Il “mostro”, figura basilare nella poetica di Guillermo Del Toro, non è un monolite granitico e imperturbabile: il suo ruolo si evolve nei secoli, di pari passo con la percezione della sua eccezionalità. Un tempo ambasciatore di messaggi divini o di meraviglie disturbanti, esso ha ormai sedotto quella cultura pop che fa capo a Tim Burton e allo stesso Del Toro (peraltro debitrice del leggendario Tod Browning), dove il mostruoso e il deforme coincidono spesso con l’outsider, il paria sociale che vive ai margini della solidarietà umana. Eppure, fra il mostro e la natura esiste un rapporto ben più antico, che si riflette – in modo forse inconscio, ma palese – anche nell’epopea romantica de La forma dell’acqua: a partire dall’Ottocento, infatti, naturalisti come Étienne Geoffroy Saint-Hilaire e scrittori come Victor Hugo emancipano il mostro dalle sue radici sovrannaturali per calarlo in una dimensione più terrena, legata allo studio scientifico della natura e delle sue anomalie. I freak, insomma, non negano affatto la realtà, ma sono l’ennesimo prodotto del suo carattere multiforme. Ciò significa che il mostro, per quanto spiazzante o disarmonico, è sempre figlio della natura, e che l’armonia di quest’ultima è governata dalle stesse leggi che regolano il suo disordine, ovvero il deforme, il disomogeneo, il mostruoso. Anzi, proprio in virtù del suo parossismo congenito, in esso è più facile rintracciare le regole generali del creato, che si manifestano con maggior chiarezza: il mostro, in tal senso, sfida i limiti della nostra razionalità e ci costringe ad affrontare il grande mistero della creazione [1].
Davanti a una tale meraviglia, la mente umana reagisce istintivamente con il rifiuto e la paura, ma in seguito attua le sue contromosse per assimilare l’anomalia nel proprio metabolismo culturale. Non a caso, La forma dell’acqua lavora su questa dicotomia di posizioni contrapposte: l’osservatore può scegliere di assorbire il mostro nella sua agenda politica, o accoglierne l’eccezionalità per migliorare la conoscenza dell’altro da sé. Il clima storico in cui si svolge la vicenda, però, non agevola il dialogo tra queste due fazioni. Siamo nel 1962, e una base militare di Baltimora ospita una misteriosa creatura acquatica che l’esercito ha catturato in Sudamerica: è un anfibio antropomorfo, chiaramente ispirato al Mostro della laguna nera di Jack Arnold. Il sadico Colonnello Strickland (Michael Shannon) lo considera un insulto agli occhi di Dio, e non si fa problemi a torturarlo mentre gli scienziati ne studiano gli organi respiratori, sperando di ricavarne qualche soluzione innovativa per le future missioni spaziali. Nella base, all’ombra di tutto questo, lavora anche Elisa (Sally Hawkins), un’inserviente muta che ama i musical e trascorre il suo tempo libero con il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), minuzioso illustratore di locandine pubblicitarie. Ebbene, Elisa non è spaventata dal mostro, ma riesce a simpatizzare con la sua solitudine, poiché vede in lui un tenero compagno di sventure. Così, accomunati dal silenzio, la donna e l’uomo-pesce individuano nei rispettivi corpi un canale privilegiato di comunicazione, più autentico e spontaneo rispetto alle parole: ne scaturisce un affetto che supera le differenze fisiologiche, rivelando una matrice comune fra i due amanti.
È proprio in questo reciproco specchiarsi – già suggerito dall’immagine più iconica del film – che Del Toro individua la chiave per sciogliere il mostro dalle sue catene tradizionali: non più polo negativo della bellezza, esso diviene la manifestazione concreta dell’infinita potenza della natura, la cui energia risiede proprio nella varietà e nelle capacità di adattamento, indispensabili per la sopravvivenza. Un mostro vigoroso e attraente, con una postura da torero, che incarna il potere vitale dei corpi e delle loro forme malleabili: non a caso, Elisa “rinasce” nell’incontro con la creatura, che le permette di sfogare le sue pulsioni sessuali e – di conseguenza – il suo desiderio di esistere in un mondo che la ignora. L’uomo-pesce assurge così a simbolo delle capacità rigeneratrici della natura, superando l’idea vetusta del “mostro” come minaccia alla vita; al contrario, è una forza rinvigorente che occupa un gradino più alto nella scala evolutiva, e per questa ragione viene studiato a fini scientifici. Esso rappresenta una commistione ideale di virilità e sensibilità (è forte e possente, ma anche in grado di “sentire”), e quindi suscita l’invidia di chi, come Strickland, coltiva l’illusione della superiorità maschile. Di fatto, il mostro è l’emblema di una natura non ancora addomesticata dalla cultura: il conflitto con le istituzioni militari, data la sua alterità rispetto al mondo civilizzato, è inevitabile.
