Una delle date più significative nella storia del cinema americano è il 1956, non per particolari innovazioni tecniche o produttive, non per l’uscita di qualche capolavoro o di qualche campione d’incasso, ma per l’apparizione di un titolo di testa: A film by Otto Preminger preposto ad ogni altro dato, nomi al 100% dei divi compresi (Sinatra, Eleanor Parker, Kim Novak: il film era L’uomo dal braccio d’oro: fece sensazione). Era frutto dell’ambizione esibizionistica di un regista-produttore, ma anche una prima pubblica affermazione del «diritto dell’autore» nel sistema hollywoodiano (cioè nella struttura industriale più ricca, articolata, esemplare per tutte le altre nazioni, che il cinema abbia conosciuto). Fino a quel momento i registi che avevano diritto a un trattamento di «favore» nella pubblicità e talvolta (ma raramente) nei titoli di testa erano pochissimi, e si trattava di eccezioni «divistiche», né più né meno che i bambini prodigio o gli animali-eroi alla Rin Tin Tin, o quegli scrittori di best-sellers che venivano quasi inglobati nel titolo stesso della riduzione cinematografica (quindi in certo modo equiparati al loro prodotto, neutralizzati nella «pronuncia» industriale del loro lavoro letterario o musicale). Questi registi-divi erano eccezioni che confermavano la regola: Lubitsch soprattutto, John Ford, molto tardi anche Hitchcock. Alla stessa stregua venivano considerati i directors hollywoodiani dalla critica americana: erano solo artefici parziali di un prodotto che li superava. Billy Wilder riassunse la posizione e la considerazione di cui i registi americani godevano in una fulminante dichiarazione di poetica: «il miglior regista è quello che non si vede». E ogni libro che contenga qualche citazione di Wilder riporta una sua presunta battuta di spirito che puntualizza icasticamente la differenza fra directors statunitense e regista europeo: durante la lavorazione di Viale del tramonto, Wilder disse all’operatore: «Johnny, tienilo fuori fuoco, voglio vincere l’Oscar per il miglior film straniero». L’«arte», la qualifica di «autore», il rispetto della critica internazionale, l’opera da tramandare ai poster erano aspirazioni segrete e segretamente «europee».
In Europa l’«arte» era invece a portata di mano e di macchina da presa: gli esteti dibattevano sulla sua specificità, ma i grandi risultati della cinematografia «intellettuale» finirono per convincerli o per far passare in secondo piano il dibattito sulla «possibilità-di-assurgere-all’arte» del cinema. Gli «autori» si sprecavano, il rispetto della critica era garantito in caso di intransigenza o di eterodossia «letteraria», un mazzetto di opere venne già subito tramandato alla posterità, indicato all’ammirazione dei secoli. L’«industria», il director capace di approntare un prodotto medio perfetto, i mercati internazionali, i grandi «generi» e i grandi divi erano in Europa aspirazioni scoperte ma difficili, solo parzialmente premiate da qualche successo, aspirazioni «americane». L’industria da una parte, l’arte dall’altra: tutto chiaro, i «grandi autori» del cinema erano quelli che creavano film letterari, preziosi, «originali» oppure – secondo altre prospettive socio-ideologiche, diffuse soprattutto in Italia nel dopoguerra – quelli che «dicevano» qualcosa, «verità scottanti», «problemi sociali impellenti» quelli che avevano «coraggio», «politicamente solidi», e così via. Ma a metà degli anni ’50 qualcosa si sfalda, e il castello delle certezze critiche in breve crolla. Negli anni ’60 è tutta una rovina: restano in piedi alcuni bastioni periferici. Il «nuovo cinema» e la «nuova critica» percorrono disordinatamente e caoticamente strade facili o impervie, confondono le carte o pretendono chiarezze didascalicamente solari. In ogni caso mettono in circolazione con lodevole frenesia, e anche con lodevole «disordine», nuovi parametri critici, avanzano nuove ipotesi (magari abbandonate subito dopo formulate), pretendono informazioni e contatti continui con tutte le culture del nostro tempo.
