Abbiamo incontrato enrico ghezzi (sempre affezionato alle minuscole) insieme a Emiliano Montanari in occasione della loro partecipazione al Milano Film Festival per la prima di return to white EYELAND (dall’oltreCinema), installazione-ciclorama realizzata da Montanari con la collaborazione tecnica di Makinarium e inserita nel percorso della mostra Enrico Appetito per Michelangelo Antonioni. Sui set 1959-1964 (BASE Milano, 29 settembre-8 ottobre). A dieci anni dalla morte di Antonioni, il programma del festival milanese diretto da Alessandro Beretta e Carla Vulpiani ha accolto l’esposizione e, all’interno di essa, una nuova configurazione, circolare, di un progetto iniziato da ghezzi e Michele Mancini nel luglio 1983 con una ‘spedizione’ cine-televisiva sui luoghi in cui Antonioni aveva girato L’avventura più di vent’anni prima.
Separando i filmati originali di quel primo viaggio – ma anche altri girati da ghezzi in successivi ritorni sull’isola di Lisca Bianca – in due bande di immagini che si muovono l’una à rebours dell’altra tendendo al centro dov’è proiettato il corto realizzato nel 1983 da Antonioni stesso su invito di ghezzi e Mancini, Montanari ha allestito quella che definisce “una spazializzazione di oltre 57 anni di percorsi, di furti, di ritorni; 112 minuti di immagini condensate nei 7 minuti e 30 del corto di Antonioni usati come unità di fratturazione, in un paradosso spazio-temporale circolare che non si chiude mai, che fallisce la sua circolarità”.
A partire da questo recupero, abbiamo ripercorso con ghezzi le origini della sua personale “avventura” nel cinema e nella televisione vissuta e agita da una delle posizioni apparentemente meno imprevedibili, com’era la Rai ben prima dell’arrivo di Angelo Guglielmi.
Dopo aver vinto un concorso da programmista televisivo nel 1978, tra i primi incontri felici con persone di gran valore che sono stati tuoi colleghi in Rai, e oggi non ci sono più (come Melani e Giorgini), ci fu l’incontro con Michele Mancini, decisivo per realizzare progetti allora – e ancor di più oggi – pressoché impensabili, come quello su Antonioni e altri set di capolavori del cinema italiano.
Michele Mancini all’epoca aveva già scritto due Castori geniali su Ophüls e Rohmer e aveva fatto con Giuseppe Perrella uno stupendo libro fotografico intitolato Pier Paolo Pasolini. Corpi e luoghi: fotogrammi alla moviola. Insieme, concepimmo una serie intitolata Archeologia del set in cui c’erano due “falsi ritorni” su set siciliani: ad Aci Trezza per La terra trema e sull’isola dove fu girato L’avventura. Poi pensammo anche all’appartamento di Ultimo tango a Parigi. La parte legata ad Antonioni partiva dunque in modo molto chiaro come una spedizione archeologica, quasi geologica, sul set de L’avventura: Michele aveva coinvolto un gruppo di ragazzi dell’Accademia di Palermo dove insegnava e li aveva portati sull’isola a cercare quello che restava del set, a ritrovarne ogni più minima traccia. Noi alla fine scegliemmo di ri-immergerci nel set ributtando fuori tutto quello che facevamo, come nella preparazione di un grande film che non importava si facesse o non si facesse: l’archeologia era presa a priori come costitutiva del cinema, allora non sapevo ancora quanto ciò fosse vero, ma col tempo ne sono stato confortato. Avevamo comunque un budget ridottissimo, che ci ha impedito di ottenere un elicottero per realizzare delle riprese aeree che ho poi girato solo anni dopo. Oggi avremmo risolto tutto con un ‘dronino’, il drone che nel cinema la fa da padrone, e che lo cambia dal di dentro molto più dei serial televisivi con le loro durate e di tante altre sciocchezze che si dicono…
Nonostante il budget risicato riusciste però ad avere l’appoggio e la partecipazione al progetto di Antonioni stesso.
