Che cosa significa criticare un film? Significa scrivere, mimare, interpretare. Scrivere, innanzitutto. Cioè concatenare le parole in modo univoco e coerente, così da farsi capire. Scrivere senza farsi capire è un lusso da poeta. Poiché soltanto il poeta può parlare da solo, per sé solo. Nella critica, l’illeggibilità è controrivoluzionaria. L’illeggibilità non è da confondere con la difficoltà. Poiché c’è una difficoltà legittima: quella dei pensieri nuovi, costretti, per dire il nuovo, al neologismo. Ma la scrittura critica che si allontana dalla massima leggibilità senza questo motivo – per eccesso (volontà da esteta di esser capito solo da alcuni) o per difetto (agrammaticalità, salti logici, tutte le forme della confusione) – manca il suo scopo.
Mimare, poi. L’handicap principale della critica cinematografica rispetto alla critica letteraria consiste nel fatto che non può mai citare il suo oggetto. Citare, vuol dire riprodurre tale e quale – cioè in un sistema di segni identico o similare – una parte di un tutto o il tutto stesso. L’avvocato può citare un poeta, il fotografo un quadro; il compositore di musica può citare un canto d’uccello. La critica cinematografica, che scrive, può solo evocare – o, meglio, mimare – il suo oggetto. Mimare è meno che citare, ma più che descrivere. Certo, la descrizione è l’inizio dell’onestà, è l’omaggio primo. Ma un testo che dice un film in parole, piano per piano – foss’anche al livello tuttavia impossibile da esaurire delle forme e delle tinte – può tradirlo, se non ne suggerisce anche il ritmo, la virulenza o la discrezione delle opposizioni di piani, l’intensità dei silenzi o dei rumori, l’udibilità o l’inudibilità delle parole, la profondità o l’appiattimento dell’immagine, la semplicità o il barocchismo delle linee, il clima, l’umidità, l’allegria, lo scialbore dell’insieme, mille cose impossibili a dirsi con una parola e che talvolta possono soltanto essere suggerite da un’inflessione della frase, da una ripetizione di sibilanti o da una virgola propizia.
La critica migliore su Il bandito delle 11, di Godard, nel 1966, fu quella di Michel Cournot in «Le Nouvel Observateur», poiché Cournout, con i suoi nessi strampalati, il surrealismo borisvianesco delle immagini, l’esaltazione fluviale e tuttavia secca di tutto il testo, rendeva meglio di chiunque altro la falsa disinvoltura e la tragicità rilassata del film. E non conosco critica più notevole a un film di questa, di Ron Padgett, consacrata, in «Film Culture» (n. 32, 1964), a Sleep di Warhol:
SONNET/HOMMAGE TO ANDY WARHOL
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Ron Padgett
Nessuna [1], infatti, esprime meglio e più semplicemente il carattere voluttuosamente interminabile di questo film di sei ore e mezza su un uomo che dorme. Nessuna (poiché si tratta di un calligramma) suggerisce meglio il carattere plastico e piatto (senza un mondo nascosto) di questo lungo «ready made» cinematografico. Nessuna ricorda meglio il senso dell’opera warholiana, dai barattoli di minestra Campbell alle foto di Jackie Kennedy: l’omaggio ironico e non curante di un esteta newyorchese alla società della ripetizione.
Si vede come l’handicap della critica cinematografica si muti in vantaggio: impotente a esibire anche solo in parte [2], il suo oggetto tale e quale, può però in un certo modo produrlo di nuovo (ri-produrlo) sotto gli occhi del lettore – non più evidentemente gli occhi della carne, ma l’occhio che vede meglio, dell’intelletto. Allo stesso modo, chi ama Gustave Moreau vede meglio Hérodiade leggendo le descrizioni che ne fa Huysmans, e vi sono molte pagine di Proust che permettono di capire «Vinteuil» o Wagner meglio di un violino o della Filarmonica di Berlino. Alla traccia dell’opera percepita si sovrappone lo spettro più intellegibile dell’opera mimata – cioè interpretata.
