Arriverà presto il momento in cui lo schermo del computer sostituirà quello televisivo. O forse è già successo e non ce ne siamo accorti. Ma c’è stato un momento, non tanto tempo fa, in cui la televisione si è fatta specchio di un desiderio cinefilo che trovava esaudimento nella programmazione selvaggia di una miriade di canali privati e, in maniera più ragionata e approfondita, attraverso il lavoro, verrebbe da dire “didattico”, ma nella sua accezione più alta, di una manciata di illuminati. Enrico Ghezzi e la sua squadra di “Fuori Orario”, naturalmente, ma anche Vieri Razzini, autore di retrospettive d’autore e riscoperte in Rai, e Fabrizio Grosoli che, con Tele+, affiancava alla programmazione il finanziamento di opere prime e autori emergenti italiani. Sono passati pochi anni, ma sembrano secoli.
Così, mentre Netflix domina incontrastata nel nuovo scenario e in Italia Sky si propone come interlocutore di punta per la produzione seriale di qualità, proviamo a ripercorrere insieme ai protagonisti di quella gloriosa stagione di cinema in TV le dinamiche operative e le scelte culturali e politiche che ne hanno sostenuto il pensiero e le azioni, ma anche a capire quando e come mai tutto sia finito. A cominciare da Vieri Razzini, che con l’aplomb di un lord inglese e la sua voce netta e profonda, per oltre quindici anni tra l’inizio degli anni ’80 e i tardi ’90 ha proposto agli spettatori dei canali Rai retrospettive di Ford, Lubitsch e Ophüls, versioni integrali e film sottotitolati, per un lungo e appassionante apprendistato oggi impossibile da ripensare.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando abbiamo iniziato a interessarci di cinema, esisteva in Rai un’abitudine, almeno in alcune fasce orarie o per certi tipi di film, di avere la presenza di qualcuno come lei a dare un’introduzione, a presentare al pubblico l’oggetto che veniva proposto. Ci teniamo a dire che il nostro apprendistato cinefilo è passato anche attraverso il suo lavoro in Rai in quegli anni. Come è cominciata la sua carriera?
Quando sono arrivato alla Rai, inizialmente mi sono occupato di programmi per ragazzi e altro, ma intendevo da subito arrivare a fare la programmazione cinema… Così, alla fine degli anni Settanta ho portato in Italia i primi film per la TV e una serie che si chiamava “Dieci storie per non dormire”: film gialli, molto divertenti, tra i quali anche una casa stregata con Barbara Stanwyck (La casa che non voleva morire di John Llewellynn Moxley, ndr) e il celebre film a episodi Trilogia del terrore con Karen Black (regia di Dan Curtis, ndr)… Poi sono venuti i “prodottoni”, ho portato Radici, I boss del dollaro…
Radici ha segnato un’epoca…
Assolutamente! Posso raccontare una cosa divertente al riguardo: la prima rete era abituata ad avere quel tipo di programmi, una sorta di diritto di prelazione, ma io ero l’unico dell’azienda che leggeva Variety e mi era finita sott’occhio questa critica strepitosa… Così lo chiediamo in visione e quando a Raiuno lo scoprono scoppia un casino pazzesco! Ad ogni modo, sulla terza rete ho fatto programmazione dall’81 fino all’inizio del ‘96, una quindicina d’anni buoni. Passavo duemila film l’anno, credo, tra prime serate e seconde, che erano fondamentali e ora non esistono più. Le seconde serate permettevano alla gente, alle 11 di sera, magari anche semplicemente per caso, di vedere un film un po’ diverso, d’essai, come si diceva. In qualche modo si abituava il pubblico a vedere certi film.
Come ragionava sulla programmazione?
In prima serata bisognava mettere quello che andava più facile ma in seconda serata si poteva mandare altro… Poi facevo retrospettive, film in lingua originale, etc. Se ricordo bene cominciammo a mezzanotte meno venti, come primo orario di riferimento, poi scivola scivola siamo finiti a mezzanotte e venti… Ogni tanto ricevevo lettere di gente disperata! Mi ricordo di una serata dedicata a Max Ophüls dopo la quale arrivò la lettera di una spettatrice che diceva: “Ho aspettato l’inizio del film seduta in poltrona, davanti al televisore, con il telecomando sulle ginocchia e… mi sono addormentata! Quando ho riaperto gli occhi Madame de… era già a metà. Come si potrebbe fare per rivederlo?!”.
