Paolo Virzì mette in scena un altro viaggio, percorso da eroi che rimangono prigionieri dei limiti dettati dalla società e dalla loro stessa vita, che non permette mai di spingersi oltre ciò che è concesso alla nostra condizione di creature finite, destinate, prima o poi, a scomparire. È un percorso ingabbiato anche quello di Ella e John, così come lo era stato quello di Beatrice e Donatella in La pazza gioia, ma in questo caso il movente della prigionia non è la pazzia vera o presunta, ma l’effettiva vecchiaia. Ella e John decidono di affrontare una fuga senza riserve, di evitare privazioni di dignità e cure mediche che non solo li sottrarrebbero alla possibilità di essere ancora, anche solo fugacemente, felici, ma anche e soprattutto all’inevitabile premessa di questa residuale felicità, ossia la vitale compagnia e l’amore reciproci. Si mettono in viaggio, attraverso la grande America, attraverso la loro storia e le tappe della loro memoria.
Il film si delinea completamente (e radicalmente) attorno ai corpi dei due protagonisti, al punto che anche le loro menti appaiono rinchiuse dentro la finitezza della carne che cede il passo al fine vita. Ed è qui che la malinconia profonda di Ella & John si impossessa della rassegnazione che accompagna il sipario in chiusura su due esistenze, e che attraverso le diapositive che i due guardano ogni sera, proiettate su un telo e ammirate anche da un piccolo pubblico di avventori (siamo noi, quegli avventori?), ci mostra come la vita sia effettivamente solo una serie di immagini, di come ogni piccolo dettaglio che abbiamo visto, udito, annusato, gustato e in definitiva, vissuto, si accumuli nell’infinità del suo ricordo. Quanto è difficile anche solo pensare di doverlo abbandonare per sempre, accettando di svanire nel nulla.
Approcciandosi a tutto questo materiale umano Virzì finisce per perdersi negli occhi smarriti di Donald Sutherland e nella determinazione morale di Ellen Mirren, e dimentica la storia. Il film sbanda spesso, come il camper dell’anziana coppia (The Leisure Seeker, in fin dei conti solo un “cercatore di svago”), e dipinge uno sfondo, gli USA poco prima dell’elezione di Trump, a malapena abbozzato, che non funge né da significante né da significato, ma rimane una cornice incompiuta per gli scambi di battute tra i due protagonisti.
Se la narrazione risulta stagnante, gli spunti di lettura salvano ugualmente il primo lavoro americano del regista. Virzì ci ricorda in qualche lucido frammento il suo talento di dialoghista e di direttore degli attori, e il deflagrare di un dramma volutamente accompagnato da una discrezione profonda e da un rispetto che non cede mai il passo alla pornografia del dolore, imprime nella mente di chi guarda una riflessione costante e amara; Gilles Deleuze ha sempre dichiarato, in tarda età, di essere molto contento della vecchiaia, perché essa ci concede il permesso di non doverci più curare della società, la quale spesso accetta di lasciarci in pace in nome dell’associazione immediata tra anzianità e malattia, laddove quest’ultima per il filosofo restava qualcosa di a sé stante. Un’opera come Ella & John ci pone invece davanti a un enorme e ineludibile, anche se forse un po’ ingenuo, interrogativo, che ostinatamente si affaccia sul nostro subconscio mortale: e se la senescenza e l’infermità fossero, alla fine di tutto, la stessa, identica, cosa?
L’insegnamento che, senza troppe pretese, questa storia può forse essere in grado di regalarci, è una timida risposta a questo baratro, e risiede nell’accettazione gentile del proprio destino da parte di una coppia di sposi che si avvia verso l’oblio, sussurrando attraverso la loro perdita di memoria, i loro dolori al petto, il loro smarrirsi nel mondo, che di fronte alla sconfitta dell’età forse è necessario trovare la forza di accettare, rispettosamente, che sia giunto il momento di andarsene. Sperando che almeno qualcuno si ricordi di noi, attraverso qualche diapositiva, o magari grazie a un film.