Questo paese è ben differente dalla Westfalia, e dal castello del signor barone:
se il nostro amico Pangloss avesse veduto Eldorado non avrebb’egli più detto che
il castello di Thunder-ten-tronckh era quel che v’è di meglio sulla terra.
È certo che bisogna viaggiare.
Voltaire, Candido, o l’ottimismo
È lo stesso Fellipe Barbosa, in un’intervista rilasciata in occasione dell’anteprima mondiale di Gabriel and the Mountain alla Semaine de la Critique 2017, a suggerire Voltaire e il suo Candido come impronta sostanziale per comprendere il personaggio eponimo della sua seconda opera di fiction. Un viaggio a ritroso che accompagna il giovane Gabriel Buchmann – studente di economia e amico d’infanzia del regista brasiliano – nel cuore del continente africano, in un pellegrinaggio che si snoda tra Uganda e Kenya, Zambia e Tanzania, fino all’epilogo sulle falde del monte Mulanje.
L’esplorazione di un nuovo mondo, da vivere in modalità non turistica e sostenibile, è teso a diventare tutt’uno con l’altro, a lasciarsi alle spalle l’identità di uomo bianco. Gabriel finisce così per rappresentare la diversità stessa: è altro rispetto all’uomo occidentale, abituato a viaggi caratterizzati da sicurezze e guide turistiche certificate; è altro rispetto alla cultura africana. Una differenza, infine, incolmabile. Più ancora che la fatale penetrazione nel cuore di tenebra di conradiana memoria, quella portata avanti da Gabriel Buchmann è infatti la ricerca di un’esperienza autentica, che non si esaurisce nel desiderio di oltrepassare i propri limiti e quelli comunemente imposti al turista occidentale nel vivere il continente africano e le sue insidie, ma che rappresenta anche un passaggio propedeutico a quello che sarà il suo percorso accademico e professionale.
Grazie a una paziente mappatura di appunti, e-mail e fotografie sviluppate dalla macchina di Gabriel, il mero documento recupera la fluidità della narrazione, smarcandosi da quella che sarebbe potuta essere un’indagine etnografica o una semplicistica cronistoria delle memorie dell’amico perduto. Barbosa si mette sulle tracce di quanti hanno conosciuto e aiutato Gabriel e, senza consegnargli alcuno script, li lascia liberi di improvvisare e ricordare gli episodi chiave di quest’epopea occidentale in terra straniera, così come lui stesso l’aveva prima sognata e poi vissuta: uomini e figuranti che si mostrano nel loro essere testimoni di un incontro e delle loro stesse esistenze, per avvicinarci ancora di più a quello che gli occhi stessi dell’amico hanno avuto modo di vedere.
Ci sono strati di verità più profondi nel cinema.
Ed esiste una verità estatica, poetica. È misteriosa ed elusiva,
e può essere raggiunta solo attraverso invenzione, immaginazione e stilizzazione.
Werner Herzog, Dichiarazione del Minnesota
Un omaggio che si smarca dalla fedeltà al reale ad ogni costo, pur continuando a pedinarla, questa realtà, senza tradirla mai del tutto. Gabriel and the Mountain, presentato in anteprima italiana al Milano Film Festival, è, al tempo stesso, gioco di specchi e pedinamenti: Barbosa sceglie di osservare – rimette in scena, lascia che lo spettatore possa immergersi nella visione, non documenta semplicemente il ricordo altrui – l’osservatore originario, colui che scelse di mettersi in cammino per meglio conoscere ciò che stava fuori da sé, avvicinandosi così alla natura primigenia del suo road-trip.
In Casa Grande, la sua prima opera di finzione, una famiglia borghese confinata nelle gated communities di Rio de Janeiro faceva i conti con la perdita di uno status quo e si regalava la scoperta di un mondo altro rispetto a quello conosciuto fino a quel momento, in alcuni casi con l’ingenuo ardore tipico dell’adolescenza: lo stesso spirito naif lo ritroviamo nella personalità di Gabriel, uno spirito che impregna il suo viaggio oltre ogni confine. Già con il cortometraggio Canosaone e in seguito con Laura – presentato a Visions du Réel nel 2012 – Barbosa pedinava, non senza tensioni e compulsività, le ordinarie ossessioni del curatore cinematografico Fabiano Canosa e il quotidiano di un’accumulatrice seriale, collezionista di vanità e sedicente produttrice continuamente in bilico lungo tra nevrotica ricerca del successo ed un’ esistenza arrabattata.
I like to go out and live. Not sit around and wait,
because life won’t come knocking.
da Laura, di Fellipe Barbosa
Le parole di Laura non stonerebbero se pronunciate dallo stesso Gabriel, sembrano anzi rappresentare il fil rouge della ricerca stessa dell’intero percorso di Fellipe. I suoi sono ritratti dell’uomo comune colto nelle sue piccole idiosincrasie: lo straordinario diventa ordinario e viceversa, e da quello che dovrebbe essere il meraviglioso (il viaggio di Buchmann) si fanno strada sia lo spirito spirito epico quanto le leggerezze e le ingenuità del singolo. L’umano, il troppo umano. Un’osservazione rigorosa e rispettosa portata avanti, opera dopo opera, lavorando su generi e linguaggi differenti, che in questo caso diventano uno straordinario ibrido.
Una ricerca che non per forza equivale ad un chirurgico scavo negli abissi dell’animo umano: Barbosa ha l’indubbia capacità di cogliere nell’immediato, sin dalle sue manifestazioni più mondane, l’intima natura di chi incontra, e con cui talora si scontra. Donne e uomini che davanti alla camera si denudano con naturalezza, si espongono narcisisticamente o cui viene infuso nuovo spirito vitale, diventano attori di un affresco costantemente rinnovato sulle virtù e sulle debolezze dell’animo umano, senza alcuna necessità di designare eroi o antieroi. Quella che poteva essere raccontata con i toni della tragedia, acquista così nuova vita sotto forma di una commedia umana in continuo divenire.