Il modo di proporre cinema in televisione era molto diverso rispetto a quello odierno: lei e altri offrivate allo spettatore una presentazione critica colta, raffinata. Ricordiamo bene le sue magnifiche introduzioni, a volte la domenica pomeriggio, altre la sera sul tardi…
Film come La grande avventura erano da domenica pomeriggio, così come Robin Hood o I titani di Tessari… Per le prime serate c’erano grossi pacchetti che venivano divisi tra le reti. In quanto terza rete venivamo… terzi! Ma era divertente, ce li giocavamo a carte: “questo a me, questo a te, etc”. Quanto ai miei commenti, inizialmente erano molto brevi perché secondo me il film va visto, con la conoscenza del testo puoi fare un discorso diverso, altrimenti rischi lo spoiler o la genericità. Anche nei libri io preferisco le postfazioni. La prefazione non può essere altro che un inquadramento storico. In generale, ero abbastanza libero nelle scelte, ma già quando è arrivato Guglielmi, in terza rete nel 1987, le cose sono cambiate, perché nonostante la grande amicizia sul lavoro non siamo andati d’accordo. Considerava quello che facevo io vecchia televisione e sosteneva che le mie introduzioni dovessero essere molto più brevi. In un certo senso aveva ragione perché la brevità è magica, ecco perché a volte presentavo il film davvero con tre parole: “Fox, 1958, regista tal dei tali. Era un tema scottante perché etc, stesso anno di etc”. Giusto un po’ di informazioni basiche.
Oggi la TV non riveste più quel ruolo. Le nuove generazioni non possono rivivere quell’apprendistato cinefilo, che adesso passa attraverso canali completamente diversi.
Sì ma: passa? Me lo domando. Quelle che facevamo noi potevano anche essere cose noiose però servivano da stimolo della curiosità, invece i giovani di oggi hanno davanti tutto quello che vogliono ma un tutto che può essere paralizzante. È come quando sono entrato in uno di quegli immensi drugstore americani in cerca di un’aspirina e mi sono trovato di fronte a settecento aspirine diverse… non sapevo quale prendere. Credo sia un po’ così… Per non dire che anche le scuole hanno una responsabilità in questo senso, perché i professori non sanno nulla e quando portano gli studenti al cinema li portano a vedere le cose più pallose… Ma questo è un altro discorso.
Tornando brevemente agli anni della sua programmazione in TV, ci sono scelte di cui va particolarmente fiero, delle soddisfazioni che si è tolto?
Sì, parecchie. Intanto ho capito presto che si poteva tranquillamente ripartire dai capisaldi, quindi ho fatto diciotto film di Ford, quindici di Hawks… Billy Wilder due volte! E molti di questi nessuno li aveva visti! Ma soprattutto mi piaceva l’idea di creare una proposta organica, come le personali dei pittori: quando ti piace molto un autore vuoi leggere tutto quello che ha scritto, no? Sono molto fiero di aver fatto Marco Ferreri, perché nessuno riteneva che meritasse di essere fatto, e sono molto felice anche di aver proposto in TV Lubitsch e Max Ophüls.
Poi c’è un’altra questione a cui accennava prima: i tuoi cicli dell’epoca, come anche quelli di Claudio G. Fava o Ghezzi, proponevano i film in lingua originale. Altrove forse era la norma ma da noi si trattava di una modalità assolutamente pioneristica.
Per me era fondamentale, anche se gli ascolti non erano altissimi. Bisogna tenere presente che dopo la guerra il Paese si trovava in una condizione di profondo analfabetismo. Mi sono documentato molto, al riguardo, e ho scoperto che perfino il doppiaggio era previsto dal piano Marshall, in particolare per la Germania e per l’Italia perché, avendo perso la guerra ed essendo stati fascisti, dovevamo essere “rieducati”. All’epoca, in Calabria o in Sicilia i sottotitoli erano impensabili. Quindi quello che era cominciato alla fine degli anni Trenta, con i film doppiati a Brooklyn con strani accenti, poi è stato regolamentato allo stesso modo della distribuzione dei beni di prima necessità. C’erano venti commi riguardo come doveva essere fatto il doppiaggio, che infatti poi è diventato un’industria.
Inoltre sappiamo che il doppiaggio è stato a lungo un modo di condizionare, se non falsare, la visione. Pensiamo al doppiaggio di Quarto potere, dove tutti i riferimenti a Mussolini vengono tolti e si parla di altro…
Questa è un’altra cosa di cui vado abbastanza fiero, perché per la prima volta ho fatto Quarto potere integrale in TV, dato che nella versione italiana mancavano venti minuti, un’enormità! Stessa cosa per I cinque segreti del deserto di Billy Wilder in cui c’è un personaggio italiano fascista al seguito del battaglione tedesco che fa una figura, che dire di merda è proprio fargli un complimento, un verme, insomma, e nella nostra versione lo avevano ridimensionato, trasformato, non si capiva bene chi fosse… Sapete, Billy Wilder non fa sconti a nessuno…
Era difficile riuscire ad avere questi materiali?
