C’è una scena di Cosmos, il film collettivo di cui Denis Villeneuve ha diretto un segmento, che riassume ironicamente la prima parte della sua carriera. Il protagonista dell’episodio è un regista che prende il taxi per recarsi in uno studio televisivo, dove rilascerà un’intervista sul suo ultimo film. L’eponimo tassista, figura di collegamento fra le storie della pellicola, gli domanda: «Un film? Vuole dire con una grande macchina da presa e bellissime donne?». E il cineasta risponde, sommessamente: «No, una piccola macchina da presa e… beh, una sola bellissima donna». Quanta ingenua autoconsapevolezza nella mente di un giovane autore! Perché Villeneuve, inutile dirlo, si riconosce nelle parole del suo alter ego e gioca sulla contrapposizione tra cinema industriale e cinema indipendente, lasciando trasparire la sua coscienza di classe: un dualismo ancor più interessante se consideriamo il futuro hollywoodiano (ma di marca autoriale) del cineasta canadese. Eppure, la prima fase del suo percorso cinematografico è fondamentale per comprenderne la poetica in vista del successivo passaggio alle produzioni americane, che segna uno spartiacque geografico e artistico tra il suo periodo canadese e quello statunitense, culminato nell’imminente Blade Runner 2049.
Per arrivarci, però, Villeneuve parte da lontano: in particolare dal natio Quebec, che gli dà i natali nel 1967 e gli offre una solida formazione cinematografica presso la Université du Québec a Montréal. Come molti cineasti suoi connazionali, la carriera di Villeneuve comincia nel leggendario National Film Board of Canada, storico ente produttivo e distributivo specializzato in documentari, animazione, drammi sperimentali e media digitali, già culla di grandi animatori come Norman McLaren e Caroline Leaf. Fedele alla sua fama illuminata, il NFB gli produce un bizzarro documentario da 30 minuti intitolato REW-FFWD (1994), interamente girato in Giamaica. Il titolo (abbreviazione di rewind – flashforward) esplicita fin dal principio l’artificiosità del mezzo di ripresa, e infatti la narrazione non-lineare va avanti e indietro nel tempo, con tanto di simboli grafici a schermo per enfatizzare l’ingranaggio metacinematografico: il protagonista è un fotografo che visita l’isola caraibica per un reportage, ma è costretto a fermarsi perché la sua auto è in panne, e impara ad aprire occhi e orecchie per scorgere la realtà dietro gli stereotipi occidentali, smontando così il sogno patinato delle riviste («Per lui è ora impossibile consegnare la foto di una bella donna sulla spiaggia» enuncia il narratore. «Non direbbe nulla della Giamaica»). Il giovane Villeneuve, insomma, predica il ritorno a uno sguardo non filtrato dalla macchina da presa, come dimostra l’esortazione del suddetto narratore: «Stop your cinema. Wake up». Filmando la convivialità della popolazione locale, lontanissima dalle cartoline e dai cliché turistici, il regista usa la macchina da presa come strumento di dialogo, non come barriera dietro cui nascondersi: il risultato è un collage di linguaggi e codici rappresentativi (finzione, documentario, intervista, voci extradiegetiche) che tenta di scuotere il provincialismo occidentale, mirando subito molto in alto.
Nettamente più giocoso è invece il suo esordio nella finzione “pura”, quel Cosmos (1996) di cui si parlava all’inizio. Villeneuve dirige il terzo segmento, Le Technétium, e si adegua al bianco e nero ricco di contrasti che caratterizza l’intero film: dopo il vivace dialogo tra il regista indipendente e il tassista, il nucleo dell’episodio si coagula nello studio televisivo dove il nostro eroe viene preparato per l’intervista, immerso in un clima surreale, allucinato, figlio dell’estetica degli anni Novanta; alla moltiplicazione degli schermi, affastellati nello studio televisivo come tante finestre cieche, si unisce infatti un culto dell’apparenza che rievoca l’ascesa di MTV nell’immaginario collettivo, dove l’intervistatrice/VJ consacra internet come nuovo strumento di aggregazione. Il clima richiama un parossismo divertito, grottesco e satirico, che Villeneuve coltiva e affina nei suoi primi lungometraggi. Non a caso, due anni più tardi esce Un 32 août sur Terre (1998), da lui scritto e diretto: storia di una donna, Simone, che decide di cambiare vita dopo un incidente automobilistico e chiede all’amico Philippe di concepire un bambino con lei. Philippe accetta, ma a un’unica condizione: il concepimento dovrà avvenire nel deserto, e questa insolita richiesta innesca un racconto surreale che si muove nel territorio del sogno, come dimostra l’impossibile scansione temporale dei giorni (dal 32 al 35 agosto). Ne risulta una commedia amara dove Villeneuve guarda alla Nouvelle Vague e ai suoi più grandi autori, soprattutto Godard (i jump cut, la protagonista con il taglio in stile Jean Seberg, il personaggio maschile che ricorda Belmondo…) e Rohmer (i personaggi che chiacchierano e si confrontano camminando), ritraendo l’esistenza umana come un movimento costante, inesausto, guidato da un’irrequietezza che è ricerca di senso e di scopo. L’ironia è molto diffusa, anche grazie alle musiche dissonanti che stemperano la drammaticità di certe situazioni: così, l’inaspettata parabola tragica del film resta sospesa tra il romanticismo e la farsa, all’insegna di quel teatro dell’assurdo che è la vita stessa.
