Quando siamo adolescenti, l’umanità coetanea si divide in chi è in e chi è out, in chi sta dentro e in chi sta fuori dall’area della coolness. Quelle che stanno dentro fluttuano in gruppo nei corridoi della scuola indossando sempre i vestiti del tipo giusto, della taglia giusta, della marca giusta, e parlano di sesso orale lasciando intendere con sguardo malizioso di conoscere più di un significato per il verbo “venire”. Il fatto che probabilmente ci sia spesso una bella differenza tra ciò che queste sembrano sapere e quello che effettivamente sanno non passa per la mente di chi le ammira e, dal pericoloso crinale tra il dentro e il fuori, desidera con tutte le forze essere ammessa alla cittadella dell’élite.
Al suo primo giorno nella nuova scuola, l’innocentissima Iona viene presa di mira proprio dalle tre ragazze più popolari della classe che subito individuano in lei l’obiettivo perfetto della loro perversione. Il trio è guidato dalla tipica “ape regina” che spadroneggia a casa e in aula dove all’insegnante che le chiede cosa sia l’olocausto replica impunita “una giostra?” (forse un gioco tra holocaust e rollercoaster). Le tre si fingono amiche di Iona, la manipolano, la umiliano, le rubano il ragazzo, le imbrattano la reputazione e le fanno letteralmente terra bruciata attorno. Iona finisce per diventare un puntaspilli, un pin cushion, per le sue finte amiche (frenemies) sadiche come aguzzini impegnati a testare la soglia di sopportazione umana agli abusi psicologici.
Fin qui Pin cushion può sembrare un chick flick (film per signorine) sul tema delle amiche-nemiche – già esplorato da commedie americane come Mean girls – in salsa britannica (ragazze in divisa scolastica) e aggiornato (sigarette elettroniche al posto del tabacco, cyberbullismo). Tuttavia, al suo esordio, Deborah Haywood esplora, con un crescendo drammatico, il lato amaro e nauseabondo di questo genere cinematografico che contamina con elementi onirico-grotteschi e vaghe allusioni a un contesto working class che però rimane sullo sfondo poiché l’escamotage dello sguardo fiabesco disincentiva una vera e propria interpretazione sociale della violenza nel film.
Inoltre, ciò che caratterizza Pin cushion rispetto ad altre storie più o meno tragiche di manipolazione in ambito scolastico tipo Schegge di follia è il rapporto tra Iona e sua madre. Le due vivono in un soffocante universo estetico di ninnoli, babacci e canarini, diari segreti e pigiamoni coi gattini da Happy-go-lucky all’ennesima potenza, da bag lady al mercatino delle pulci. In casa cantano e ballano come amichette dell’asilo e si chiamano rispettivamente “Sciocchina uno” e “Sciocchina due”, riecheggiando lontanamente le strambe Big e Little Edie Bouvier raccontate in Grey Gardens. Anche in quella vicenda, si trattava di una madre e una figlia (rispettivamente zia e cugina di Jackie Kennedy) sole al mondo, due eccentriche abbandonate al loro destino e alle mura di una casa un po’ inquietante. Iona e mamma non possiedono altro che la propria tenera e bambinesca complicità. Troppo eccentriche per adattarsi al contesto asfittico della piccola provincia ma anche troppo deboli per addentare l’esistenza, le due sopravvivono trincerate dietro i sogni e le bugie che raccontano a se stesse e si raccontano l’un l’altra, incapaci di dire e di affrontare insieme l’emarginazione di cui soffrono. La madre millanta giornate piene di incontri e nuove amiche e così fa la figlia mentre in realtà sono entrambe alla mercé della crudeltà gratuita della comunità in cui non riescono a integrarsi.
Allo scollamento dalla realtà di queste due vittime fa da contraltare quello delle carnefici, soprattutto della leader del gruppo che perpetra ogni violenza quasi come in un gioco in realtà virtuale. In una scena la ragazza si dice consapevole di essere a propria volta vittima di se stessa e dell’immagine pubblica che si è costruita, ma non per questo si rende capace di una svolta. La regista Deborah Haywood ha portato dentro Pin Cushion un eccesso di materiale che non sempre gestisce agevolmente. Alla cura formale delle scenografie, degli interni e di alcuni dialoghi, non corrisponde uno stesso riguardo nei confronti della scrittura che nel finale si fa precipitosa, senza più delineare in modo chiaro quali siano i contorni di incubo, favola e realtà. [Silvia Nugara]
Come si filma la realtà degli (anzi delle) adolescenti di oggi? Mediandola, trasfigurandola attraverso quegli stessi filtri che social network, tecnologia e marketing mirato impongono alla loro autopercezione e costruzione del sé. È quello che deve essersi detta la regista trentenne Annika Berg nel girare Team Hurricane, racconto corale e semi-documentario di un’estate in un centro di aggregazione giovanile danese. Protagoniste sono ben otto ragazzine, che la regista sceglie di raccontare attraverso una pluralità frastornante di formati e di stili, ricalcando l’estetica eclettica, acida e stucchevole con cui loro stesse si identificano.