Si rinnova così il vecchio dualismo della fantascienza progressista, militari cattivi da una parte e scienziati buoni dall’altra, ma Del Toro compie un ulteriore passo verso la sensibilità contemporanea quando trasferisce la liaison sul piano concreto. L’apertura nei confronti del “diverso” è certamente cambiata nel corso dei decenni, e il mostro non è più percepito come una minaccia all’ordine sociale; viceversa, è un enigma solitario con cui si è disposti a empatizzare. Tra La forma dell’acqua e Il mostro della laguna nera si potrebbe quindi instaurare lo stesso parallelismo che esiste fra il King Kong di Peter Jackson e quello di Cooper e Shoedsack: l’amore del mostro per la fanciulla – contrariamente a quanto accadeva nei due classici – stavolta è ricambiato, e questo è indispensabile per incanalare la rinnovata predisposizione del pubblico rispetto al tema dell’outsider, cui si accompagna l’utopia modaiola del ritorno alla natura. Così, se gli eroi di Jack Arnold dovevano precipitarsi a salvare Julie Adams dalle grinfie di Gill-Man, Sally Hawkins è invece ben lieta di abbandonarsi tra le braccia del suo uomo-pesce, simbolo di purezza e liberazione sessuale in un mondo che sta dimenticando le proprie radici. Del Toro, a questo proposito, sceglie il 1962 non solo per la Guerra Fredda, ma anche perché gli consente di esplorare un momento di transizione fra due epoche storiche, quando la modernità si lascia alle spalle la classicità: le foto sostituiscono i disegni sui manifesti pubblicitari, mentre la Hollywood classica è relegata sul piccolo schermo o in cinema vuoti e periferici. Nasce da qui anche l’interessante fusione romantica tra fiaba e musical, ricca di riferimenti a Una notte a Rio, Shirley Temple e altri cult, uniche forme di evasione per due emarginati sociali come Elisa e Giles. L’equilibrio tra sogno e orrore, tipico del cineasta messicano, ritorna proprio in questa contaminazione di registri: il fiabesco si tinge di macabro, senza mai dimenticare la centralità assoluta del corpo. La forma dell’acqua, in tal senso, supera persino Crimson Peak e si afferma come l’opera più sensuale di Del Toro, ormai sempre più disinibito nel mettere in scena l’erotismo – anche onanistico – delle sue eroine, soprattutto in un contesto dove la fisicità della protagonista è l’unico mezzo espressivo disponibile.
I limiti del suo cinema restano evidenti (sviluppi narrativi prevedibili, caratterizzazione monodimensionale dell’antagonista, idee derivative), ma Del Toro si conferma uno dei pochi registi capaci di dialogare con l’immaginario collettivo e ricavarne nuovi stimoli, rielaborandone i miti sotto una luce personale. Traspare anche dall’ultima inquadratura, che cita una celebre scena del Mostro della laguna nera, ma ne cambia la disposizione dei corpi nello spazio: Elisa e l’uomo-pesce si riflettono l’una nell’altro, in posizione verticale, pronti a unirsi in un amplesso dove potranno riconoscersi nelle rispettive diversità e similitudini. Mai come in questo caso, insomma, il mostro «è anche un nostro doppio, in grado di rispecchiare ciò che siamo e come ci comportiamo di fronte all’altro» [2].
[1] Cfr. M. Mazzocut-Mis, Mostro. L’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Guerini e Associati, Milano 1992, pp. 13-14.
[2] E. Canadelli, S. Locati, Evolution. Darwin e il cinema, Le Mani, Genova 2009, p. 226.