Simone è solo la prima tra le eroine di Villeneuve, donne spesso angosciate da pressioni esterne, emotivamente fragili ma pronte a reagire, cambiare e adattarsi. Capita anche alla Bibiane di Maelström (2000), secondo lungometraggio del regista, che scrive ancora una volta la sceneggiatura: a un incipit piuttosto simile – la protagonista decide di cambiare la sua vita dopo il trauma di un aborto – segue un’evoluzione più melodrammatica, ma con una disinvoltura che alleggerisce il film proprio quando potrebbe farsi greve, tragico, opprimente. A straniare il fruitore c’è la singolare cornice del racconto, che assegna il ruolo di narratore a un pesce martoriato e morente, immerso in una cupezza simbolista che richiama l’idea dell’acqua come elemento generatore di vita. Non a caso, Maelström inizia e si conclude proprio nell’acqua, origine e punto di arrivo: dopo aver investito e ucciso un uomo, Bibiane s’innamora di suo figlio, che alla fine decide di spargere le ceneri del padre al largo della Norvegia. Così facendo, Villeneuve approfondisce la sua riflessione sul caos dell’esistenza, peraltro sottolineato da una regia nervosa e impressionista, fatta di pennellate repentine: il cineasta scompone la storia in frammenti, dosa accuratamente i dialoghi e allestisce una fotografia algida e luminosa, che contrasta con l’inquietudine orrorifica della cornice. La sua Bibiane è un’altra eroina tormentata ed eterea, ben più elettrica di Simone e anche più lontana da qualunque possibilità di empatia, ma vittima di circostanze simili: un amore combattuto, situazioni paradossali, i capricci del caso.
Sono due film gemelli, Un 32 août sur Terre e Maelström: due variazioni sul medesimo tema intimista, raffinate e talvolta giocose. Perché Villeneuve cambi registro (e, al contempo, ambizioni) bisogna attendere il 2009, anno in cui esce Polytechnique. Naturalmente il cineasta canadese non resta inattivo per un intero decennio: nel 2006 dirige 120 Seconds to Get Elected, piccolo cortometraggio satirico interamente girato con un cellulare, dove un politico arringa la folla con promesse assurde e distopiche; mentre nel 2008 realizza Next Floor, corto di grande eleganza formale che cita Ferreri (La grande abbuffata) e Buñuel, mettendo in scena una grottesca conventicola di aristocratici che si riempie di cibo fino a sfondare il pavimento, in un abisso teoricamente infinito di dépense e ingordigia. Sono anni in cui Villeneuve lavora duramente alla sceneggiatura di Incendies, ma la sua maturità registica passa prima dal sopracitato Polytechnique, riflessione introspettiva sul germe della violenza nella pacatissima società canadese. Alla base del film c’è il Massacro di Montréal del 6 dicembre 1989, quando Marc Lépin prese d’assalto l’École Polytechnique e uccise 14 donne, prima di togliersi la vita: una strage di natura palesemente sessista, come rivela la lettera scritta dall’assassino. Per la prima volta alle prese con un fatto di cronaca, Villeneuve racconta una vicenda fittizia all’interno della ricostruzione storica, scegliendo al contempo un bianco e nero che prende le distanze dall’iperrealismo della violenza, lo disinnesca e sembra quasi condurre il film sul piano dell’astrazione, in una dimensione onirica e sospesa che diventa universale: come se questa non fosse una strage di donne, ma l’emblema di tutte le stragi possibili, di tutti i soprusi del genere maschile su quello femminile. La studentessa Valerie eredita l’esile figura di Simone e Bibiane, ma è costretta a confrontarsi con una realtà di carne e sangue che non trova alcuna giustificazione se non nella follia. A differenza di film come Elephant di Gus Van Sant e 71 frammenti di una cronologia del caso di Michael Haneke – con i quali condivide sia il tema sia l’andamento ellittico – l’arco narrativo di Polytechnique si risolve quasi interamente nel massacro, ma rifiuta qualunque forma di linearità: Villeneuve fa esplodere il tempo e lo spazio per analizzarne i detriti, lasciando che i personaggi si muovano nell’ambiente senza necessariamente seguirli; anzi, spesso la macchina da presa si ferma e va da