Poiché mimare, anche nel modo più «fedele» del mondo, è già interpretare, in senso quasi musicale. Ogni parola è già di per sé una scelta [3]. Non c’è oggettività nemmeno nei nomi dei colori (sappiamo che lo spettro luminoso è diversamente suddiviso a seconda delle lingue). E considerare la meteorite nera di 2001, Odissea nello spazio, di Kubrick, proprio una «meteorite» (e non un essere extra-terrestre, la pietra nera della Mecca, Dio, o qualcos’altro ancora – si vedano le critiche) è azzardato quasi quanto descrivere le astrazioni di Jordan Belson o di Pierre Hébert come «rosoni», «nebulosità» o «globuli» (supponendo che non ci si accontenti del termine pigro di «astrazioni»).
Implicitamente (se si accontenta di mimare l’opera) o esplicitamente (se svela in più gli indici e gli strumenti che l’hanno guidato in questo primo lavoro), il critico mobilita nella sua pratica una serie di informazioni, di intuizioni e di giudizi che ne tradiscono la competenza (o l’incompetenza), l’estetica (o l’assenza di estetica), l’appartenenza di classe, la visione del mondo, ecc. – in breve, che lo situano. Per evitare che questa inevitabile situazione si muti in capricciosa soggettività, il critico può sottomettersi ad alcune esigenze atte a fare della sua interpretazione un’analisi e che consistono nel tener conto dei suoi presupposti teorici (filosofici, politici, estetici), sia chiarendoli nel testo, sia rinviando (esplicitamente o no) a un testo nel quale li ha chiariti; nell’essere coerente, cioè nell’eliminare le contraddizioni teoriche (quella che vi può essere ad esempio tra una concezione dell’ideologia come mistificazione volontaria e una lettura psicoanalitica dell’opera), pratiche (il tipo di lettura scelto per predilezione non deve lasciar da parte come «eccezione» una parte dell’opera) o gli iati tra presupposti teorici e procedimento pratico; nel percepire, infine, il suo oggetto come sineddoche. Sappiamo che uno degli usi più frequenti di questa figura retorica consiste nel considerare la parte per il tutto (dire ad esempio «vela» invece di «nave»). Fare di un’opera una sineddoche, significa, allo stesso modo, percepirla sempre come parte di un tutto, o piuttosto di totalità diverse – significa, nel discorso limitato a cui dà forma, saper sentire discorsi infinitamente più vasti.
Così, un determinato film potrà essere percepito all’inizio come oggetto artistico, segno di intenzioni estetiche. In questo senso, beninteso è un vantaggio per il critico inserirlo nella serie delle opere, cinematografiche o no, dello stesso autore, poi nella serie delle opere cinematografiche vicine per origine o collocazione storica, soprattutto se la vicinanza si muta in affinità profonda e si può parlare di «movimento», «corrente» o «scuola».
Di più: è indispensabile ricollocare ogni film in un contesto artistico o estetico più vasto. Lo sviluppo della pittura o della musica e della loro teoria non è senza conseguenze per il cinema. Si pensi, per esempio, all’importanza della nozione musicale di «ritmo» nei film delle avanguardie degli anni ’20, in Abel Gance o Germaine Dulac, ma anche in Dziga Vertov. Si pensi anche ai rapporti di certi film cosiddetti «strutturali» nell’America del Nord (Michael Snow, Ernie Gehr) con il suprematismo o la minimal art.
In particolare bisogna pensare a una storia dei temi e delle strutture. Ad esempio, L’uomo con la macchina da presa di Vertov (1929) si capisce appieno solo in riferimento al modello della «sinfonia di una grande città» che compare nei primi programmi di Russolo e dei rumoristi futuristi italiani nel 1913, poi, nel cinema, in Rien que les heures di Cavalcanti (1926), Mosca di Mikhail Kaufman (1926) e soprattutto Berlino, sinfonia di una grande città di Carl Mayer e Walter Ruttmann (1927). Ugualmente, le creazioni sintetiche di Vertov presentano analogie (indubbiamente all’insaputa di Vertov, poco importa) con il metodo creativo di un Flaubert o di un Proust quando dichiara a Jacques de Lacretelle, il 20 aprile 1918, sull’esemplare di Dalla parte di Swann che gli dedica: «Non esistono chiavi per i personaggi di questo libro; oppure ce ne sono otto o dieci per uno solo». E ancora, a proposito della chiesa di «Cambrai»: «Il pavimento viene da Saint Pierre-sur-Dive o da Lisieux. Certe vetrate sono sicuramente di Evreux, altre della Sainte-Chapelle e di Pont-Audemer, ecc.».
