Giunto al suo decimo lungometraggio, Noah Baumbach sviluppa forse in modo definitivo la sua ossessione per i componenti delle famiglie disfunzionali, che hanno caratterizzato la sua scrittura sin dai tempi del sodalizio con Wes Anderson (Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Fantastic Mr. Fox) e che non hanno quasi mai abbandonato i suoi lavori dietro la macchina da presa. Da Il calamaro e la balena in poi, i legami parentali sono il fulcro nevralgico delle sue opere, seppur in alcuni casi appaiano sullo sfondo in favore di una maggiore attenzione nei confronti del racconto di formazione: in questo senso, Frances Ha (per chi scrive l’episodio migliore della sua filmografia) è un compiuto ed esemplare connubio tra l’anima del regista più interessata ai rapporti umani (l’amicizia della protagonista con Sophie è talmente cruciale da essere mostrata come una relazione di convivenza e sorellanza) e quella più focalizzata verso il graduale processo di cambiamento dei suoi personaggi principali.
The Meyerowitz Stories è suddiviso in tre atti: nel primo, viene presentato Danny Meyerowitz, musicista fallito, divorziato, ma genitore premuroso di Eliza, adolescente che rappresenta per lui l’unico motivo d’orgoglio da poter manifestare al padre Harold (Dustin Hoffman), scultore ebreo sul viale del tramonto, più precisamente un tipico borghese intellettuale newyorkese, esageratamente “alleniano” nella sua sovrabbondanza di tic e difetti: un uomo avido, permaloso, rancoroso, autoreferenziale, critico esclusivamente nei confronti degli altri e mai di se stesso. Nel secondo, entra in scena Matthew Meyerowitz, fratellastro di Danny, un businessman di successo, tendenzialmente disinteressato all’arte, molto lontano dall’universo radical-chic vissuto dal padre e più orientato verso una praticità famigliare ed economica che contrasta con l’ambiente culturale in cui è cresciuto. Nella descrizione dei due fratelli, Baumbach mette in risalto la sua finissima e arguta abilità di “ritrattista” di debolezze umane: Danny è una figura complessa, che subisce anche in maniera fisica e somatica la competitività con il padre Harold, da cui esce sconfitto, cercando però di riabilitarsi ai suoi occhi nel rapporto generoso, affettuoso e totalmente privo di rivalità con la figlia; si posiziona agli antipodi, invece, il sentimento di Matthew, che cova una specie di senso di colpa per aver intrapreso una strada autonoma rispetto a quella del genitore, ottenendo un’affermazione sul mondo del lavoro soddisfacente e appagante, e per essersi sganciato dagli intellettualismi e dalle aspirazioni artistiche della famiglia.
Uno dei più grandi meriti di Baumbach è la direzione misurata di due giganteschi performer come Adam Sandler e Ben Stiller, che troppo spesso vediamo al cinema in prodotti non all’altezza delle loro capacità attoriali, sacrificati in prove grottescamente demenziali e sopra le righe: tutta l’umanità di The Meyerowitz Stories risiede nei loro caratteri, sfumati e mai stereotipati, che Sandler e Stiller riescono a esplorare con una notevole gamma di toni emotivi ed espressivi. Geniale e inquietante è l’inafferrabile personaggio della sorella Jean di Elizabeth Marvel, a cui Baumbach dimentica volontariamente di dedicare un capitolo, ma che presenzia nella maggior parte delle scene: ne viene fuori una donna emarginata e solitaria, frustrata e sottovalutata, che serpeggia come un fantasma nell’inconscio dei tre protagonisti maschili. Lei è forse l’intuizione più cinica e crudele di un film che nel terzo atto evolve verso un finale timidamente solare e ottimista: se è lecito individuare un alter-ego di Frances Ha anche in The Meyerowitz Stories questo è sicuramente il Danny di Sandler, che gradualmente riesce ad abbandonare la soffocante figura paterna e le pressioni sociali di cui è inevitabilmente vittima per emanciparsi nella direzione di un futuro autonomo e indipendente, seppur incerto.
Nonostante sia nel complesso una delle sceneggiature più ambiziose e riuscite di Baumbach, si può rimproverare all’autore newyorchese un eccesso di verbosità, una quantità di dialoghi a profusione che non sempre permette di dare il giusto risalto alla brillantezza delle singole battute e delle intuizioni che sarebbero degne di memoria: a volte, sembra che si assista a una centrifuga di sfoghi e nevrosi, priva di un lavoro di selezione e incasellamento funzionale alla narrazione. Purtroppo, finora soltanto nel bellissimo Frances Ha il regista ha lasciato davvero la possibilità di “respirare” i suoi personaggi, concedendo il tempo di riflettere allo spettatore: nel momento in cui riuscirà a rinunciare a un esibito e lezioso amore per la propria scrittura, si potrà considerare seriamente Noah Baumbach come un acuto e rilevante cineasta del nostro tempo.