Lo scarto fondamentale nel campo delle idee riguardanti il cinema, oggi, è data da ciò che separa il gesto (o i gesti) dal resto della produzione audiovisiva. Il cinema si deve imporre, necessariamente, come differenza. Non per un frainteso elitismo o per mascherare presunte o evidenti incapacità di comunicare con il pubblico, quanto per affermare la possibilità di ambire a cimentarsi ancora con le cose del mondo e il racconto degli uomini. Ovviamente non per una banale vocazione umanista, quanto per la necessità di calare il fare del cinema in un campo più ampio: quello delle continue trasformazioni tecnologiche del dispositivo di riproduzione e del suo riorganizzarsi. Il cinema, necessariamente, non può che essere il racconto del suo incessante differirsi sia come modalità di produzione che come immagine in rapporto (o in relazione, opposizione) al resto della produzione audiovisiva. Il cinema quindi, come immagine in movimento, reca inevitabilmente il segno del lavoro che l’ha posto in essere. Ed è il lavoro che fatalmente si dichiara e qualifica come “gesto” cinematografico. Il lavoro, inteso come segno del gesto, è anche il racconto di come è stata pensata la produzione di un film. Il gesto, quindi, in quanto ipertesto visibile del lavoro, dichiara inevitabilmente la politica (dell’[in]visibile) del cineasta. E, di conseguenza, produzione di una riflessione etica attiva. Colta cioè come risultato attivo sul campo.
Jonas Carpignano, assieme al Leonardo Di Costanzo de L’intrusa, è l’unico cineasta italiano ad aver spinto così lontano la riflessione sul gesto cinematografico. Sarebbe una banalizzazione imperdonabile ridurre il tutto alla “solita” fraintesa formula zavattiniana del pedinamento (sulla quale sarebbe invece necessario [ri]studiare le cose scritte da Stefania Parigi in merito). Carpignano non pedina affatto: Carpignano tenta di pensare la materia stessa dell’immagine che filma; di immaginarne la filigrana e quindi di toccarla con l’atto del filmare.
Tutto il cinema contemporaneo più motivato e interessante si pone oggi in un dialogo fertile e aperto con il reale. Dietro questa categoria, sovente irrisa con la motivazione che tutto è materialisticamente “reale”, si cela una riflessione profonda sulle mutazioni dell’idea stessa di realismo.
Idea chiave della modernità cinematografica, il realismo è ciò che ha permesso di pensare insieme, sullo stesso piano, Rossellini e Hitchcock, Hawks e Welles. Il cinema del reale oggi è probabilmente l’unica riflessione politica sorta in seno alle diverse cinefilie proprio perché ha tentato, analizzando il lavoro di autori come Rosi, Frammartino, Rossetto, Di Costanzo, Fasulo, Minervini, Marcello, Comodin, di ripensare la posizione e il rapporto del dispositivo di riproduzione nei confronti dell’immagine (distinzione importante) del reale. Non il reale, dunque, ma la sua immagine. Perché il “realismo” è una posizione, oltre che una strategia.
Basterebbe osservare come la presenza della macchina da presa nei confronti dei corpi di A Ciambra eroda di fatto le indicazioni della pagina scritta, che pure fornisce la traccia del racconto. Il realismo, in questo caso, non è tanto la libertà che il regista concede ai suoi non professionisti, quanto l’osservazione attiva di come il dispositivo di riproduzione riscriva di fatto la pagina scritta in relazione ai corpi che filma. Una relazione che Carpignano struttura come un conflitto fertile nei confronti del quale si pone con lo sguardo del documentarista puro. Non interviene mai, registrando quanto accade dinnanzi alla sua macchina da presa come documento di un conflitto in atto.
E questo conflitto non è in opposizione alla libertà che il regista – da contratto – è tenuto a offrire ai suoi protagonisti, data la natura del progetto filmico. Perché è proprio da questo conflitto, attivo e non predeterminato, aperto, che sorge invece la libertà del film e dei suoi attori (intesi sia come interpreti che come realizzatori). Ed è in questa danza del possibile, questo muoversi lungo coordinate che è necessario pensare come mobili per comprenderne la natura, che un film come A Ciambra prende vita. Il conflitto – o meglio la tensione – che lo anima è dato dall’intensità di un respiro che segue come in un ideale piano sequenza ogni gesto e situazione alla stregua di un film virtualmente infinito. Ogni situazione del film è affrontata come se si affacciasse sulla possibilità di durare ben oltre la sua “necessità” drammatica. Non ci sono scene che fanno da collante fra le diverse situazioni: tutto si muove in maniera organica e in funzione del corpo-film nella sua interezza. Ogni immagine, ogni raccordo, è il resoconto del conflitto/tensione fra le componenti del film. L’esito di tale urto costante fra gli elementi che compongono il film non è mai dato per scontato ma sempre osservato come ipotesi di una continua reinvenzione delle possibilità in gioco. Carpignano non si offre quindi come il regista in grado di risolvere le contraddizioni che animano le diverse componenti del suo film. Il film stesso diventa il documentario di una situazione aperta. Metastabile. Un campo di possibilità equiprobabili.
In questo senso, A Ciambra è quanto di più lontano dal cinema cosiddetto di impegno civile tradizionale prodotto dalla sinistra in Italia. Carpignano – e qui sta tutta la differenza possibile – ha ovviamente un punto di vista ben preciso su quanto mette in scena ma si guarda bene dal farne una possibilità di paralisi del film. Il suo punto di vista, al contrario, la sua familiarità con gli interpreti del suo film, gli permette di lasciare aperte tutte le possibilità in campo. I suoi protagonisti abitano il film e lo ridefiniscono dall’interno. Il regista crea per loro la possibilità di farlo vietandosi ovviamente il falso privilegio di permettere al proprio sguardo di orientare il corso dello sguardo (ossia il punto di vista) sugli eventi.
Questa indecidibilità sta – a nostro avviso – al cuore del miglior cinema del reale di questi anni. Il realismo, dunque, rivelato dal gesto del cineasta, è il risultato della relazione instaurata fra il lavoro sul set e le persone che lo abitano in un dato momento. Questo suo essere sempre e comunque esito di una relazione e di una serie di possibilità è il punto critico di una pratica cinematografica che si pensa e si mette in scena a partire dalla ridefinizione continua di un pensiero che ha al suo centro il senso del lavoro e della sua condivisione.
Che tutto ciò poi tracimi dallo schermo con una forza raramente osservata al cinema in Italia negli ultimi anni dovrebbe confermare ulteriormente la vitalità di una non-pratica filmica che ridiscutendosi instancabile in relazione a valori come etica, gesto e lavoro riesce a ripensare l’immagine stessa del cinema e, di conseguenza (e non è un risultato trascurabile), di un intero territorio.
Con A Ciambra, Jonas Carpignano ridefinisce ulteriormente i confini di quanto oggi chiamano senza imbarazzo il cinema del reale.