Affinità elettive. India 1947-2017 – il cinema e gli altri linguaggi delle arti (dal 9 novembre al 17 dicembre 2017 presso LAC – Lugano Arte e Cultura, nell’ambito di un più ampio focus sul subcontinente) è una nuova storia segreta del cinema organizzata da Marco Müller che, per entità, ricorda la sua storica “Ombre elettriche’’, memorabile rassegna sul cinema cinese presentata a Torino nel 1982. Stavolta si scandaglia il cinema indiano, che in buona parte rimane ancora misconosciuto, anche se rappresenta ormai un lontano ricordo l’affermazione di Nöel Burch nel suo libro To the Distant Observer, secondo la quale la cinematografia indiana, al pari di quella di molti altri paesi non occidentali, avrebbe semplicemente adottato modi e codici di Hollywood a seguito del lungo periodo del colonialismo inglese. In realtà la rassegna mira proprio a mettere in luce tutte le forme di ibridazione tra la settima e le altre arti che i registi indiani, spesso poliedrici, hanno perseguito dall’indipendenza del paese a oggi, seguendo una tensione ancestrale, propria della loro cultura, a combinare suoni e musica con immagini pittoriche. Marco Müller che, ricordiamo, è anche etnomusicologo, parla a tal proposito di un continente audio-visivo tutto da scoprire attraverso il cinema. Pensiamo solo a capisaldi del cinema bengalese come Jalsaghar (La sala della musica, 1958), incentrato sulla decadente sala del signore in cui si esibiscono musicisti tradizionali con i loro classici strumenti. Autore: Satyajit Ray, grande cineasta che è stato anche compositore delle musiche dei suoi film, come racconta il documentario Music of Satyajit Ray di Utpalendu Chakraborty (1984), dove lo si può vedere al lavoro sul sintetizzatore. Oppure alla figura del grande danzatore Uday Shankar (amato anche da James Joyce che di lui scrisse “Si muove sul palcoscenico come un semi-dio”) che si avvicinò al cinema realizzando la prima opera “all-dance” del cinema indiano, Kalpana (Immaginazione, 1948), film d’apertura di Affinità elettive. Oppure il respiro musicale del cinema in hindi di Mani Kaul, di cui la retrospettiva propone, tra le altre cose, Dhrupad, incentrato su musicisti di una tradizionale forma di canto, in cui il cinema si fa crocevia tra musica e architettura e visioni urbane, nella composizione di spazi e volumi.
Questa eredità poliedrica è stata pienamente raccolta dal giovane filmmaker Amit Dutta, cui Affinità elettive dedica molto spazio. Il suo straordinario film Nainsukh (2010) può essere annoverato come un nuovo, importante capitolo nelle relazioni che il cinema è in grado di tessere con le altre arti figurative. Incentrato sulla figura del pittore indiano settecentesco Nainsukh, il film fa proprio il senso del pittoricismo alla Paradžanov e riflette sulla genesi dell’opera d’arte e sull’atto di dipingere, nella via indicata da Victor Erice. Nel mettere in scena il grande artista, Dutta riflette sulla sacralità dell’arte, nel momento in cui il pittore disegna una divinità dalle innumerevoli braccia e subito il disegno è oggetto di venerazione, contemplazione e meditazione. Una maniera in cui l’artista può farsi tramite con la divinità, ma la stessa divinità può essere una creazione artistica, farsi arte: “La dea che siede sulla punta del nostro pennello”, dice il pittore. E tutto il film Nainsukh si gioca su intreccio, sovrapposizione, alternanza tra realtà e rappresentazione, immagine tridimensionale e bidimensionale. Il disegno, l’arte di Nainsukh, fissa, riproduce la realtà su un foglio bidimensionale; e il cinema di Amit Dutta, che pure rappresenta sullo schermo l’illusione della tridimensionalità, effettua il percorso a ritroso, rincorre quelle antiche miniature, le ricrea con dei tableau vivant. Il regista usa spessissimo carrellate laterali, sottolineando così un’assenza di profondità, come in una tavola, un disegno o un quadro; e non ricrea gli ambienti originali con delle scenografie, come sarebbe norma, ma utilizza le location originali come sono ora, rovine, vestigia di palazzi lussuosi. Così un complesso archeologico è visto con inserti dei progetti e dei disegni che lo raffigurano al momento del suo apice. Fregi e bassorilievi sono le scenografie di uno spettacolo di danza tradizionale che diventa una miniatura, o una stampa di Nainsukh, per poi tornare a essere cinema. Mentre la ricostruzione di un quadro raffigurante una tigre non prevede l’animale vero ma di una maschera di tigre del teatro tradizionale. Le espressioni e le rappresentazioni artistiche così si moltiplicano come scatole cinesi.
Anche l’ultimo film di Dutta, Agyat Shilpi (The Unknown Craftsman, 2017), è incentrato sulla creazione artistica, sulla genesi dell’opera d’arte, sul passaggio dallo stato di informe, o di forma irregolare, a forma, dalla natura all’arte nell’atto di plasmare il tempio rupestre dedicato a Shiva a Masrur, risalente all’ottavo secolo d.C. “Chi ha la conoscenza del cerchio e della linea è un architetto” dice più volte nel film l’artigiano girovago che vediamo camminare tra sentieri impervi di montagna. Le figure geometriche sono come idee platoniche in un iperuranio, che si manifestano nelle strutture e nelle costruzioni umane, l’essere e l’immagine. Ma la circolarità e la linearità sono anche due concezioni filosofiche e artistiche. E già la natura possiede la sua armonia intrinseca, come nella scena in cui alcuni strumenti musicali tradizionali appaiono misteriosamente nel bosco. Ancora una volta, Amit Dutta non mostra l’opera d’arte al momento della sua realizzazione, ma com’è adesso: i bassorilievi consunti dall’erosione, segnati dal passaggio dei secoli, le figure umane senza volto, come in un ritorno progressivo all’informe della roccia, della natura. E non mostra l’atto in sè dello scolpire, come avrebbe fatto qualsiasi regista replicando il gesto con uno scalpello che colpisce la pietra, ma un’ombra, un simulacro dell’artista che si proietta sulla parete rocciosa. E torna, ancora una volta, la sacralità dell’arte anche nell’immagine dell’artigiano seduto sotto un albero, in posizione da Buddha sormontato dalla luce del sole come in un’illuminazione, una composizione sincretica considerato che il tempio, che si appresta a scolpire, è induista. L’artigiano vagabondo messo in scena da Amit Dutta rappresenta un artista primigenio ma anche il regista stesso che lavora riprendendo ambienti, cose e persone, mettendo ordine alle cose con la fotografia e poi con il montaggio. Degno approdo di una cinematografia nazionale.