Sì, avevamo invitato Antonioni a venire a girare per la prima volta delle immagini a colori in quelle isole alla fine del nostro lavoro che sarebbe durato un mese, quindici giorni lì e quindici ad Aci Trezza. Pensavamo potesse farci una breve visita, invece volle venire per più di dieci giorni: era entusiasta e quasi commosso di seguirci, con Michele che andava a ricercare fin le impronte dei calzari lasciate da qualcuno della sua troupe alla fine degli anni Cinquanta. In totale, Michelangelo girò tre o quattro giorni ma rimanemmo insieme molto di più. Fu un atto di collaborazione estrema, il lavoro non era tanto, passavamo tutti i fine serata discutendo di cinema, ed era una persona estremamente gradevole, spiritosissimo, ma quel che ne è uscito, il corto intitolato Inserto girato a Lisca Bianca [una cui versione è visibile qui], si rivelò poi un’appendice di una cupezza assoluta, i minuti più cupi del cinema italiano non di genere.
Eravate una troupe televisiva, ma si può dire che affrontaste il progetto come per realizzare, lo scrisse Alberto Farassino, un’opera di land art?
Era indubbiamente land art ma anche teatro-happening, perché avevamo lavorato come in un teatro di guerra vero e proprio. Eravamo partiti con le tute arancioni che si usano quando si interviene dopo un grave incidente o per una decontaminazione. Con i berrettini e i geiger e il televisorino della cucina di casa mia appoggiato sugli scogli, in un’epoca in cui l’uso e il riuso era lontanissimo dai livelli odierni, riempiendo l’isola di palloncini di vari colori. I bianchi segnavano il tracciato dei movimenti del set de L’avventura. Era una spedizione ludica e anche gioiosa, invece l’inserto di Michelangelo si rivelò una delle cose più tristi che si siano mai viste, nella quale cercava ed estraeva l’oscuro da dentro la luce – un intento più o meno svelato di molti suoi film; ma mi piacque molto questa violenza rispetto al nostro lavoro di quello che era un inserto, appunto.
In quei primi anni Ottanta hai iniziato anche a programmare su Raitre cicli di film dai nomi che i più giovani spettatori hanno ritrovato nelle nottate di Fuori Orario – quali Eccentriche visioni, Femmina folle, Lo specchio scuro – ed è lì che inizi ad apparire in video. In mezzo a queste serie di decine di film ciascuna, ci sono state le maratone de La magnifica ossessione. In particolare la prima, presentata da te e Irene Bignardi e concepita con Marco Melani e la consulenza di Ciro Giorgini, Marco Giusti e Giovanni Spagnoletti per i novant’anni del cinema, che riuscì a realizzare una non-stop quasi integrale di 40 ore tra il 28 e il 30 dicembre 1985. Tra un film e l’altro, c’erano anche incontri con autori, tra cui proprio Antonioni, giusto?
Nel 1983 Michelangelo era tornato con noi nelle Eolie spinto più dall’entusiasmo che dal budget. Io ho una spiccata attitudine al rinvio: rinvia tu, rinvia lui, arrivammo al 1985 quando infine il suo corto fu pronto. Per far quadrare i conti e ammortizzare le spese, gli organizzammo un’intervista dentro La magnifica ossessione per cui, sparando grosso, avanzammo una sua richiesta di circa 30-40 milioni. Facendosi intervistare da Gian Luigi Rondi ebbe un momento come di consacrazione, anche se parlò soprattutto del futuro del cinema, e del cinema del futuro, raccontando anche di alcune scoperte che aveva fatto a Tsukuba, a un grande festival delle immagini nuove dov’ero andato anch’io. L’intervista ebbe luogo pochi giorni prima dell’ictus che lo paralizzò per il resto della sua vita e andò in onda il 29 dicembre 1985 [visibile qui]. Il nostro lavoro nelle Eolie fu montato in una cinquantina di minuti e poi presentato a Rotterdam, è andato in onda poche volte. È documentato nell’opera in due volumi Michelangelo Antonioni: architetture della visione, curata nel 1986 da Mancini e Perrella. Il film di Michelangelo venne invece presentato a Cannes nel 1989.