un’altra parte. È uno sguardo, il suo, che può soltanto osservare passivamente la strage, abbandonando i personaggi al loro destino. Come narratore, però, ha la possibilità di astrarsi per rendere la vicenda universale, quindi la macchina da presa effettua rotazioni imprevedibili, esplora lo spazio, s’incunea tra i corpi e gli elementi d’arredo, si capovolge, parcellizza la scena nei suoi singoli elementi (anche quelli più turpi: il dettaglio dei capelli intrisi di sangue) in una frammentazione cubista che cita esplicitamente Guernica, sul quale il giovane studente Jean-François si sofferma prima della sparatoria. Non a caso, lo stesso bianco e nero e l’intreccio di corpi esanimi o sofferenti rievocano il dipinto di Picasso, parimenti deflagrato nel caos della strage. Villeneuve non è interessato all’accuratezza storica, ma preferisce lavorare sugli elementi evocativi per mettere in scena l’impatto e le conseguenze della violenza: la scomposizione temporale nasce anche da questo desiderio, così come il flashforward che narra la sorte di Jean-François dopo la strage.
La regia di Villeneuve non ha ancora la precisione rigorosa di Sicario e Arrival: si abbandona ai virtuosismi e alle manifestazioni di bravura, ma li applica coerentemente alla propria rilettura dell’evento storico, dimostrando di saper “fare cinema” anche di fronte a un argomento così gravoso. Pur presentato al Festival di Cannes, il successo di Polytechnique è legato prevalentemente alla realtà canadese, ma Villeneuve non deve attendere molto per ricevere anche una meritata e definitiva consacrazione internazionale. Incendies (2010), tratto dall’opera teatrale di Wajdi Mouawad, gli permette di allargare lo sguardo ben oltre i confini nazionali, collocandosi in quella tradizione cine-letteraria che narra il ritorno alle origini degli immigrati di seconda o terza generazione, come in Ogni cosa è illuminata: i personaggi risalgono alle proprie radici, che affondano nei drammi storici dell’Europa e del Medio-Oriente, mentre lo spostamento fisico corrisponde a un viaggio a ritroso nella memoria, una ricostruzione graduale del passato; più si procede in avanti, insomma, più si torna indietro nel tempo. Il film non svela mai esplicitamente il suo contesto storico-geografico, ma la fonte d’ispirazione è la Guerra Civile Libanese, dalla quale una giovane donna di nome Nawal Marwan fugge per trovare asilo in Canada, dove dà alla luce i gemelli Jeanne e Simon. Alla morte della madre, i due gemelli scoprono che Marwan ha affidato loro il compito di trovare rispettivamente il loro padre e il loro fratello, di cui non sapevano nulla: ne deriva un’indagine che adotta i codici del mistery, coagulata attorno a un enigma in cui l’assurdo gioca un ruolo fondamentale. Come nei suoi film precedenti, Villeneuve mette in scena un mondo che sa essere molto crudele nel suo intreccio di caos e casualità, soprattutto di fronte all’insensatezza della guerra e all’oppressione dell’uomo sull’uomo; ancora una volta, la scomposizione temporale e la pluralità dei punti di vista danno corpo a quel caos, costringendo il fruitore a ricostruire pazientemente l’intreccio con la medesima costanza dei suoi protagonisti. La ferrea sceneggiatura del regista canadese si apre con un prologo beffardo che svela già la soluzione del mistero, ma è impossibile coglierla fin dall’inizio: la finezza narrativa di Incendies sta nel fatto che noi spettatori, completamente ignari della realtà, non sospettiamo nemmeno dell’esistenza di un mistero da risolvere, almeno finché esso non viene sbrogliato del tutto. Così, Villeneuve può concentrarsi sul dialogo tra passato e presente nel viaggio di Jeanne, ennesima figura erratica che, come sua madre nei flashback, cerca risposte, brama il cambiamento, si adatta alle circostanze ambientali che mutano passo dopo passo. E, per farlo, deve accettare i dualismi polarizzanti che animano la sua vita (due gemelli, due religioni in guerra, due piani temporali, due paesi…), mentre l’aggravio di una verità dolorosa pesa sulle sue spalle e su quelle del fratello, più restio a squarciare il velo di Maya.
