Nel suo primo lungometraggio, Ava, presentato alla Semaine de la Critique di Cannes e uscito in Francia nel giugno 2017, Léa Mysius esplora la nascita del desiderio. La protagonista, una ragazza di 13 anni in vacanza d’estate nel sud della Francia, viene svegliata sulla spiaggia da un cane nero. Seguendolo, fa la conoscenza del suo proprietario, Juan, un giovane gitano. Mentre scopre la forza del desiderio, Ava comincia a perdere la vista…
Filmidee: Com’è nata l’idea di del film?
Léa Mysius: Ho scritto Ava come progetto di diploma a La Fémis, dove studiavo sceneggiatura. Avevamo un anno per scrivere un lungometraggio da presentare alla giuria. Ero molto in ritardo, mi restava soltanto un mese, perché avevo fatto altro [il corto Les Oiseaux-tonnerre, 2014, Ndr). Lo spunto iniziale era quello di un cane nero che attraversava una spiaggia affollata, multicolore, per arrivare fino alla protagonista. Il cane se ne andava, la ragazza lo seguiva, e così iniziava la storia. Ma a parte questo non sapevo niente di cosa sarebbe successo dopo. Lavoro intuitivamente, costruisco la storia man mano che scrivo. Quando ho iniziato la scrittura di Ava, soffrivo spesso di emicrania oftalmica e ho dovuto scrivere al buio. Così mi sono interessata alla retinite pigmentosa, una malattia genetica che produce una riduzione progressiva del campo di visione fino alla cecità: può venire in qualunque momento, e colpire anche persone molto giovani. Quanto alla storia in generale, volevo parlare della sessualità e della sensualità, temi già presenti nei miei corti precedenti, così come quello dell’animalità. Mi sembrava molto interessante l’idea che Ava perdesse un senso mentre ne scopriva altri. La sua età è stata determinata in gran parte proprio da questo elemento, perché volevo che fosse un po’ più giovane dell’età in cui normalmente si scopre la sessualità, e che la perdita della visione la costringesse ad accelerare le tappe.
Fi: Quando hai realizzato L’Île jaune (2015), avevi già il desiderio di passare al lungomentraggio? Tra i due film c’è una certa continuità…
LM: In realtà, la sceneggiatura di L’Île jaune è stata scritta dopo di quella di Ava. Cercavamo soldi per Ava, il processo era molto lento e volevo scrivere qualcos’altro con Paul [Guilhaume: operatore di Ava e di L’Île jaune, co-regista di quest’ultimo e compagno di Lea Mysius, Ndr]. Ma è più Ava ad avere inspirato L’Île jaune che il contrario.
Fi: Con Ava inizi ad approfondire una dimensione politica…
LM: Sì, è una dimensione nuova rispetto ai miei corti precedenti. L’Île jaune è molto posato, abbastanza classico; Les Oiseaux-tonnerre è più sperimentale, vira verso l’incubo. Con Ava volevo affrontare la situazione politica in un maniera onirica, metaforica.
Fi: Trovo interessante che parli della nascita del desiderio, che è una traiettoria individuale, chiedendoti allo stesso tempo come sia possibile vivere il desiderio in questo mondo.
LM: Sì. Questo perché il desiderio di Ava conduce allo straniero. Si desidera sempre l’Altro, e nel film l’Altro è lo straniero. Oggi, in Francia, con la crescita del Front National, lo straniero è rigettato e mi sembrava interessante ancorare il desiderio di Ava alla società attuale, volevo un film contemporaneo, anche se il razzismo esiste da sempre. Quando ho iniziato a scrivere il film, si era in un periodo di elezioni generali e nel Médoc, dove sono cresciuta e dove volevo ambientare il film, il Front National ha superato 50%. Il personaggio di Juan è inspirato a un ragazzo che conoscevo ai tempi della scuola media e che era martirizzato da tutti. Parte del film è nati coniugando questo ricordo alla situazione attuale.
Fi: Hai parlato della sensualità e del desiderio, che in qualche modo sono il cuore del cinema. Come hai pensato di filmare tutto ciò?