Oltre alla selezione e programmazione di film, alle interviste con autori (per esempio sempre nel 1985 la conversazione tra Bertolucci e Wenders e molte altre più tardi), nel tuo lavoro in televisione c’è un elemento creativo che non rinuncia alla manipolazione dei film, alla sovrimpressione, al detournement… come anche nel ciclorama allestito qui a Milano.
Qui si tratta in particolare di un elemento già sviluppato in un corto su Kubrick, Hai-Kubick che presentammo alla Biennale di Venezia, e che è passato poi su Fuori Orario, e in un lavoro su 1997 Fuga da New York di Carpenter trasmesso due volte in due notti diverse mandando il film frammentato in varie sequenze che partivano dall’inizio e dalla fine e puntavano verso il centro: cominciava questa cosa, in realtà semplicissima, e a me toglieva il fiato perché pur avendola ideata non riuscivo a pensarla. Una notte mandammo anche à rebours l’immagine delle torri gemelle che crollavano e intervistammo Susan Sontag, Ermanno Olmi, Luciano Emmer, Ciprì e Maresco su quello spettacolo spaventoso che è stato l’11 settembre 2001. Quel gioco sulle immagini era un gioco palindromico, ma se il palindromo perfetto è chiuso (come “in girum imus nocte et consumimur igni”) con Carpenter e nel ciclorama il cerchio non è mai perfettamente chiuso, sarebbe troppo facile, l’idea era di costruire uno stato spaziale in cui tutto si condensa, una bolla in cui si generano e rigenerano dei momenti di tempo, in cui tutto il tempo è dentro questa forma informe blobbonica.
A proposito di (falsi) ritorni dove si è già stati, non manca molto al trentesimo anniversario della prima apparizione televisiva di Fuori Orario, trasmesso proprio da Milano, il 20 febbraio 1988, con l’appoggio del neo-direttore di rete Angelo Guglielmi. Si trattava della prima di cinque puntate del programma in versione talk-show e in diretta, che poi assunse la forma attuale trasmettendo film del catalogo Rai, i primi dei quali erano in ampia parte stati acquistati proprio per le maratone de La magnifica ossessione. In quell’anno nasce anche Schegge e poi Venti anni prima, che ripropongono materiali delle Teche Rai, nel 1989 arriva Blob. Alla domanda come nasce Fuori orario di solito rispondi: “penso che ancora non sia nato”, quindi ti chiedo: come funziona oggi?
Attualmente funziona malissimo, la maggior parte della fatica è cercare di farlo a tutti i costi. È un momento vagamente disperato, non so quanto possiamo andare avanti con solo un decimo di quell’autonomia che è la base essenziale del lavoro. Se non c’è lavoro-gioco… a me personalmente non interessa fare una cosa più colta, una cosa più scelta sul piano del progetto, non è questo che era e che è Fuori Orario. Davvero tra Fuori Orario e Blob c’è stato una specie di cortocircuito di allontanamento che è affascinante, nel senso che Blob ha gli stessi problemi mitigati dal fatto che come ascolti è sempre buono, mentre Fuori Orario indipendentemente dal nome del direttore, della direttrice, non fa parte delle preoccupazioni della rete, viene continuamente tagliato per una finta falsa notizia importante, un anniversario della regina Elisabetta: accorciandolo, erodendo cinque minuti qui e cinque lì, come se fosse Fuori Orario un Blob.
Ma in un’epoca in cui il cinema in televisione perde la sua sacralità – e nella Tv pubblica si riducono le risorse per acquisire diritti o produrre opere di autori altrimenti marginalizzati dal mercato – questo trattamento è inevitabile?
Ma no, il cinema in televisione non vuol dire nulla. Non capisco poi questa ossessione di inserirsi del cinema in tv, quando il cinema è così bello disinserito. È troppo importante il cinema, non tanto per l’importanza che normalmente gli si dà ma per quella che obiettivamente ha: per esempio, non ha senso scrivere una cosa che non sia di cinema; è solo quella la scrittura, il resto è fatuità… ma vorrei rispondere più a lungo su questo e ora non è possibile.