Questa adesione totale al loro punto di vista costituisce il merito ma anche il limite dell’esperimento: Berg affida parte del film all’esplicita autonarrazione delle sue protagoniste, ma sembra aver deciso a tavolino di farne delle eroine contemporanee, “ragazze radicali in un mondo mediocre”, come recita la sinossi del film. È proprio questa programmaticità ad appiattirle su ruoli stereotipati (la goth, la timida, l’anoressica, la lesbica, la disinibita e così via), quasi come un agente che componga una girl band. Il microcosmo asfittico del centro ricreativo offre a Berg la cornice ideale per creare una contrapposizione velleitaria con il mondo adulto, mentre il tentativo di restituire la complessità dei singoli personaggi naufraga nella sovrabbondanza di piste da seguire, e quello di indagare la socializzazione ai tempi dei social fallisce in virtù di una “sorellanza” artefatta e imposta dall’esterno.
Come in un gruppo di autocoscienza femminista fuori tempo massimo, le ragazze fanno autocritica, esorcizzando i conflitti iniziali in sedute di ascolto, abbracci e pianti collettivi, a significare una compattezza dettata più da premesse ideologiche condivise (o imbeccate) che non da un autentico incontro tra di loro. Un incontro che resta fuori campo, soffocato dall’eccesso di significazione estetica imposto dal montaggio fatto di videoblog, pedinamenti e instagram stories.
L’apparente frastuono e dilettantismo del progetto ha di spontaneo esclusivamente l’adesione irriflessa a un codice visivo trendy, tanto quanto omologata a un target preciso è la ribellione delle protagoniste. Dietro alla chiassosa estetica post-internet si intravedono a volte le loro esistenze reali (fatte di solitudine, inadeguatezza, malinconia, come quelle di tutti gli adolescenti), ma questi sprazzi di autenticità sembrano, per restare nel lessico prediletto da Berg, nient’altro che un glitch. [Elisa Cuter]
Si possono ancora citare Bataille, Shakespeare e Wagner in un’opera prima? Di fronte alla tendenza attuale verso esordi che ricercano in maniera piuttosto esibita il clamore (basti pensare al caso Raw, ultimo di una serie), Sarah joue un loup-garou di Katharina Wyss fa tirare un sospiro di sollievo, dimostrando che il cinema è ancora una questione di relazione con gli altri e di messa a fuoco di un’eredità culturale. La giovane regista svizzera, che ha proseguito i suoi studi in filosofia e cinema a Parigi e Berlino, parte da una storia esile ma a lei vicina – attinge alla vita di una sua compagna di classe – e sceglie di ambientarla a Berna, paesaggio sospeso tra modernità e natura.
Sarah sta seguendo il penultimo anno di liceo: è una ragazza “perbene”, che si emoziona leggendo Shakespeare e spasima tra i palpiti delle note maestose del Tristano e Isotta di Wagner. Cresciuta in una famiglia borghese e intellettuale (entrambi i genitori si occupano di musica classica), l’adolescente soffre per l’allontanamento del fratello maggiore, che si è trasferito in Germania per iniziare gli studi universitari. Dietro la maschera della cultura alta, si nasconde l’incapacità del nucleo familiare di entrare in dialogo con gli altri, costringendo (anche se in maniera non esibita) Sarah a sentirsi diversa e inadatta al mondo che la circonda.
Dentro al film, girato tutto attorno all’incantevole Loane Balthasar (bellezza preraffaellita, con i suoi lunghi capelli biondi e il suo sguardo talmente trasparente da diventare ottuso), si aggira lo spettro di un grande capolavoro del passato come Mouchette di Robert Bresson, citato nel finale, asciutto quanto implacabile. Ma l’esclusione di Sarah si può leggere in una maniera meno didascalica di quello che sembrerebbe suggerire la vicenda: il suo spirito indomito vive dell’unicità di chi si avvicina con ardore all’espressione del sé in un mondo filtrato dagli schermi e da codici sociali sempre più standardizzati. Usando il teatro (e quindi l’arte) come strumento di ricerca e di elaborazione di una verità lancinante e disperata, che si manifesta assumendo le forme statiche del martirio di Santa Barbara. Lì di fronte a un pubblico di coetanei attonito si consuma la frattura tra l’indicibile e il rappresentabile, in una lezione di regia che vola alto rispetto alle esibizioni stilistiche su cui si appoggiano tante opere prime. Inutile dire che gli strumenti contemporanei, che siano le parole di Bataille o i dettami della nuova pedagogia, si dimostrano incapaci di fornire quel ponte per colmare la sproporzione tra campo e fuoricampo. [Daniela Persico]