Ma la prima «rivoluzione», negli anni ’50, era nata all’interno del campo che poi si chiamerà cinéfilo, anzi cinéphile, alla francese, perché è in Francia che si manifestano i nuovi fermenti, è in Francia che viene impostata la nuova «carta del cinema» degli anni ’60 (e oltre). In Francia, sulla base della più generale situazione culturale fecondata dalla persistenza e dal radicamento delle esperienze avanguardistiche più spericolate e «irrazionali», surrealismo in testa, che garantivano e stimolavano fascinazioni segrete e disinibizione totale di fronte all’accademica distinzione fra arti minori e maggiori, fra buon costume e trasgressioni etico-estetiche, il cinema «industriale», anche nelle varianti più apparentemente corrive e più dichiaratamente «di serie», trovò una schiera di bizzarri amatori (e questo avveniva in forme meno coscienti o profonde anche in Italia – ma gli «intellettuali» dovevano sconfessarle per iscritto, quelle tendenze, pena l’isolamento e la beffa), di fantasiosi spigolatori digressivi, poi finalmente critici e teorici appassionati. Un’ipotesi nacque da quel travaglio passionale e intellettuale, subito osteggiata in Italia forse anche perché riconosciuta in qualche modo pericolosamente affascinante e «giusta», proponendo una diversa, più articolata, meno aprioristica visione e accettazione dell’esperienza centrale della cinematografia americana (per la critica «di gusto» Hollywood era arte minore, artigianato, per gli engagés più o meno staliniani espressione dell’imperialismo yankee, speculazione corrotta, nell’un caso e nell’altro da rifiutare). Quell’ipotesi prese il nome di politique des auteurs, ed ebbe la sua roccaforte nella leggendaria prima serie della rivista «Cahiers du Cinéma». Nella primavera del 1979 i «Cahiers» hanno proposto una settimana di proiezioni a Milano e Torino, uscendo «allo scoperto» finalmente, in Italia, e quell’occasione eccezionale, purtroppo mal pubblicizzata e quindi mal seguita, ha fornito nuove indicazioni, un confronto diretto con le attuali posizioni della rivista, con la sua storia e con la storia dei suoi rapporti con la cultura cinematografica italiana.
Totem o tabù, o totem e tabù di almeno tre generazioni di critici e cinéfili italici, i «Cahiers du Cinéma» hanno costituito fino a qualche tempo fa un autentico feticcio nascosto. L’insofferenza imbarazzata dei nemici impegnati si intrecciava con l’ammirazione apocalittica dell’amatore refoulé del cinema «industriale» (e con l’interesse professionale del recensore parzialmente coraggioso – quindi anche parzialmente pavido -, in vena di aggiornamenti a buon mercato): ne nasceva una sorta di tacita catena di cautele, intolleranze, indicibili gaudi, sberleffi mistificanti, curiosità brevi, calcoli personali. Fin molto addentro gli anni ’60 il culto fu privato e l’esorcismo pubblico, ma cifrato. Ricordate il periodico refrain critico «certi entusiasmi indiscriminati della critica d’oltralpe»? Era un modo per dire «Cahiers», magari a proposito di Buñuel, «sopravvalutato» per principio, perché nessuno allora l’aveva visto in Italia. Era la vittoria del cinema dei quaderni sui quaderni del cinema.
L’unico straordinario momento di contatto e di confronto fu la celebre Difesa di Rossellini di André Bazin del 1955, pubblicata sulla rivista-guida di quegli anni, «Cinema Nuovo», con promettente nota redazionale: «è proficua una serena discussione tra i vari esponenti della critica e dell’orientamento del gusto in Italia e all’estero. Come dimostra questa lettera-saggio, per tanti motivi interessanti, di Bazin, le cui convinzioni sono così contrastanti alle nostre, e non soltanto alle nostre». Purtroppo non ci fu seguito all’iniziativa, sia perché Bazin morì e i suoi amici-seguaci (cioè il Gruppo Cahiers per antonomasia) andavano troppo oltre nelle trasgressioni, nelle «follie (per di più teorizzandole, quindi sfuggendo alla catalogazione della «critica di gusto»), sia perché ormai era svanito anche l’estremo legame – almeno terminologico – fra Bazin e «Cinema Nuovo»: l’attaccamento sentimentale e ideologico al termine neorealismo.
Poi, la politique des auteurs, con tutte le illuminazioni definitive o provvisorie, memorabili o bizzarre, le idiosincrasie più personali, talvolta destinate a diventare i pilastri della saggezza critica a venire, talvolta ad affondare nella palude dei calembours privatissimi. E il cinema investito da una valanga di passione, che l’inghiottiva, lo trasformava in una ragione di vita, lo denudava, lo giustificava e isolava di fronte alle altre «scritture» nobili. A poco a poco, tutte le altre pratiche critiche entrate in crisi, o ripiegate in giardini d’inverno isolati, o contagiate, o frantumate.
