Tra la Rai alla luce del sole di Vieri Razzini e quella notturna di Enrico Ghezzi, i cinefili in Italia hanno vissuto una piacevole esperienza televisiva legata all’esistenza di una payTV in dialogo con il cinema: Tele+, emittente dall’arco di vita breve (tra il 1990 e il 2003), è stato uno spazio di programmazione che tentava di conciliare le esigenze del pubblico mainstream (le prime dei film hollywoodiani) al cinema d’autore europeo, arrivando a programmare prima che fossero di tendenza documentari dal linguaggio ricercato e i film dei giovani autori italiani. Tra programmazione e produzione, si è mosso Fabrizio Grosoli (oggi direttore di diversi festival in ambito documentario – AlpeAdria Film Festival, Visioni dal mondo a Milano – e consulente per società di distribuzione) che in quegli anni divenne uno dei dirigenti della società. Critico e giornalista di cinema, Grosoli ebbe l’occasione di vivere un momento di “sperimentazione” televisiva, in cui ci fu la possibilità di andare incontro a un cinema in divenire e cogliere una trasformazione dell’assetto produttivo italiano. Lo incontriamo nelle sale del mercato della Mostra d’arte cinematografica di Venezia per farci raccontare la sua esperienza.
Il tuo nome è legato a Tele+, un canale televisivo di cui si parla poco, ma che è stato essenziale per il cinema italiano contemporaneo.
Ho vissuto più o meno tutta la storia di TELE+ dal 1990 al 2003: sono arrivato appunto nel ‘90 quando ancora non era partito il canale TELE+1 (iniziato nel giugno dell’anno successivo). Ho partecipato a tutta la fase di preparazione, a quella gestita da Canal+ e me ne sono andato quando è arrivato Sky. Come sapete benissimo TELE+ è nata da un’idea berlusconiana, sono stato chiamato da Roberto Giovalli che all’epoca era direttore generale del canale cinema e poi si è occupato anche dello sport. Quando sono arrivato mi hanno chiesto di occuparmi della programmazione cinema di un canale interamente dedicato. Mi avevano chiamato per via della mia esperienza giornalistica di redattore a Ciak che era sotto Berlusconi editore.
Avevi mai avuto esperienze di programmazione televisiva prima?
No, mai. Diciamo che all’epoca questa televisione privata avrebbe dovuto attingere a tutta la produzione di Mediaset, della Penta insieme a Cecchi Gori: non c’era un’esigenza di produzione vera e propria, si aveva un ampio parco di titoli e inoltre al tempo in Italia non c’era una filosofia d’intervento sul mercato di questo tipo. Le cose sono cambiate radicalmente con l’arrivo della gestione Canal+. La società francese è arrivata dopo un interregno sudafricano durato tra il ‘95 e il ‘97, in cui la linea berlusconiana non era troppo cambiata. Invece con Canal+ è avvenuta una vera e propria rivoluzione per quanto riguarda il concetto di televisione e per quanto riguarda anche il concetto di intervento sul mercato cinematografico. Grossomodo i canali all’epoca di Canal+ erano ancora monotematici (si occupavano o solo di cinema o solo di sport) però in nuce c’era l’idea di non lasciar perdere il modello francese storico della televisione di Pierre Lescure: una televisione iper generalista, che convogliasse – essendo a pagamento – il meglio di ogni genere televisivo possibile. La cosa che mi esaltava di più era che c’era qualcuno che pensava alla televisione in termine di qualità. Ritengo che siano stati pochi i momenti nella storia della televisione in cui questa cosa c’è stata. In più, si ragionava a livello quantomeno europeo, che già quello all’epoca non era ancora mai stato pensato.
Dal punto di vista della programmazione agli inizi com’era organizzata a Tele+?
