I Re Magi, Don Chisciotte, Casanova e Dracula, Luigi XIV. Sono le figure storico-letterarie su cui si è snodato finora il percorso cinematografico di Albert Serra, il filmmaker catalano che ora è approdato al teatro con una pièce inedita, Liberté, messa in scena al Volksbühne di Berlino, alla presenza di un cast internazionale composto, tra gli altri, da due attori feticcio: la “fassbinderiana” Ingrid Caven e il “viscontiano” Helmut Berger. Non propriamente alla sua prima esperienza con il palcoscenico, avendo già allestito alcuni lavori di teatro sperimentale al Lliure di Barcellona, Serra torna con Liberté all’ambientazione settecentesca degli ultimi suoi due film, Historia de la meva mort e La mort de Louis XIV. L’autore concepisce il teatro e la recitazione a modo suo, mettendo in scena uno spettacolo piatto, monocorde e statico dal punto di vista attoriale, caratterizzato da una recitazione pacata, in cui mancano le punte di climax, le vampate di energia dal palcoscenico, il ritmo. In ciò, il cineasta è coerente con il suo cinema, laddove l’azione drammaturgica è quella più grande, della Storia, delle svolte epocali che rappresenta, laddove i personaggi non sono che corpi inerti in balia di quei vortici. E Serra mette ancora una volta in scena il passaggio da Casanova a Dracula, in un crocevia storico tra Illuminismo e Romanticismo, libertinismo sadiano e capitalismo predatorio, schiavismo e colonialismo, religione e scienza, malattia (la sifilide) e medicina, altro tema affrontato negli ultimi lavori del regista.
Sono passati sessant’anni dalla morte del Re Sole (epoca in cui era ambientato La mort de Louis XIV), siamo quindi nel 1775, alla vigilia della nascita degli Stati Uniti d’America, nazione in cui era istituzionalizzata la schiavitù, e più di un decennio prima della Rivoluzione Francese. Protagonisti un gruppo di nobili francesi che, nella Prussia di Federico II, cercano di diffondere ideali di libertinismo. Serra realizza un’imponente scenografia fissa, un paesaggio rurale di chiara derivazione pittorica romantica, che occupa l’intero palcoscenico: dal retropalco dirada fino al proscenio, quasi arrivando a contatto con la prima fila di spettatori. Nessuna apertura o chiusura di sipario: sarebbe impossibile. Un pittoricismo tridimensionale che raffigura un paesaggio naturale con un fondale in continuità, raccordato anche grazie a un effetto di foschia, con i dossi erbosi, i cespugli, gli alberi, il laghetto “in primo piano”, quasi a produrre un equivalente della profondità di campo fotografica, mentre nella parte corrispondente al proscenio predomina la sabbia, l’elemento materico. Una spiaggia che vuole richiamare un dramma più recente: il lido di Ostia in cui fu trovato cadavere Pasolini, ancora un luogo di libertinismo, di ritrovi e scambi sessuali, con elementi rigogliosi, ma venato di morte. L’impianto scenico sembra quasi uno sviluppo di quel teatrino del Gabbiano di Čechov in cui “la vista si apre direttamente sul lago e sull’orizzonte”. Una scenografia naturale estiva che pulsa del canto degli uccelli e del frinire delle cicale. Un’unità di luogo – in un dispositivo teatrale che rende impossibili i cambi scena – dove a variare è l’intensità luminosa, dalle atmosfere crepuscolari. “Fa scuro” dice uno dei personaggi all’inizio, in una delle demarcazioni temporali che Serra usa spesso anche nei suoi film. Persiste anche qui il dualismo giorno-notte, il diradare dell’uno verso l’altra, la transizione tra la luce e i lumi del Settecento e l’oscurità dell’Ottocento.
L’alternanza tra luce e buio nell’opera di Serra si incrocia con quella tra esterni e interni che, in questo contesto teatrale, è resa magistralmente grazie all’uso, molto frequente, di palanchini e carrozze, gabbiotti, anche usati come alcove, scatole, stanze, set interni, set secondari e sospesi, illuminati dal di dentro, continuamente spostati e riposizionati in una scena resa fluida. Il regista elabora una scena da natura morta, un teatro ovattato, un acquario in cui mettere in scena le antinomie di un’epoca che corrisponde a una transizione epocale. Casanova, il libertinismo erotico teorizzato nella prima parte dello spettacolo, lascia spazio a Dracula, laddove Dracula è rappresentato dallo schiavismo sessuale, dai progetti di rapimenti o di deportazioni di donne dalla Polinesia, il tutto teorizzato con ferrea logica imprenditoriale. Trionfa nella Storia il Leviatano capitalista: Serra sviluppa così un discorso già accennato nel suo cinema. In Historia de la meva mort si allude all’usura facendo riferimento a ragazze rinchiuse, segregate. Nel teatro di Serra rimbombano i nomi di Spinoza e di Voltaire, ma anche quello di Olympe de Gouges, la drammaturga francese in prima linea contro la schiavitù e per la parità dei diritti uomo-donna, e poi quello di John Law, il pensatore economico settecentesco teorico del denaro cartaceo. Il capitalismo che si palesa nella sua forma più rapace, di sfruttamento e colonialismo, e che si identifica nella massima: “vendere ciò che è proibito”. A conferma che il percorso autoriale di Albert Serra rimane sempre lucido e coerente anche in questa sua parentesi teatrale.