto girarla così. Si tratta di un processo abbastanza lungo, ad ogni modo: per Mediterranea ho scritto sette stesure della sceneggiatura, per A Ciambra cinque…
Fi: In pochi anni sei riuscito a girare due film: sembra ci sia una certa efficienza nel metodo che hai trovato per finanziare e realizzare le tue opere.
JC: Cominciamo dalla produzione: devo dirvi che non conosco tutti i produttori del film, ce ne sono 23 e molti non so nemmeno che faccia abbiano! Si tratta di finanziatori privati, ed è una maniera molto “americana” di produrre un film, qualcosa che in Italia si fa raramente. Non è una cosa semplice. Ho cominciato a lavorare al film per la prima volta nel 2011 ma alla fine l’abbiamo girato nel 2015 e per tutto questo tempo pensavo unicamente a A Ciambra. A un certo punto eravamo in difficoltà, non si trovavano i soldi, e avevo girato un corto con lo stesso titolo che andò alla Semaine de la critique a Cannes: in quell’occasione trovammo delle persone disposte a finanziare il film.
Fi: C’è anche Chris Columbus, tra i produttori… Come mai?
JC: È un regista di enorme successo e non ha idea di come spendere tutti i soldi che ha guadagnato con i suoi film…! Insieme alla figlia ha deciso di fondare una casa di produzione, la Maiden Voyage. Ed è sua figlia che ha visto il corto e ha voluto subito leggere la sceneggiatura per il lungometraggio e sostenerlo.
Fi: Alla fine che budget hai raccolto?
JC: Per Mediterranea avevamo 950 mila euro. Considerando che eravamo in Africa e giravamo in pellicola non è tantissimo.
Fi: E la troupe?
JC: Sono le persone con cui ho lavorato in Re delle terra selvaggia di Benh Zeitlin. Io, il direttore della fotografia e il fonico vivevamo insieme in Louisiana e, una volta terminato il film, sono venuti con me per girare il mio primo corto, A Chjana. Si tratta di persone pronte a tutto, che non hanno paura di niente, ed è per questo che abbiamo potuto fare insieme i film che abbiamo realizzato. La troupe è molto ristretta: complessivamente siamo una ventina di persone, ma sul set non più di 5 o 6, perché non vogliamo imporre una struttura cinematografica sul mondo che filmiamo. E soprattutto non possiamo avere orari di lavoro, perché siamo legati a persone che non hanno orari… Come Pio: dovevamo aspettare che lui avesse voglia di girare! Comandava lui, sul set!
Fi: Come lavori sul fronte del montaggio? In Mediterranea figurano tre montatori…
JC: Il mio montatore di fiducia è un brasiliano, Affonso Gonçalves, che però lavora tantissimo e non sempre è disponibile. L’ho conosciuto sul set di Benh Zeitlin ma monta anche i film di Jim Jarmusch e Todd Haynes, tra gli altri. Impegnatissimo, quindi. Allora ho cominciato a montare il film con un altro montatore, ma non mi sono trovato bene, e alla fine ho incontrato Nico Leunen, bravissimo. Nico è entrato sapendo, però, che nel momento in cui Affonso si sarebbe liberato avrebbe dovuto farsi da parte. Per quanto mi riguarda un buon montatore deve essere anche un buon psicologo… Dev’essere uno che ci tiene a quello che faccio, perché la situazione può farsi molto tesa, complessa, e ho bisogno che chi mi sta accanto non solo condivida la mia idea di cinema e possa anche fare dei sacrifici per arrivare al risultato finale. Naturalmente ci dobbiamo anche divertire, perché altrimenti quello che facciamo non avrebbe molto senso. Con Affonso abbiamo le stesse priorità, come quella tesa a favorire le performance degli attori.
Fi: Hai parlato di un’idea di cinema condivisa. A cosa ti riferisci, esattamente? Qual è la tua idea di cinema? Che cosa la caratterizza?
JC: Credo abbia a che fare con la possibilità di portare lo spettatore in luoghi in cui non è mai stato o in cui normalmente non si addentrerebbe. Per Mediterranea era importante mostrare il mondo dal punto di vista degli immigrati, perché non si conosceva il loro punto di vista, in tutta questa situazione, e Rosarno è stato un momento cruciale, perché si è capito che cosa volevano, il loro profondo disagio. Si tratta di qualcosa che conosco bene, perché sono figlio di un’afroamericana e mia madre è sempre stata l’unica persona di colore nel nostro giro di amici…
Fi: Tornando al versante produttivo, in relazione A Ciambra: tra i produttori figura Martin Scorsese, in virtù di un fondo legato al suo nome cui hai potuto afferire. Credo tu sia stato il primo, no?
JC: In realtà ce ne sono stati altri prima di me, ma lui non ha voluto metterci sopra il suo nome. Quindi sono il primo, in questo senso. Si tratta di un fondo che ha messo insieme a dei produttori brasiliani e che poi può manifestarsi in diverse maniere di intervento. Con noi ad esempio si è trattato di un intervento in fase di preproduzione. Non posso dire di aver sentito la sua presenza in maniera costante, perché mentre ero a Gioia non lo sentivo e non lo vedevo. Quando poi è arrivato il momento di mostrargli il film, lì è cominciato davvero il nostro dialogo. Si trattava di un premontato sul quale abbiamo lavorato per approdare alla versione finale.
Fi: In quanto tempo avete girato A Ciambra?
JC: 14 settimane. 91 giorni. Direi che abbiamo girato 580 rulli di super 16mm… Girando tante sequenze che poi non sono finite nel film, perché era importante che loro non perdessero il ritmo, che non si interrompesse il filo della lavorazione.
Fi: Perché hai scelto di utilizzare la pellicola e non il digitale?
JC: Credo che la pellicola dia una certa “autorità”, uno spessore all’immagine quando giri con non professionisti. Raramente mi piace la maniera in cui vengono i filmati i non attori con il digitale. Inoltre la pellicola mi permette di creare una distanza, l’idea di star creando un racconto, qualcosa che avrà una fine, un compimento, a differenza del digitale che deve sempre dare l’idea di un reality, di qualcosa che sta succedendo lì per lì, sul momento… E a me non piace.
(Intervista raccolta durante la Filmidee Summer School 2017; realizzata con la collaborazione di Luciano Barisone e Daniele Maggioni)