Stavamo sperimentando una cosa che non c’era mai stata, quindi la prima questione era che rispetto alla televisione dell’epoca il concetto da fare passare era quello della multi-programmazione, per cui ti avvicinavi a un’idea di televisione on-demand ante litteram: l’idea era di far vedere i film diverse volte nel periodo di sfruttamento che avevamo, quindi le prime visioni importanti occupavano tra i 10 e i 12 slot in un mese e poi riprendevano dopo un po’ di mesi e così via. Non c’erano particolari investimenti per programmi giornalistici o informativi, anche se veniva lasciata qualche nicchia aperta: il prime time di 6 serate su 7 giorni era dedicato ai blockbuster, il lunedì passavano i film d’autore, con la presentazione di un critico. C’era Fausto Galosi, un mio amico e collega che lavora tuttora lì, e poi arrivò Gianni Canova. Si era incominciato in modo molto autarchico…
Che tipo di cinema veniva programmato e con quali criteri?
Il cinema d’autore contemporaneo passava in prima serata, in seconda serata cominciammo a ragionare sui classici o su film non più nuovissimi. Però cercavamo di proporre i film con un criterio persino per le fasce pomeridiane: che fosse quello dell’omaggio, della retrospettiva, insomma quello che si faceva in Rai negli anni precedenti e che noi avevamo la possibilità di fare perché avevamo degli archivi immensi… Mediaset aveva il meglio del cinema italiano, c’erano veramente tantissime cose. Forzando un po’ la mano feci un appuntamento di storia del cinema dalle origini all’avvento del sonoro programmato un giorno a settimana in seconda serata. All’epoca c’era una certa disinvoltura sul discorso del pubblico dominio, adesso sarebbe anche un incubo anche fare Méliès, ma al tempo facemmo molti film senza occuparci troppo dei diritti. Il budget veniva comunque investito per le presentazioni critiche (ricordo quelle di Antonio Costa) e per la composizione di accompagnamenti originali sui film muti.
Oltre alle presentazioni dei critici, c’erano degli altri programmi di approfondimento sul cinema?
A un certo punto decisero malauguratamente (questo progetto mi privò di due anni della mia vita) di fare un telegiornale di cinema che andava in onda tutti i giorni alle 21, quindici minuti, solo di cinema, in diretta… Ho fatto tutto il ‘95 e il ‘96 come caporedattore di questo programma che aveva una redazione fatta da cinque o sei persone. Si chiamava “Set, il Giornale del Cinema” e con me c’era Luca Pelusi, c’era Fabio Pizzul, Francesca Priori: la redazione faceva servizi sul cinema internazionale e molti sul cinema italiano… Da Venezia si facevano delle dirette interminabili e si coprivano tutte le conferenze stampa.
Sembra incredibile ripensare oggi agli spazi che ancora riusciva ad avere il cinema in televisione. Un rapporto che con l’arrivo di Canal+ ha anche voluto dire un finanziamento del cinema italiano: molti film italiani – anche ben poco accondiscendenti con il pubblico – hanno portato il logo di Tele+. Come è avvenuto il coinvolgimento nella produzione cinematografica in Italia?
Allora Canal+ era già una delle più forti realtà produttive francesi e internazionali, tenete conto che l’impero di Canal+ andava dalla Scandinavia al Maghreb. Quando approdarono in Italia non conoscevano bene il mercato locale, avevano un’idea grossomodo di dover intervenire dal punto di vista produttivo ma non così precisa sul come. Pierre Lescure e Michel Thoulouze, che era responsabile di Tele+ in Italia, fecero un accordo con Veltroni (allora ministro della cultura) che prevedeva l’intervento della PayTV nel pre-finanziamento delle opere prime e seconde finanziate dall’articolo 28 dell’epoca. Tele+ poteva scegliere di entrare con il 10% circa del budget sui film di giovani registi che avevano ricevuto i finanziamenti ministeriali.
Da questa mossa politica iniziale ha preso il via tutta la linea d’intervento nella produzione di Tele+, che partendo dalle opere prime ha poi finanziato attraverso i pre-acquisti anche altre tipologie di film. Si era creato un sistema abbastanza vantaggioso anche per le grosse produzioni, perché i film venivano pagati in progressione rispetto all’incasso della sala. Si era creato un buon movimento tra film indipendenti e opere più strutturate nell’arco di tempo in cui sono stati fatti questi interventi, il tutto è durato solo cinque anni…
Da quando è iniziato l’intervento nella produzione?
