La realizzazione di un film comporta una scelta, economica, narrativa e artistica, di un contesto su cui muoversi e di una direzione da seguire. Directions – Tutto in una notte a Sofia sceglie paradossalmente un campo strettissimo in cui realizzarsi, l’interno di alcuni taxi, ma con l’ambizione di spaziare a sufficienza per ottenere un’opera senza pause, sovrabbondante e satura. Le prime immagini sono un segno ben chiaro di tali intenzioni poetiche: la passeggera di un taxi aspetta seduta all’interno dell’auto, mentre il proprietario è impegnato in un’accesa conversazione riguardo il possibile pignoramento dei suoi beni. Un’inquadratura classica, vista e rivista – il passeggero che guarda fuori dal finestrino con sovrapposto il riflesso del paesaggio sul vetro – assume nell’ottica di questo film un nuovo significato, non solo estetico: l’interno di uno spazio “viaggiante”, allo stesso tempo chiuso e aperto, dinamico e serrato, permette di concentrare un campione casuale di umanità, di analizzarlo da vicino senza mai trattenerlo. Nel dentro c’è il fuori e viceversa, anzi i due spazi si confondono non appena il tassista di turno interagisce con chi da fuori porta sensazioni, sentimenti, ricordi, stralci di mondi apparentemente lontani.
Le vicende singole e singolari di Directions si intrecciano restando distinte, si illuminano a vicenda pur rimandando sempre altrove. L’impressione è quella che si ottiene guardando un arazzo medievale, dove non c’è niente che risalti, poiché tutto è ugualmente importante, e il tempo degli eventi più che sequenziale sembra contemporaneo, volto a definire un racconto globale. Lo sfondo comune, si potrebbe anche dire la tinta predominante, è la disperazione oscura e senza appigli del popolo bulgaro, sfiduciato e rassegnato a calpestare macerie inservibili. L’unico proposito comune è sopravvivere, perché ogni ideale e ogni speranza si sgretolano appena afferrati tra le mani. Il profilo tracciato dal regista Stephan Komandarev e dai suoi collaboratori è quello di un’umanità corrotta, disonesta, utilitaristica ed egocentrica, dove suicidio e omicidio non sono più gesti estremi, ma tasselli quotidiani quasi necessari a un sistema, sull’orlo dell’implosione o forse già imploso, che costantemente divora se stesso.
I tassisti che si alternano nelle scene sono figure ambivalenti, con un piede che affonda nella stessa disperazione che li circonda e l’altro ben piantato in una sorta di limbo dove permangono valori – o rimpianti di valori – che permettono loro di andare avanti. Sono figure galleggianti, che dal loro punto di vista possono ancora concedersi di giudicare, in nome di una morale, di una giustizia, di una saggezza o di una credenza religiosa, rispetto alle quali i passeggeri sono di volta in volta indifferenti o scettici. Il collante che tiene insieme questa mistura così eterogenea, insieme centrifuga e centripeta, è la radio, accesa in ogni taxi, che a intervalli regolari offre aggiornamenti sul caso del giorno, un tassista che prima ha ucciso un uomo che gli ha rifiutato un prestito e poi si è suicidato. La trasmissione manda in onda anche gli interventi registrati di molti radioascoltatori, che esprimono la loro opinione sul caso creando un terzo livello all’interno del quale il film si muove, un mondo fuori dal taxi ancora più distante e stravagante.
L’ultimo viaggio del film è quello più intimo e raccolto e per questo anche più intenso e sincero: il tassista è un sacerdote, il passeggero un uomo che sta andando in ospedale per un trapianto di cuore. «La direzione, ecco cosa abbiamo perso», e «L’unica mia preghiera è che mi diano il cuore di un uomo buono» diventano due battute fondamentali per chiudere e realizzare l’architettura sovrabbondante del film. Da una parte l’enunciazione di uno smarrimento latente, dall’altra la voglia di riscatto, che non può passare attraverso un’evoluzione ma soltanto una sostituzione, proprio come in un trapianto. Directions è cinema combinatorio, che moltiplica sé stesso ad ogni soluzione, non fornendone alcuna definitiva. Allo spettatore è lasciato il compito di costruirsi un itinerario e trovare un appiglio grazie cui imparare egli stesso a galleggiare, difendendosi da una claustrofobia e da un cinismo riconoscibili ben oltre i confini dello schermo e della nazione bulgara.