LM: Tecnicamente, la prima scelta è stata quella di girare in pellicola, proprio per via della sensualità, perché nell’immagine della pellicola c’è una matericità che non potevo ritrovare in digitale, in particolare per la pelle. C’è un aspetto carnale nella pellicola, quasi un rilievo, che fa venire la voglia di toccare. Al livello di scrittura è stato tutto più istintivo, come ti dicevo. Poi, anche gli attori mi hanno aiutato ad approfondire questa dimensione. Se desidero gli attori e se desidero filmarli, si vede. Trovavo Noée incredibile e Juan molto sensuale nella sua maniera di muoversi, la sua pelle… Quindi, credo che questo desiderio nei confronti degli attori emerga con forza.
Fi: E il fatto di girare d’estate…
LM: Sì, d’estate la pelle è scoperta, e avevo appunto questo desiderio di vedere gli attori nudi.
Fi: Fa pensare ad altri film in cui l’estate sembra bruciare l’immagine, A nos amours di Maurice Pialat, per esempio…
LM: Sì, sono due film molto diversi, ma A nos amours è stato sicuramente uno dei miei punti di riferimento. D’estate fa caldo, c’è voglia di spogliarsi, e anche i suoni che sono molto sensuali.
Fi: Allo stesso tempo, è un film anche molto scuro…
LM: Sì, per me il desiderio non è soltanto solare ma anche qualcosa di molto primitivo, e dunque molto disturbante: c’è sempre qualcosa sotto che ci sfugge.
Fi: Il cane nero da cui sei partita per scrivere conteneva già questa doppia dimensione del desiderio…
LM: Sì, si chiama Lupo [in italiano nel film, Ndr]… È molto selvaggio ma Ava riesce ad addomesticarlo. È completamente nero in un mondo molto colorato. È anche un cane guida per i ciechi. È molte cose insieme, lega il desiderio e la perdita della visione. Il cane è il filo conduttore del film.
Fi: Nel film mescoli generi e toni molto diversi…
LM: Mi piaceva l’idea di cambiare tono, seguendo il punto di vista di Ava, una ragazza che vuole vedere delle cose, un po’ eccentrica, che confonde la realtà con i sogni, e che vuole re-incantare il mondo quando si accorge della sua malattia. Volevo partire da un film naturalistico per poter scivolare in qualcos’altro. Quando Ava si libera e scappa di casa, anche il film si libera degli schemi classici della narrazione e va verso il film di avventura, di genere. Tutto questo per fare in modo che ci sia anche un piacere dello spettatore, quello prodotto dalla finzione e dal romanzesco. Ava desidera una vita romanzesca.
Fi: E l’umorismo? Il film può anche essere molto comico in certi momenti, o dialoghi.
LM: Volevo che il film fosse divertente nonostante l’umorismo nero che lo caratterizza. Volevo evitare che fosse troppo pesante.
Fi: Hai parlato del tuo desiderio per gli attori. Come hai lavorato con loro ?
LM: Non c’era quasi nessun attore professionista, tranne la madre e alcuni ruoli secondari. Ho lavorato molto su i corpi, sopratutto con Noée e con Juan. Noée non sapeva recitare, quando l’ho incontrata. Pero aveva questa faccia incredibile, e quando è arrivata abbiamo capito subito che il ruolo sarebbe andato a lei. Aveva 17 anni e non 13 come il personaggio, quindi abbiamo lavorato molto sulla sua andatura, facendole rientrare le spalle come fosse un ragazzino. Una volta trovato il suo corpo le abbiamo dato delle parole, e a quel punto è stato facile farla parlare come Ava. Per Juan, parlare era molto naturale; con lui bisognava lavorare sulla sensualità perché era molto pudico, il suo rapporto col corpo non era facile.