Dal 1998 al 2003.
Riletto ai nostri giorni sembra strano che si siano scelte proprio le opere prime per essere coprodotte da una payTv. Quale era il progetto complessivo?
Non lo so con precisione: secondo me era un accordo squisitamente politico che andava nel senso di rassicurare il governo italiano che il canale non avrebbe privilegiato delle grosse produzioni a discapito dei piccoli produttori indipendenti. A Veltroni stava bene perché corrispondeva a un suo disegno e d’altro canto dai dirigenti della rete era stato visto come un buon modo d’iniziare perché i numeri e le cifre di questa operazione non erano molto elevati, parliamo di film che avevano come obbligo di stare entro i 2 miliardi di lire quindi entro un milione di euro grossomodo. Così siamo partiti con una struttura assolutamente leggera e libera, che era coordinata da Piero Crispino, responsabile dell’area cinema, e della quale facevano parte alcune persone interne e alcuni consulenti esterni tra cui Carla Cattani e Giovanna Fulvi, che poi è passata a lavorare a Filmauro e che è una grande esperta di cinema orientale.
Quale era il processo di selezione e scelta dei film da finanziare?
Mi ricordo che ci facevamo mandare le sceneggiature, facevamo degli incontri periodici con produttori e con autori e direi che eravamo piuttosto generosi, passavano circa il 60-70% dei progetti che ci arrivavano, tra cui L’uomo in più di Paolo Sorrentino, Nicola Giuliano mi ricorda sempre che siamo stati gli unici che gli avevano dato credito, Matteo Garrone lo stesso: finanziammo L’imbalsamatore che non era neppure la sua opera prima… Ma essendoci stato un contatto con il suo produttore, facemmo un pre-acquisto che per loro era essenziale. Insomma tutti gli autori di quella generazione ebbero l’occasione di ricevere il nostro supporto, essenziale per partire in maniera più solida. Poi un paio di anni dopo, forse anche meno, partì tutto il discorso sul cinema documentario.
Dagli esordienti al finanziamento al documentario: ambiti che ora sono difficili da far finanziare persino ai canali televisivi più raffinati…
C’era molta libertà. I francesi si muovevano su un terreno abbastanza vergine, non avevano che qualche indicazione da super consulenti sulle linee guida. Per raccontarvi un aneddoto: nel ‘97 ho fatto parte di un gruppo abbastanza ristretto di quadri dirigenti, che partecipava a riunioni su come si doveva fare la televisione in questo Paese. Si partiva ovviamente dall’esperienza francese ma erano chiamati intellettuali e docenti italiani a dialogare con noi, venne anche Sandro Veronesi a tenere queste lezioni dove ovviamente si parlava della trasformazione mediatica e sociale… Poi loro avevano alcuni personaggi abbastanza geniali che erano stati delegati all’Italia, tra cui Juan Cueto che aveva vissuto tutta l’esperienza del Canal+ spagnolo, che era un grande intellettuale. Grazie a loro si presero delle direzioni che erano impensabili e che non si ripeteranno mai più nella storia della televisione italiana, c’era un’aria se non di sperimentazione, sicuramente di fare le cose di qualità. In più bisogna tener conto del discorso internazionale, appunto perché ai francesi stava a cuore che ci fosse una politica omogenea anche se si parlava di realtà diverse come Polonia, Tunisia o Scandinavia. Si facevano delle riunioni periodiche a Parigi dove venivano progettate delle iniziative speciali: nel 2000 ho partecipato a una sul tema della rappresentazione del migrante che era coordinata da Jorge Semprùn, un uomo che ha fatto anche la storia del cinema. Si chiamava “Le luci di Brindisi” perché all’epoca il flusso era dall’Albania e ogni paese, cioè ogni Canal, si era preso l’impegno di far partire alcune produzioni su questo tema, cosa che effettivamente si fece.
Voi cosa avevate fatto? Erano più trasmissioni televisive o più documentari?
In quel caso erano stati prodotti alcuni documentari: per esempio, Un confine di specchi di Stefano Savona (2002) faceva parte della serie. Era anche stato bandito un concorso per cortometraggi e ne arrivarono tanti, alcuni furono programmati.