Ci si mettono anche i film «nouvelle vague»: tutti i figli di Bazin hanno una «camera». Poi, in pieni anni ’60 anche i nipotini e alcuni figliocci stranieri approdano sull’onda della marea cinéfila montante al potere con la macchina da presa. Nasce il cinema moderno. Inutile fare i preziosi, moltiplicare le referenze: provate a nominare un’incubatrice più importante della politique des auteurs, cioè dei «Cahiers du Cinéma».
Oggi, a riguardare un po’ da presso quelle opere (nouvelle vague, nuovo cinema – anche italiano – anni ’60) e alcune pagine critiche coeve, magari c’è da provare una specie di disagio, perché sembra fin troppo chiaro che se il nuovo cinema deve essere cinema dell’autocoscienza espressiva («doppiato» da una critica coscientemente cinéfila), è pur vero che questa autocoscienza è il più delle volte ingenua e irritantemente declamatoria, alibi per pasticcetti pseudopoetici o pseudostrutturali, per frantumazioni linguistiche e scatti politici gratuiti o non decantati, l’autocoscienza insomma non pare essere stata assimilata, quindi la conoscenza del mezzo non è stata «dimenticata» (come si deve fare per esprimersi «direttamente», «narrativamente»). Dopo il turbine imbarazzante degli anni ’60 e dei primi anni ’70 (con le varie infatuazioni o fecondazioni strutturalistiche e sessantottesche), oggi la critica cinematografica, militante e no, si trova in una foresta di riferimenti tutti un po’ rinsecchiti e «passati», cui ci si aggrappa ancora tenacemente, e in mezzo ai quali si va spesso guidati da gusti personali, idiosincrasie, rigori estremi, all’occorrenza magnifici, a volte futili, a volte forse profetici. Si recuperano così i processi produttivi in sé (le «grandi case») o il discorso sui generi, e il concetto di auteur va trasformandosi, dimensionandosi. Però, quell’antica politique è ancora basilare, magari nella sua sgangheratezza, utile specialmente in Italia, dove la si è attraversata e praticata poco, tardi e talvolta indiscriminatamente.
Certo è che i film (e la linea) proposti oggi dai «Cahiers» mettono tutti in discussione l’approccio cinéfilo, e tentano una rifondazione ardua e incerta, ma eccezionalmente indicativa, proprio per la stagione rifluente e d’attesa attuale, del concetto di cinema d’autore. Da una parte ci sono i film che utilizzano la «finzione» (la fiction, come dicono ormai tutti): così Pascal Kané propone un allontanamento del reale in una dimensione favolistica (il ’68 è narrato come un flash-back anni ’40 in un falsissimo harem orientale: Dora et la lanterne magique), e il recupero del fantastico – recupero che ha una lunga storia negli scorsi decenni, ma qui vissuto coscientemente come plusvalore del cinema, come «immagine vacua». D’altronde, un autore singolare, come l’esule cileno Raúl Ruiz, giunge a un meraviglioso risultato estremo in L’Hypothèse du tableau volé, dove si mette in moto un meccanismo quasi «giallo» che si rovescia su se stesso, senza soluzione o con mille soluzioni, dove si presentano storie senza movimento, bloccate in tableaux vivants spettrali, dove la voce off è scorporata e anomala, finge di dichiarare la «storia» e non dichiara neanche se stessa. Il film vive in un totale incubo d’immobilità feroce e internamente esplosiva: è l’apocalisse gelata della fiction (e del senso, dello «specifico filmico» del movimento, del piacere cinéfilo del testo).