Fi: Il fatto che Noée fosse più adulta rispetto al ruolo che doveva interpretare ti permetteva anche una certa ambiguità di fondo…
LM: All’inizio del film possiamo veramente credere che abbia 13 anni, ed è interessante vedere come la gente reagisce a questo. In molti paesi, una ragazza di 13 anni è già considerata una donna. Si tratta di decidere dove situiamo la frontiera tra l’infanzia e l’età adulta. Nella cultura occidentale, e particolarmente in Francia, è così. Se avessimo detto che aveva 14 anni, non avremmo avuto problemi. In ogni caso, non volevo fare un film dove una ragazza giovane che fa l’amore con un uomo adulto. Volevo che avesse 13 anni perché non è ancora pronta, anche se il suo corpo è pronto e lei non la sa. Il desiderio è una cosa che si costruisce. Era questa frontiera che mi interessava perché a 13 anni una è ancora una bambina ma con un corpo di donna. Ed è possibile utilizzare questo corpo, se una ne ha la voglia.
Fi: In base a quanto hai appena detto, come potrebbe essere un cinema “al femminile”, in grado di fare un discorso sull’essere donna? È qualcosa che ti interessa?
LM: Sì, per esempio credo che la sequenza nella quale Ava si bagna nuda con gli occhi bendati avrebbe potuto essere disturbante se fosse stato un uomo a realizzarla e se fosse stato il suo lo sguardo su una giovanissima ragazza. Invece, il fatto che sono una donna mi da molta libertà nel filmare i corpi nudi e il desiderio. Sono legittimata a farlo. Il mio sguardo su di lei non può essere perverso perché sono una donna. Questo mi va bene, ed effettivamente il mio sguardo non è perverso. In questo film, inoltre, ho invertito il rapporto abituale, perché l’oggetto di desiderio è un uomo. In generale non mi dà fastidio se le donne sono mostrate come oggetti di desiderio in un film sul desiderio. Così come non si può rimproverare a un film di mettere in scena un fantasma di donna, Juan è un fantasma di uomo, un oggetto.
Fi: Mentre facevi il film, avevi già coscienza che questo sguardo sull’uomo come oggetto, come fantasma, implicava una forma di sovversione?
LM: Non proprio. Poi, guardando il film, ho pensato che avevo invertito ciò che normalmente gli uomini fanno con le donne, da sempre.
Fi: Al di là della scelta di girare in pellicola, cosa hai cercato nelle immagini?
LM: Abbiamo lavorato molto con Paul che ha anche co-scritto il film; è il mio compagno, quindi ne parlavamo in continuazione. Scrivo per immagini, ed è come se il film fosse nato già in immagini. L’idea era di filmare il più possibile con la luce naturale. Avevo una sceneggiatura molto precisa che seguivamo. Abbiamo molto sotto-esposto la pellicola, in maniera che i neri siano molto profondi e i colori anche, che ci sia anche molta grana e molta materia. In post-produzione, poi, abbiamo accentuato i contrasti. Ciò che mi sembra interessante con la pellicola è che reagisce alla luce come vi reagiscono gli occhi di Ava. C’era una forte carica poetica, in tutto ciò. Per esempio, alla fine del film, quando Ava guarda Juan in macchina, avevamo talmente sotto-esposto la pellicola che non sapevamo se si sarebbe visto qualcosa…. L’idea mi piaceva molto.
Fi: Questa storia di occhi parla anche del cinema…
LM: Sì, certo. Se questo tipo di malattie mi emoziona è senza dubbio perché il mio desiderio nasce sempre dallo sguardo, ed è certamente una delle ragioni per cui faccio cinema. Nel film c’è un legame molto forte tra il desiderio e il fatto di essere vista, guardata. Per esempio, quando Ava scrive nel suo diario “ho paura di essere invisibile e che nessuno mi veda”, vuole dire dire che non può desiderare ed essere desiderata perché ha l’impressione di non essere vista. Quando fa il bagno nuda e Juan la vede, si accorge che può essere vista e diventare oggetto di desiderio. Da quel momento, può desiderare anche lei. Ci sono anche altri legami col cinema, come quando fa un gesto per vedere, mettendo le sue mani su entrambi i lati degli occhi. È lo stesso gesto che fa il regista sul set per trovare l’inquadratura. Me ne sono accorta a posteriori.
Fi: Ava è un film che può condurre in direzioni diverse. Sai già dove ti porterà?
