Terra e acqua mescolate, un fiume si confonde con gli alberi che ci si riflettono. Così inizia Motu Maeva, con un lungo piano sequenza in cui la macchina, a fior d’acqua, passa dall’ombra alla luce e segue il vagabondaggio dello sguardo senz’altra logica che la propria. Da questo giardino offerto dalla natura, il film slitta verso quello di Sonja, chiamato Motu Maeva in ricordo di una delle sue numerose vite. È questo giardino del ricordo che il film esplora. Dialogo di una voce, quella di Sonja, con immagini passate e presenti.
È difficile parlare di Motu Maeva senza evocare la vita singolare che vi è ricucita. Nelle prime parole del film, qualche brandello d’infanzia. Una bambina che si fa le sue proprie immagini contro la bruttezza del mondo e che, essendo troppo carina, si deve proteggere dallo sguardo maschile. Più tardi, la donna si offre tuttavia interamente allo sguardo del marito Michel. Lui è ufficiale e va ovunque la Francia abbia delle terre. Lei lo segue. Lui la riprende. In queste immagini girate in Super 8 che costituiscono parte del film, la macchina gira il mondo intero e torna sempre a Sonja. Lei è bella. Nel racconto che Sonja elabora con voce fuori campo, ci sono la danza e la gioia, un amore estatico del mondo, la passione per Michel che non impedisce però un’individualità radicale. Forza delle persone libere che stanno bene da sole come con gli altri e che portano con sé un giardino. Questa vita straordinaria che incrocia la grande Storia potrebbe essere fittizia. Affabulatrice, Sonja?
Il film riesce a smarcarsi da questa domanda. Maureen Fazeindeiro, ripetendo il gesto dell’amante, gira anche lei in Super 8. Allora, come l’acqua con gli alberi all’inizio del film, immagini passate e presenti si mescolano. E se le immagini del presente hanno la consistenza dell’archivio, non c’è più niente che indichi una distinzione. A una memoria inerte, fatta di dati ben catalogati che basterebbe far uscire dai faldoni per averli a disposizione, il film oppone il flusso della memoria viva, l’atto di ricordarsi. Orbene, non c’è niente più lontano dal ricordo che l’esattezza. Tutto fluttua. E poi, comunque, non è Sonja l’autrice di queste immagini. I suoi ricordi emergono tramite lo sguardo dell’altro, lei ci si perde e se ne appropria allo stesso tempo. Il primo piano del film crea uno spazio senza ancoraggio e senza confini. Dopo, i luoghi si confondono, le immagini dei corpi e dei paesaggi stranieri non cercano nessun’assegnazione. Un’immagine ne chiama un’altra. I suoni, con il loro potere di evocazione, tessono un tessuto autonomo. Versi d’uccelli da cieli diversi, risate di bambini, brusii di cicale, di campane in lontananza, d’acqua e di vento. La materia del ricordo si alimenta e si inventa. E si tratta proprio di una materia. È un giardino intimo che si coltiva al presente.
Allora, l’immagine d’archivio guadagna un’altra dimensione, come resa a se stessa, alla sua materialità, alla sua bellezza. Non attesta, non è più ridotta alla funzione di prova e di verità. Perché un’immagine diventi archivio, ci vuole un dispositivo per situarla come tale e per distinguerla dall’immagine presente. Qui, niente del genere. Avendo scelto la continuità fra passato e presente, Fazendeiro ha liberato le immagini dalla loro funzione. O ci dice piuttosto che ogni immagine filmica è già archivio, l’impronta fisica di un presente già passato. Un altro rapporto con la Storia si costruisce. Queste immagini sono anche una testimonianza del passato coloniale francese, dal Ciad all’Indocina. Il film si interessa alle immagini tanto quanto a cosa mostrano. Nella sua narrazione, Sonja non interroga questa Storia alla quale però partecipa. Può disturbare questa donna che racconta le sue scorribande nei casinò di Macao mentre vive in Indocina, il suo piacere nel viaggiare e nel ballare. Ci dice del suo amore per gli altri, ma quasi niente sulle terre in cui vive la sua dolce vita né di cosa lì faccia il suo Michel. Il film è un ritratto complesso dell’intimo calato nella Storia, è il ritratto di una donna che, come dice lei stessa, se le cose non vanno per il verso giusto ha sempre il potere di immaginarsi altrove. Sta agli spettatori riempire i silenzi di Sonja e diventare attori anch’essi della ricostruzione che avviene. Né illustrazione né opposizione frontale, il rapporto fra il racconto e le immagini permette una molteplicità di combinazioni. A ciascuno la sua.
In una immagine quasi astratta, il corpo di Sonja si confonde con la materia della pellicola, polverizzato dalla danza e dal riso. Apparizione e sparizione sono una cosa sola nell’atto vivo del ricordo.