Dall’altra parte ci sono gli autori che rifiutano la fiction, anche congelata, vuotata, ironizzata (uniche possibilità in un cinema ipercosciente, forzatamente e volontariamente fuori industria), per esperimenti antinarrativi, pedagogici o autobiografici estremi. Anathomie d’un rapport di Luc Moullet e Antonietta Pizzorno è insieme ridicolo e disarmante: c’è sofisticatissima ingenuità nel mettersi «in cinema», in prima persona, con «coraggio» (fastidiosamente proclamato ed esibito), come recupero del personale (il film corrisponde esattamente ai clichés correnti). Meglio, naturalmente, Jean-Luc Godard, anche dove, come in Numéro deux, affronta i problemi «personali», il sesso quotidiano: nessun «coraggio» qui, ma l’implacabile lucidità di chi si rende conto dei legami e dei condizionamenti d’ogni «privato», compreso l’esercizio espressivo del cinema. Il cinema nuovo di Godard vive anche di una pedagogia insistita, di una affermatività politica apodittica, ma non (si) nasconde minimamente nessun interrogativo sul tema dell’informazione, sullo «strapotere dei media» (fascino e inquietudine), sulla morte del cinema militante e della sua illusione. Sa cioè – miracolosamente, si direbbe, se non fosse addirittura palese il processo che ha condotto all’opera proposta – meditare su se stesso mentre analizza l’«altro-da-sé» sociale.
Se il confronto con i recenti «numeri» del catalogo di Godard, il regista più intrecciato, nella sua vicenda d’eccezione, alla storia dei «Cahiers du Cinéma», che offre con una sincerità che sta a noi cogliere come straziante o sublimata la propria «vocazione sospesa», rimanda ancora una volta e con gran forza al discorso sui limiti e sulle possibilità di un superamento della «politica degli autori», nel cinema americano (industriale o semi-industriale) d’oggi, cioè nel terreno d’elezione delle scorribande critiche del primo gruppo «Cahiers» in cerca d’autore, si svela una conoscenza ormai sopraffina delle antiche analisi eterodosse su Hollywood della rivista francese e dei suoi recenti seguaci. Fra questi seguaci è compreso il cinema degli americanisti, che di là partivano, come Truffaut o Jean-Pierre Melville, perfino ridicolo in certi tentativi di mitizzare alla californiana personaggi e situazioni dei suoi film più recenti (ma anche affascinante, accattivante, esemplare). Ecco allora un film di Melville che viene da Hollywood con ricevuta di ritorno: Driver di Hill (che non può non aver tenuto presente Melville, abilmente innestandolo in una struttura espressiva dinamica quasi automatica e ingenua, con momenti di vera grandezza, quindi, e fasi di pretenziosità «astratta»). Perduta l’innocenza, si è artefatta anche la coscienza: si confronti l’infernale holiday on ice esistenziale di Quintet di Altman. Una sfilza di autori europei sono alla base dell’ultimo cinema d’autore americano?
Certamente, un risultato esemplare nella sua negatività come Quintet è significativo soprattutto se confrontato e allineato con gli altri film di Altman: ne consegue un procedimento irregolare, una giustificata incoerenza, un impavido zig-zag fra le poetiche più varie. Il regista americano (migliore?) di oggi sembra proprio essere quello che si vede, con buona pace di Billy Wilder. Ma non è detto che i risultati più indicativi non possano venire da altri nomi, come John Carpenter, di cui sono stati distribuiti recentemente due modelli sopraffini di concentrazione stilistica e storica sui «generi» hollywoodiani: Distretto 13 – Le brigate della morte e Halloween – La notte delle streghe, dove si ritrova intatto il gusto dinamico del gran cinema d’America, ma anche un’assenza sorprendente di ammicchi e giochi nostalgico-ironici alla Bogdanovich-De Palma: proposte di prodotti «moralmente» industriali (che non nascondono niente, e non «predicano» niente), i due film di Carpenter sono esempi di un cinema «oggettuale», che proprio nel massimo di cancellazione dell’intervento «estraneo» esornativo trova la via per un cinema d’autore nuovo, per una disciplina rigorosa e difficile, sempre in bilico. Il soggetto dei film può anche diventare allora, a una lettura «strutturale» cosciente, l’avventura di una macchina da presa nella provincia americana o il gioco instaurato fra Carpenter e il pubblico, basato su quello che si vede, su quello che si potrebbe vedere e su quello che si vedrà nell’inquadratura successiva o su quello che entrerà in campo nell’inquadratura presente. Ma a una lettura diretta i due film propongono suspense finissime, quindi sconsigliabili ai palati corrotti dalle truculenze correnti, intrighi prevedibili con sviluppi imprevedibili (come nei migliori prodotti di «genere»), e, in un’ultima analisi, qualche suggerimento per una cinéfilia nuova (che cioè si basi su un nuovo «cinema d’autore»).
(Testo apparso su «D’ars», 90, luglio 1979; poi in Gli occhi del sogno. Scritti sul cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 2000)