Ogni tre mesi la Corte d’Assise d’Appello di Milano, a partire da sessanta cittadini convocati attraverso un’estrazione a sorte, procede alla selezione di sei giudici popolari destinati a comporre un nuovo collegio accanto a due magistrati di carriera: il loro apporto nel valutare alcuni dei reati più efferati e ancora irrisolti che hanno colpito il Paese, dagli omicidi alle stragi terroristiche o mafiose, sarà pari a quello dei professionisti incaricati di affiancarli e di indicare loro le regole di giudizio entro cui operare, non in termini di competenza legale, ma di intelligenza e esperienza umana. La giornata della convocazione diventa così un’esperienza fuori dall’ordinario, un vero e proprio scarto dal quotidiano durante cui il cittadino comune, indipendentemente dal suo background, è proiettato nella riflessione sul proprio rapporto con la giustizia, cercando di chiarire se davvero possa contribuire ad essa e, nel caso, in quali termini di sfuggente esattezza.
Scegliendo una rigorosa unità di luogo, spazio e azione, il secondo documentario di Enrico Maisto, che fin dal titolo, La convocazione, pone il focus sulla dimensione della chiamata pubblica al singolo individuo, non cerca però di restituire della giornata in questione una mera cronaca formale: con una regia multicamera costretta a orientarsi, scegliere e filmare entro lo spazio maestoso ma limitato del Tribunale di Milano, e il tempo ancor più ristretto di poche ore, il film dischiude la propria potenzialità esplorando, con ostinata carica umanista, il paradosso di un momento collettivo suggerito quasi esclusivamente con l’uso del primo piano. Se infatti al centro della vicenda si colloca il rapporto con qualcosa di molto ampio e poco conosciuto come la macchina della giustizia, Maisto rinuncia al primato dell’inquadratura totale, dispiegando nell’arco di un’ora una paziente galleria sociologica di volti, sguardi, parole sussurrate, aporie silenziose.
Non un film sul funzionamento di un tribunale, dunque, ma un affresco relazionale di chi vi accede senza conoscerlo, forzato dalla volontà del caso, chiamato ad affrontare responsabilità e timori, costretto a sviscerare la processualità degli egoismi e delle diffidenze che la convocazione finisce per generare: c’è chi ha dovuto rinunciare a una fruttuosa giornata di lavoro, c’è chi ha problemi di salute in famiglia a cui dover pensare, c’è chi si pone il problema della propria conoscenza rispetto a quanto eventualmente dovrà andare a studiare e giudicare (“Ordine Nuovo? Cos’erano, fascisti?”, si chiede una convocata cercando conferma su Google, ultimo appiglio di una memoria storica residuale). Così, mentre ad uno ad uno i sessanta cittadini attendono il proprio turno per accedere al colloquio che determinerà la selezione ultima, tra i presenti si consuma con pudore la commedia umana della condivisione di un’esperienza, in un continuo gioco di campi e controcampi che non risolve l’ineffabile domanda ultima: davvero è possibile che io giochi un ruolo nel perseguimento della verità? Gli sguardi delle divinità della giustizia disegnate da Sironi, che dai mosaici alle pareti dell’aula testimoniano benevoli quanto accade tra i suoi banchi, sembrerebbero invitare i cittadini a una prova di fede. Fede nella giustizia, come recita in apertura una citazione da Piero Calamandrei, o più semplicemente fiducia nella connessione che la legge e il suo funzionamento determinano tra individuo e collettività.
In fondo il giuramento che i sei giudici popolari selezionati recitano in conclusione, insieme a supplenti e sostituti addizionali, trova la propria ragione nel principio stesso del diritto, il riconoscimento cioè di un legame: la legge è fatta dagli uomini per stare al di sopra di essi o, più puntualmente, tra loro. Non per distanziarli, ma per colmare (e naturalmente, regolare) gli interstizi tra le singole individualità. Non un vero fuori campo cinematografico, dunque, ma – più curiosamente – un intercampo: ciò che, forse abitando il taglio di montaggio, esiste invisibilmente tra gli sguardi, le parole e le azioni dei cittadini, simile all’aria che respiriamo. Accogliere la convocazione significa accettare un ruolo, spesso decisivo, di imparzialità e rettitudine verso il mondo, in primis cioè di sospensione dialettica delle parziali vocazioni private. Gli stessi valori che la regia di Maisto, optando per la sintesi più che per l’analisi osservativa, stabilisce anche tra la tensione autoriale e la restituzione, in forma di cinema, di un’esperienza pubblica. Cioè di tutti, pensata per tutti.
Il film sarà presentato mercoledì 17 gennaio, alle ore 21, in occasione della quinta edizione de “Il mese del documentario” al Cinema Beltrade di Milano. Filmidee modererà la serata in compagnia del regista milanese.