No, piuttosto il problema era un altro, perché spesso i film ci arrivavano nei formati sbagliati! Venivano adattati per la TV, quinti tutto diventava quadrato, quando non si ricorreva – peggio ancora peggio – a quella cosa orribile che si chiamava scanning, dove panoramicavano sul cinemascope. Ricordo una riunione in cui me ne lamentai e si incazzarono tutti dicendo: “Basta! Questa è la televisione non è un cineclub!”.
Come si è esaurito questo periodo, la possibilità di continuare a svolgere quel lavoro? La TV non rivestiva più quel ruolo?
Un po’ anche perché mi ero stancato… E poi le cose sono cambiate quando è andato via Guglielmi: anche se ogni tanto eravamo ai ferri corti stiamo parlando di un uomo molto intelligente… I nostri litigi erano legati a fatti operativi, non alla programmazione. Magari io arrivavo tardi in ufficio e lui se la prendeva. Gli dicevo: “Angelo, il lavoro lo sbrigo, no?, le cose vanno in onda, funziona tutto, cosa cambia se arrivo alle 10:30 invece che alle 9, come un soldatino…?”. Dopo di lui ci sono stati due diversi direttori di rete: prima Locatelli, che era uno che era stato pescato con le mani nel sacco e mandato via in pensione, diciamo… e poi ripescato perché non sapevano chi altro metterci…
Una cosa molto italiana, insomma…
Con lui non ho avuto contatti, devo dire… Poi è arrivato Minoli con cui ci conoscevamo da anni ma era uno a cui del cinema non gliene poteva fregare di meno e anche se io sapevo di avere riscontro all’esterno in azienda era come se non esistessi. Ricordo che il presidente all’epoca era Siciliano, andai da lui e gli dissi “Senti, Enzo, io me ne vado” e lui “No, no! Le persone come te non se ne possono andare! Parlo io con il direttore generale”, che allora era un certo Iseppi. Un altro a cui non gliene fregava niente, per fare una cosa bisognava insistere all’infinito… poi è finito nell’anonimato totale… Allora mi sono detto: “Ho 55 anni, perché devo stare lì a farmi il sangue amaro, magari poi mi viene un bell’infarto…”. Insomma, l’interesse dell’azienda si era esaurito. Era davvero cambiato tutto, se pensate che negli anni Settanta Raiuno aveva proposto Lubitsch in prima serata…
Va anche detto che il panorama intorno alla Rai era mutato, erano arrivate le reti private…
Sì, in generale dall’inizio degli anni Ottanta il cinema viene massacrato… I dati li ho dimenticati ma è stata una cosa bestiale: si è rubato a destra e a manca e sugli italiani si è riversata una valanga di film… Poi la Rai ha cominciato a rincorrere Mediaset, non solo con il cinema, ma in tutto e per tutto. E quando Rete 4 è stata venduta a Berlusconi, buona notte. Certo, se ci fosse stato qualcuno di buona volontà… Alla fine l’unico baluardo è rimasto Ghezzi ma faceva cose anche troppo sofisticate e un po’ disorganizzate, per non dire degli orari: se volevi vedere una cosa dovevi rimanere in piedi fino all’alba…
Una volta fuori dalla Rai com’è proseguita la sua carriera?