A quanto ammontava il budget per la produzione ogni anno?
Solo degli articoli 28, ne passavano una ventina all’anno. Erano in una formula di pre-acquisto per cui non è facilissimo calcolare… Non è che fossero soldi a fondo perduto. Per quanto riguarda gli articoli 28 era chiaro che si facevano per ragioni politiche, non per una questione di guadagno… Ma del resto anche la produzione dei documentari non fu fatta con finalità di ritorno economico. Un genere che andava per la maggiore nell’emittente madre erano i cosiddetti “grand reportages”: in Francia avevano una struttura giornalistica molto forte e ogni settimana facevano un reportage lungo su tema nazionale o internazionale a seconda dei casi. Quando Thoulouze propose di fare dei reportage anche in Italia, fu evidente che non c’erano a disposizione le risorse necessarie. Così fu affidato a me un fondo di pre-acquisto per documentari internazionali su temi forti e anche per alcuni capaci di raccontare l’Italia. La cosa è stata molto stimolante e abbastanza semplice perché mi ha permesso di acquisire documentari di qualità di tutta Europa, ad esempio le produzioni dalla BBC. Però poi io, Luca e gli altri abbiamo voluto fare una forzatura: avevamo visto Afrique comment ca va avec la douleur, il film di Depardon sull’Africa, che è a suo modo un grande reportage, anche se ovviamente con un linguaggio diverso da quello televisivo, e avevamo provato a programmarlo. Per fortuna ci fu un buon ritorno (anche perché l’auditel si registrava sui regimi di qualità a quel tempo) e quindi mi lasciarono fare. Così poco a poco sono arrivati i primi produttori italiani a propormi dei progetti: facemmo un ragionamento molto semplice e molto banale, cioè quello che si spendeva per le acquisizioni di un reportage da prima serata poteva bastare per produrre dei documentari in Italia.
Fu significativo per avviare un ragionamento sul documentario di creazione sul territorio italiano.
Esatto. Furono degli anni in cui si realizzarono documentari come Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, i film di Leonardo Di Costanzo, di Alessandro Rossetto e di Gianfranco Pannone. Si strinse un accordo con Carlo Cresto-Dina che all’epoca produceva documentari per Fandango… Riuscimmo persino a finanziare i Gianikian! Per i dirigenti era importante che non sforassimo, a loro non interessava sapere con quale percentuale stavamo entrando nel finanziamento del film. Del resto i risultati erano buoni, non c’era una pressione così forte come avviene adesso in cui le percentuali di auditel cambiano la tua vita. Eravamo un piccolo gruppo che lavorava un po’ con tutti: i temi, con il passare del tempo, erano diventati molto più vaghi e quindi si riusciva a finanziare progetti personali e stimolanti…
La fine di questa situazione è stata repentina?
Nel 2002-2003 c’erano due canali, due network di payTV concorrenti, Tele+ e Stream. L’idea era che Canal+ avrebbe acquistato anche Stream perché era chiaro che l’esistenza di due network avrebbe portato al disastro. Purtroppo furono fatti degli investimenti sbagliati in quel periodo, ci fu un periodo di crisi generale, non solo in Italia ma anche negli altri paesi, tanto che l’attuale Canal+ non è certo paragonabile a quel periodo. Fu il gruppo Murdoch ad avere la meglio: i francesi hanno ceduto tutto e se ne sono andati molto rapidamente e quindi anche il management come potete immaginare è cambiato…
Non sono stati mai valutati i benefici nei confronti della produzione cinematografica di quello che era stato fatto?
Il modello era totalmente diverso ed è quello che poi è diventata l’attuale payTV… Il discorso delle produzioni di programmi di qualità, il discorso di fare delle tv para generaliste, quello fu proprio cancellato immediatamente. Il rapporto che ha adesso Sky dal punto di vista della produzione è tutta un’altra storia… Ma potete chiedere a chi se ne occupa.
(Venezia, settembre 2017; con la collaborazione di Alessandro Stellino e il contributo di Astrid Ardenti)