A cinque anni da Amour, Michael Haneke ha fatto ritorno a Cannes con Happy End. Benché il film sia stato realizzato in seguito all’interruzione del precedente progetto (che avrebbe dovuto intitolarsi Flash Mob) a causa di alcuni problemi sorti in fase di casting, non si avverte però un’aritmia rispetto ad Amour. La continuità è anzi sancita dalla presenza di Georges Laurent, il pater familias, interpretato ancora una volta da Jean-Louis Trintignant, il quale racconta alla nipote di aver soffocato la moglie dopo anni di agonia.
Il titolo potrebbe far supporre – erroneamente – la riattivazione di un dispositivo beffardo, pronto ad aggredire lo spettatore in un modo non troppo distante da quello alla base di Funny Games: ci si aspetterebbe di rintracciare una tendenza alla farsa grandguignolesca, un’ambiguità maliziosa già sancita dai titoli-sberleffi delle due opere. Potrebbe mai Haneke volere concepire un film che abbia un lieto fine? Eppure non c’è nessuna intenzione di depistare o ironizzare mettendo a dura prova le certezze morali dello spettatore; anche nei capitoli più ostici e azzardati della sua carriera, Haneke non ha mai lasciato che la pomposità da polemista prendesse il sopravvento, trasformando le sue opere in una tirata magmatica, tanto invasata quanto sterile, pronta per essere archiviata anzitempo nel florilegio delle boutades pseudopolitiche.
Il pessimismo hobbesiano – nonché una certa “mediocritas” che gli impedisce di figurare tra le opere maggiori del regista – potrebbe suggerire l’accostamento a Il tempo dei lupi (2004), laddove, invece, in Happy End la diffidenza interumana è molto più circoscritta e, soprattutto, emendabile: prospettiva paradossale – si dirà – o persino cantonata bella e buona, pressoché inevitabile quando si scandaglia l’intimità fantasmatica di una famiglia borghese, tema di per sé frusto, rabberciandolo così da rimanere al passo con i tempi della rivoluzione digitale. Al contrario, è proprio in questo senso che il film funziona meglio, impedendo che si corrobori l’equivalenza corriva tra interconnessione virtuale – social – e isolamento materiale. Haneke, in sintonia con Georges, non è un settantenne burbero che aborre la tecnologia e si dimostra, invece, ben consapevole dei meccanismi alla base del video sharing e della messaggistica istantanea.
La sequenza d’apertura, interamente composta da scampoli di video girati (e commentati) con lo smartphone dalla dodicenne Eve (Fantine Harduin), presenta il personaggio più intenso, assieme a quello di nonno Georges, nella sua fame di vita e che, pertanto, non può accontentarsi di un’esistenza abietta, alla quale sarebbe preferibile il suicidio. È allora in tal senso che la diffidenza hanekiana si arresta alle soglie del mondo degli adulti, universo impenetrabile a causa della propria superstizione monomaniaca secondo la quale l’essere umano può trovare realizzazione soltanto nell’Azione. Quest’universo diventa dunque luogo della condanna, prigione sopraindividuale che riflette, su scala macroscopica, gli arabeschi della prigione corporea entro la quale gli adulti trascorrono le proprie esistenze e all’interno delle quali si scoprono artefici della propria autoriduzione a (s)oggetti, frutti delle loro opere che, grazie all’artificio retorico della prosopopea, si rivoltano contro i loro stessi creatori: basti pensare alla magistrale sequenza della frana che investe il cantiere dei Laurent causando per di più il grave infortunio di un operaio.
Infatti, gli scavi, le perforazioni e le calamità “artificiali”, in quanto emblema della civiltà industriale, sono osservate dallo spettatore mediante le registrazioni in diretta dalla sala di videosorveglianza, dove della muzak copre i rumori assordanti del cantiere, camera anecoica che si amplifica nello sfarfallio luminoso di un monitor, ancor più abbagliante per via delle tenebre che inghiottono la stanza dove una donna giace supina mentre invia messaggi pruriginosi – cadaveri in un’incubatrice dove non può germinare erotismo – a Thomas (Mathieu Kassovitz), padre di Eve e infedele impenitente. Per Eve – e Georges – non è possibile percepire un coinvolgimento effettivo dei rampolli della famiglia, come se la loro condizione di persone “né troppo giovani né troppo anziane” li condannasse a un’esistenza limbica alla quale è preclusa persino la pulsione di morte. Non è poi un dramma se non sei mai riuscito ad amare né la mamma né la tua seconda moglie né la tua amante, confida con serenità olimpica Eve al padre, il quale prova a schermirsi anziché affrontare la discussione. Da questo momento in poi, allora, non sarebbe più onesto liquidare con freddezza avventata e sussiegosa la condotta dell’adolescente, snocciolando il consueto ritornello sui giovani abulici e alienati.
In tal senso, il cugino inquieto Pierre (Franz Rogowski), figlio di Anne (Isabelle Huppert), con il suo temperamento provocatorio non riesce comunque a cacciarsi fuori dal pantano esistenziale nel quale sguazza la famiglia Laurent. I suoi stessi tentativi di pressare all’interno di questo microcosmo la realtà sconfortante di Calais (dove il film è ambientato), fatta di migranti e “schiavi marocchini”, non avranno che pallidi riscontri e, inoltre, acuiranno il disappunto di Georges che preferirebbe ritrovare la moglie abbandonandosi ai flutti di un mare troppo spesso definito – in ossequio all’impersonalità discolpante – “assassino”. Il non visto e la svista, prodotti da una cecità caparbia, e, soprattutto, le loro ricadute dalla consistenza concretissima che sono sempre stati motivi centrali nel cinema di Haneke – strumento necessariamente duttile perché attagliato alla “cronologia del caso” – fanno ritorno prendendo le mosse dalle stesse domande che, nella contingenza, non possono però che trovare risposte sempre differenti.