Incendies ha tutta l’aria del classico film festivaliero, e infatti viaggia per il mondo e vince numerosi premi ai quattro angoli del globo, imprimendo il nome di Denis Villeneuve sulla mappa dei registi contemporanei da tenere d’occhio. Persino Hollywood comincia ad accorgersi di lui, ma prima di fare il grande salto (con Prisoners) Villeneuve saluta momentaneamente la terra natia con il suo film più intimo e arcano, nonché il più discusso dai cinefili di tutto il mondo: Enemy (2013) risponde all’esigenza di allontanarsi dal verismo per abbracciare i territori del fantastico, categoria che il regista canadese ha sempre amato fin da bambino, e che esplorerà sempre più a fondo nel corso delle sue esperienze americane; non a caso, nel suo futuro c’è il nuovo adattamento di Dune, terzo sci-fi di fila dopo Arrival e Blade Runner 2049. Più ambigua è invece la collocazione di Enemy, appartenente alla tradizione dei mind game movie: opere il cui principio strutturale consiste nel trascinare il fruitore nel mondo del protagonista, obbligandolo a identificarsi con una sorta di io narrante (rigorosamente inaffidabile) con focalizzazione interna. Il film di Villeneuve individua i suoi modelli di riferimento ne L’inquilino del terzo piano e Mulholland Drive (oltre che, forse involontariamente, ne L’uomo senza sonno e Il cigno nero), ma opta per un approccio smaccatamente psicanalitico che sfocia in una cerebralità eccessiva. La storia di Adam, tranquillo professore universitario che scopre l’esistenza di un attore identico a lui, è tratta da L’uomo duplicato di José Saramago, ma Villeneuve la carica di simbolismi apparentemente oscuri che attingono alle celebri istanze intrapsichiche di Freud, assegnando ad Adam il ruolo dell’IO, al suo sosia Anthony quello dell’ES e alla moglie di quest’ultimo, Helen, la parte del SUPER IO. Non è arduo dedurne la soluzione finale: Adam e Anthony sono ovviamente la stessa persona, ed Enemy – per stessa ammissione del regista – racconta la storia di un uomo che decide di lasciare l’amante per tornare dalla moglie incinta, ma narrata attraverso il suo subconscio. Anche per questa ragione, il film pullula di apparizioni spettrali sotto forma di ragni, ispirati alla Maman di Louise Bourgeois: il ragno è infatti un’altra manifestazione del SUPER IO, la madre autoritaria e castrante interpretata da Isabella Rossellini, che pressa Adam/Anthony perché abbandoni le sue pulsioni e assolva alle sue responsabilità coniugali. Questa esasperata “razionalizzazione dell’irrazionale” toglie naturalezza all’impianto narrativo, ma si deve riconoscere il talento di Villeneuve nel mettere in scena un confronto impari tra l’uomo e lo spazio, dove Adam si ritrova schiacciato dai volumi colossali dell’architettura brutalista: la foresta di vetro e cemento di Toronto si estende sotto un cielo opprimente, plumbeo, con una fotografia terrosa che soffoca ogni singola inquadratura; più che una metropoli, un luogo mentale che brulica di risonanze psichiche, avvolto da cavi intrecciati e contorti come ragnatele.
È singolare che sia proprio questo il suo ultimo film prima di Hollywood. Enemy è un’opera disperatamente personale, ossessiva, macerata nell’idea di un totalitarismo mentale che reitera lo schema storico delle dittature, non a caso esaminato da Adam nelle sue lezioni universitarie. Villeneuve sembra voler sfogare il suo desiderio di autonomia in vista delle restrizioni hollywoodiane, eppure la sua intelligenza registica lo porterà ad accettare ben pochi compromessi, coltivando sempre un occhio critico che ci induce a “svegliarci”, per stimolare le coscienze oltre i trucchi della Settima Arte: «Stop your cinema. Wake up».