Ancora un passo ed entriamo nella storia delle forme filmiche: storia che in gran parte resta ancora da fare. Per storia delle forme, intendiamo una storia che metta in rapporto, al di là (o al di qua) dei film o delle correnti cinematografiche particolari (e tuttavia attraverso di essi), le analogie oggettive che vi si possono individuare nella scelta del filmabile, nel modo di filmare o nel trattamento del materiale filmato. Come esiste, per gli estetologi della pittura, una storia e una problematica della prospettiva o una storia e una problematica del colore, perché non dovrebbe esistere, per l’estetologo del cinema, una storia e una problematica dell’animazione di oggetti, del primo piano o della sovraimpressione?
Questa «storia» non potrebbe essere storica nel senso delle attuali storie del cinema: non si tratta assolutamente di fare una cronaca meticolosa dei film, e neppure una storia separata di alcuni film in cui l’invenzione, l’alterazione, la distruzione delle forme sono più esplicitamente o più vistosamente evidenti (è l’oggetto della Storia del cinema sperimentale, ancora molto rara [4]). Si tratterebbe piuttosto, riavvicinandosi con disinvoltura a ciò che è stato separato dal tempo, dallo spazio, o dal mezzo di espressione (ad esempio un manifesto scritto o un film), di ricostruire la genesi e le trasformazioni delle forme ritenute retrospettivamente le più pregnanti. Bisognerebbe notare d’altronde, per inciso, che questa storia esiste già, per quanto riguarda le arti e le lettere, a un livello quanto meno vergognoso, nei capitoli delle monografie consacrate ai «precursori» del tale o talaltro scrittore, pittore o movimento inventore di forma. E per quanto attiene al cinema, una tale storia potrebbe evidentemente partire da un eccellente lavoro estetico come quello di Noël Burch (Praxis du cinéma), dagli articoli di Jean-Louis Comolli su Technique et idéologie [5], o da certe pagine di Christian Metz (sui trucchi, ad esempio, in Essais sur la signification au cinéma, II, o sul montaggio durativo [6]).
Si capisce come questa storia non possa essere che relativa. Relativa, innanzitutto, perché la sua autonomia, come sa, è artificiale e sempre provvisoria: non potrebbe pretendere di recare con sé tutte le proprie cause se non a rischio di attirarsi giustamente il rimprovero di idealismo. Storia nel senso greco di «descrizione» molto più che nell’accezione moderna di scienza esplicativa, può trovare il proprio senso solo al termine di un confronto con la serie parallela delle altre storie (storia politico-sociale, storia delle tecniche, storia delle altre «pratiche significanti» storia degli stili, delle idee, delle retoriche, ecc. – e soprattutto, in quanto in ultima istanza, come sappiamo, determina ogni cosa, storia economica).
Relativa anche perché il lavoro di confronto diacronico è possibile solo a prezzo di incessanti messe a punto sincroniche che non rientrano nel suo campo: non è pensabile ad esempio fare la storia della dissolvenza incrociata (la storia dei suoi mutamenti di senso) e avvicinare Méliès, Gance o un cineasta hollywoodiano, senza determinare i diversi statuti di questo «procedimento-esponente» (come dice Metz [7]) nell’estetica esplicita o implicita di Méliès (= procedimento imitativo del «cambiamento a vista» teatrale), di Gance (= procedimento retorico: avvio di metafora) o di Hollywood (= procedimento diegetico: salto nel tempo).
Relativa infine, e anche soggettiva, nella misura in cui è dal punto di vista di un determinato presente – quello della mutevole modernità – che questa storia può convocare, strutturare e giudicare il passato. Questa soggettività metodologica ha tuttavia il vantaggio di correggerne altre che rischiano di dover essere attribuite solo a fretta e miopia: chi, ad esempio, ha colto nel 1929 l’interesse semantico degli irrigidimenti di immagine o delle inversioni di movimento di L’uomo con la macchina da presa di Vertov? Si doveva probabilmente aspettare la problematica della decostruzione (Brecht, Godard ecc.) e la pratica di certo nuovo cinema newyorchese degli anni ’60 perché il senso di quelle forme fosse meglio valutato [8].