Intanto ci sono stati anni di puro divertimento, perché abbiamo fatto una grande retrospettiva per la Biennale della Moda, che si occupava anche di cinema. La dirigeva Leonardo Mondadori e fu lui a chiamarmi. Facemmo 90 film! Una pacchia, abbiamo messo dentro tutto quello che volevamo: da American Gigolò e La caduta degli Dei di Visconti fino al ripescaggio di un defilé di Carole Lombard del ‘34, davvero molto divertente… Poi ci sono stati anni più tranquilli, ho scritto un romanzo che è uscito molto più tardi, Giro di voci. Mariangela Melato voleva trarne un film, poi non se ne è più fatto niente, come spesso accade…
Arriviamo così al capitolo finale della distribuzione, con Teodora e l’etichetta DVD…
Teodora nasce un po’ per gioco: nel 2000 Cesare (Petrillo, socio fondatore di Teodora, ndr) fa una vacanza in Brasile, torna tutto contento e dice: “Senti, ho visto un film fantastico, magari non un capolavoro ma c’era una scopata meravigliosa di 20 minuti e poi questi due sono marito e moglie e non fanno altro che litigare… Forse è un po’ letterario ma è tratto da un romanzo famoso…”. È cominciata così: Un bicchiere di rabbia (di Aluizio Abranches, ndr) è andato abbastanza bene da assicurarci una sopravvivenza di un anno, un anno e mezzo diciamo e poi, piano piano, sono arrivati i film che non hanno battuto nulla e poi qualcos’altro è andato meglio e, un passo alla volta, siamo diventati un po’ più consistenti. Anche se l’ultimo anno e mezzo è stato disastroso, il pubblico è sempre meno, altro che la televisione… È impressionante come non si faccia nulla al riguardo, anzi i provvedimenti che si prendono sono quelli sbagliati. Si continua a parlare, con il solito lamento italiano “Ah, il cinema in sala! Bisogna salvare le sale cittadine!”. Ma fate qualcosa sulla pirateria, piuttosto, che è un danno spaventoso! Tutti scaricano come se niente fosse… prova a farlo in Germania: il giorno dopo ti arriva una multa di 500 euro e non ci riprovi più. Andare alla fonte è un po’ più complicato, ma tu che scarichi ti beccano subito e così ti passa la voglia. Invece qui tutti ti tirano dietro il cinema come se fosse merda… a due euro. Prova a dire a quelli della pizza che un mercoledì al mese devono dare la pizza a 2 euro, provaci tu, Ministro! Io l’ho sempre detto: è uno svilire il lavoro. E infatti poi la gente di lunedì, martedì e giovedì non ci va per niente e tutti aspettano il mercoledì per pagare 2 euro… Vuoi vedere il film? Paga! Ma perché no!? A Parigi costa 12 euro, a Londra costa 12-14 sterline e qui abbiamo ancora dei prezzucci, quasi politici…
Possiamo dire che c’è un problema distribuzione in Italia?
Mah… i problemi sono di vario tipo, in realtà. Uno è il Tax Credit che riguarda solo i film italiani, anche per i distributori, e per me dovrebbe essere esteso almeno ai film europei perché alla fine siamo operatori culturali. E poi andrebbe fatta una modifica al riguardo, perché il Tax Credit si aggira sul 20-22% ma è sbagliato che sia uguale tutto l’anno perché chi esce in giugno dovrebbe avere l’intero diciamo, chi vuole uscire a Natale forse dovrebbe accontentarsi dell’8-9% non del 22%. Siccome poi c’è questa lunga lamentazione anche su quanto sia corta la stagione in Italia, si va da ottobre ad aprile. Siamo una penisola, terra di mare… Il bel tempo è una fregatura…
Nei mesi più caldi bisognerebbe rimettere l’aria condizionata nel claim dei film in sala…
Lo dico da anni! Non è possibile che d’estate il pubblico scompaia: il cinema è uno dei posti dove si sta meglio…
Per chiudere: quali potrebbero essere le soluzioni, anche su ampio raggio?
Soluzioni per che cosa? Perché la gente ritorni al cinema? Intanto, anche se ormai è tardi, bisognerebbe abolire alcune cose che ha fatto Veltroni: quando ha fatto le licenze per tutti ha dato l’avvio alla costruzione dei multisala che hanno completamente ammazzato le sale cittadine. E noi non siamo un paese come l’America, con quelle distanze pazzesche… Noi imitiamo perché siamo dei cretini, abbiamo il gippone, il Suv, in cittadine che hanno tutte quante una pianta medievale, Roma compresa. Al Multiplex con il cinema di qualità non ci entri. Oppure va talmente male che nessuno se ne accorge, perché vogliono Stallone o Tom Cruise, senza nulla togliere. Quindi ci vorrebbe un sistema di accorgimenti per favorire le sale di città. Poi l’altra cosa fondamentale è una legge del CRS copiata di sana pianta da quella francese, perché loro hanno il fondo del cinema che tassa la pubblicità. La pubblicità è la nostra padrona, e quindi: ci vuoi restituire un pochino, una minima percentuale del maltolto? Si tassi la pubblicità, sarebbe una ricchezza! Infine bisognerebbe ripristinare un minimo di organizzazione industriale della produzione. Così com’è è tutto un po’ alla carlona.
(intervista realizzata a Torino durante il Lovers Film Festival, giugno 2017; con la collaborazione di Astrid Ardenti)