LM: Penso che farò qualcosa di diverso, anche se ci sarà ovviamente una continuità. Ma non posso saperlo finché non avrò iniziato a scrivere, perché invento mano a mano. Dopo il film, non ho scritto altro per me perché ho lavorato con Desplechin e con Téchiné. Mi sono nutrita di tante cose. Chissà cosa produrranno queste varie fonti di ispirazione…
Fi: Quando hai iniziato a lavorare come sceneggiatrice con altri registi?
LM: Appena dopo L’Île jaune. La sceneggiatura di Ava era pronta e cercavamo soldi. Ho scritto con Desplechin nell’arco di 5 mesi [Les Fantômes d’Ismaël, 2017, Ndr] e poi abbiamo girato i nostri film in contemporanea.
Fi: Come mai hai avuto l’occasione di lavorare con Desplechin?
LM: È il mio regista preferito, da sempre. Posso anche dire di aver cominciato a fare cinema grazie ai suoi film. Il suo produttore è direttore di dipartimento a La Fémis e la sua sceneggiatrice era andata via, quindi cercavano qualcuno, una giovane che fosse libera dai codici abituali. Eccomi qua!
Fi: Ti piacerebbe continuare così, scrivere per altri registi mentre realizzi i tuoi film?
LM: Sì, sono due cose molto diverse. Scrivere per gli altri è un’attività che nutre molto, che permette di non interessarsi soltanto a se stessi e di rimanere umili. Perché quando sei al servizio di qualcun altro non è più il tuo progetto a essere al centro di tutto. Con Desplechin ho imparato tante cose, anche sulla vita. Quando uno scrive con qualcun altro e va tutto bene, si condivide una visione della vita e del mondo. È molto interessante capire come gli altri vedono le cose, e come si può riuscire a scrivere dal loro punto di vista, anche se non è possibile fino in fondo. Si deve entrare nella testa di un altro regista conservando la propria personalità, in modo che ci sia un dialogo, una dialettica che eviti il monologo. Si tratta di uno sforzo che arricchisce molto.
Fi: Come avete lavorato insieme, tu e Desplechin?
LM: Dipende dei progetti, ma generalmente ciascuno scrive in sede separata; poi riuniamo tutto, correggiamo e scriviamo delle scene insieme.
Fi: Che importanza dai alla sceneggiatura, rispetto ai diversi livelli di scrittura di un film?
LM: Per me è al cuore del lavoro di un film, perché vengo della letteratura e perché nella sceneggiatura metto tutto. Certo, ci deve essere sempre anche invenzione nelle riprese e al montaggio, ma Ava è già contenuto nella sua sceneggiatura, anche a livello di emozioni e sentimenti. Quando ci sentivamo perduti, in fase di montaggio, tornavamo alla sceneggiatura, chiedendoci quale fosse il sentimento presente all’inizio. Forse questo mio rapporto con la sceneggiatura in futuro cambierà, perché vorrei dare più spazio agli attori. In Ava non c’è stata molta invenzione rispetto a quanto avevo scritto; ma c’è stata un’incarnazione, e questo cambia sempre tutto.
Fi: Senti una qualche parentela con film di altri registi contemporanei?
LM: Sul tema, anche se i due film non hanno niente in comune, c’è stato Grave di Julia Ducournau, che esplora il desiderio femminino predatore. Mi sento di appartenere a una generazione, ma senza affinità di stile. Tutti questi giovani autori come Clément Cogitore, Virgil Vernier… mi piace l’idea di fare parte della loro generazione.
Fi: Nel giro di pochi mesi in Francia sono usciti Grave di Julia Ducournau, Jeune Femme di Léonor Serraille e Ava…
LM: Tre sceneggiatrici de La Fémis! Sono film molto diversi. La gente ha cercato di paragonare Ava a Jeune Femme ma a parte che Léonor e io abbiamo la stessa età e che abbiamo fatto un primo film con donne protagoniste c’è poco altro…
Fi: Quindi, se dovessi cercare una parentela da qualche parte, dove la troveresti?
LM: Ci sono film che mi sembrano molto vicini, quelli di Andrea Arnold, ad esempio. In American Honey, c’è qualcosa di molto selvaggio nel descrivere la femminilità. Poi, i film di Alice Rohrwacher: c’è qualcosa ne Le Meraviglie che sento molto vicino, forse nel rapporto con la natura.