Lab80 si è incaricata di distribuire nelle sale italiane l’ultimo tour de force del regista austriaco Ulrich Seidl. Tour de force fisico per lui, che dopo quasi vent’anni di produzione trova l’occasione di allargare lo sguardo fino alla torrida Africa, pur continuando a parlare del proprio paese. Tour de force per lo spettatore, che come ogni volta (e pare ogni volta di più) si appresta allo scandalo visivo di immagini scioccanti, di un’umanità imbestialita e del suo cinismo disincantato.
Safari. Amici, coppie, intere famiglie della middle class austriaca si dedicano al costoso hobby che li accomuna nel cuore della savana. L’escursione in Jeep, l’aggiramento della preda ben giostrato da un drappello di guide autoctone, il colpo esploso dopo la tensione estenuante: quello decisivo. Seidl parte con l’idea di prendere di mira il mondo della caccia e finisce con l’offrirci una meditazione sul concetto dell’uccisione: “Uccidere come atto libidico, senza che nessuno corra un reale pericolo”.
Fatta questa sintetica premessa, viene da porsi alcune domande. In primis sembra interessarci poco il gioco fra “realtà e finzione” che Seidl porta avanti dall’inizio della sua carriera, e che ci ha fatto perdere la testa in una gara a chi ha l’occhio più fino. È difficile che oggi un autore degno di nota non applichi l’algoritmo fiction-realtà. Non si nega certo a Seidl un ruolo di vedetta in questo genere, e gliene siamo grati. Ci interessa forse di più andare a fondo nella matrice estetica (e quindi etica) dell’opera del regista, che mai come in questo film si svela nei suoi punti più deboli.
Quella che Seidl applica si può definire un’iperrealtà macchiettistica. Qualcosa che, paradossalmente, avvicina molto i suoi personaggi a quelli dei fumettisti umoristici più grotteschi (da best of Settimana Enigmistica, per intenderci: una nobile arte popolare, quella di Bort ed Ernesto Cattoni…). Ogni soggetto è inserito con peculiare simmetria (foto-grafica) nel suo ambiente caratteristico, tanto che l’uno finisce per risultare indivisibile dall’altro (tutti i film di Seidl raccontano un luogo ancora prima che un personaggio, come esistono tanti temi diversi per le vignette legate ad un luogo o un ruolo sociale – marito, casalinga, cacciatore, campeggio…). Il rapporto fra scenario (o scenografia) e figura umana alimenta il giusto contrasto che permette al regista di azionare qualsiasi opzione di sviluppo narrativo: dalla ripresa incessante a macchina fissa al colpo di scena improvviso, eccitante. Una volta raccolto tutto il materiale, l’escalation di violenza visiva (e shock, se di shock si può ancora parlare) viene distribuito con costanza inquadratura dopo inquadratura, fino alla fine della proiezione. Quello più infastidisce è forse proprio questo: applicare con tanta lucidità una logica per dare forma alle passioni congestionate dei protagonisti. Per la prima volta, Seidl pare addirittura schierarsi su un fronte di denuncia, sottolineata dalle riprese (un po’ effetto Benetton, verrebbe da provocare) dei poveri uomini neri sempre sottomessi dal grasso turista bianc(hissim)o. In questo modo il suo sguardo perde di consistenza, si distacca totalmente dal mondo in cui ci immerge e si pone in una posizione giudicante.
Questa pratica concettuale sembra coincidere in pieno con la logica partecipativo/immaginativa delle fotografie scattate dai cacciatori nel film: fermi in posa assieme alla carcassa della preda. Una sottile linea facilmente valicabile può de-responsabilizzare e trasformare il lavoro del regista in una pericolosa macchina di immagini vuote ed oscene. Goderecce. Quello che il pubblico (non?) vuole vedere. Quello che non ci meritiamo.
(…durante la proiezione, torna alla mente la giraffa uccisa nella savana che Chris Marker ci mostra in Sans Soleil. Quanta triste poesia. Un po’ ci manca…)