Ogni film può ancora essere collocato, come un punto al centro di cerchi concentrici sempre più larghi, all’interno di una grande area estetica (il barocco, ad esempio, attraverso il quale un film di Max Ophüls comunica con una statua ellenistica, una tela di Andrea Pozzo o un poema di Martial de Brives), di un genere (il western, la commedia musicale), in un «grande tipo di discorso», come dice Barthes [9], infine in una cultura o in una civiltà.
Ma il film può essere affrontato diversamente che come oggetto artistico. Può essere avvicinato come manifestazione di una struttura psicologica (trans) individuale – cioè situata in un individuo ma non propria di questo individuo (es: complesso di Edipo; regressione allo stato orale; feticismo, ecc.) – e soprattutto come manifestazione ideologica [10] – cioè determinata, in parte inconsapevolmente, dalla collocazione di classe del o dei produttore/i (quest’ultima determinata in ultima istanza dallo statuto economico) e dalle condizioni economiche di tale produzione.
Due osservazioni a questo punto per sfumare la sommarietà possibile di tale proposizione: innanzitutto, la dimensione ideologica di un’opera non è riconducibile alle condizioni economiche della sua produzione. Engels: «Il fatto che i giovani talora annettono al lato economico un’importanza maggiore di quella che gli spetta, è in parte colpa di Marx e mia. Di fronte agli avversari, dovevamo sottolineare il principio essenziale da loro negato, e allora non trovavamo sempre il tempo, il luogo, e l’occasione di rendere giustizia agli altri fattori che partecipano all’azione reciproca [dell’ideologia e della base economica l’una sull’altra]» (Lettera a Joseph Bloch, 21 settembre 1890, in K. Marx e F. Engels, Le opere, Roma, Editori Riuniti, p. 1244). L’ideologia ha un’autonomia relativa, che giustifica l’approccio al film come oggetto socio-culturale e il suo inserimento in differenti contesti non-economici omogenei: diacronici, cioè, più o meno, colti nella loro continuità, storica (storia delle tecniche, storia dei costumi, storia delle idee, storia dei generi, ecc.), o sincronici, cioè, per sommi capi, esaminati dal punto di vista del sistema che formano in un dato momento. D’altra parte l’ideologico non è sempre dove si crede di vederlo. È anche di rado evidente. Di qui il fallimento delle critiche che dissociano contenuto e contenente (o forma) per attribuire importanza solo a ciò che è più visibile, cioè al «contenuto». È il caso delle tesi di Zdanov (riprodotte nella rivista «Action poétique», Paris, n. 43, 1970, p. 87 ss.), per il quale la letteratura è il semplice tramite dell’ideologia dominante, mentre quest’ultima riflette direttamente e in bella simmetria lo stato della società: così la letteratura europea «decadente» (Proust, nevvero) o «immoralista» (seguitemi) dell’inizio del XX secolo corrisponderebbe al declino della borghesia. Sfortunatamente, ci accorgiamo oggi che la borghesia non è mai stata così potente come nel momento in cui scrivevano tutti quei «corruttori» che ne tradivano, pare, il declino. Ci rendiamo conto che le nozioni di tramite e di riflesso non sono esenti da problemi – poiché un riflusso è caratterizzato proprio tanto dalla deformazione che infligge a ciò che riflette quanto dall’attitudine ad assomigliargli.
L’ideologico dunque non si presenta in maniera così semplice e non è così facile scovarlo come il tuorlo nell’uovo o l’uovo nel nido. L’ideologico è cancellazione almeno quanto è presenza, e sta tanto nelle strutture o nei «bassifondi» dell’opera quanto nel suo contenuto esplicito e chiaro. Ad un tratto, il critico di cinema, deve cercare in certi tipi di inquadratura o di montaggio, nella predominanza di determinati colori o tipi di scenografie o d’attori, non meno che nelle parole dei suddetti attori e nel soggetto apparente del film [11].
Un’ultima esigenza dovrebbe infine guidare il critico: render conto del suo oggetto in tutte le sue dimensioni, in altre parole ricollocare l’opera particolare in tutti gli insiemi di cui fa o può far parte. A che serve, ad esempio, analizzare il «realismo» di un film, se non se ne sono misurati gli effetti ideologici surrettizi, o il contenuto politico, se se ne trascurano le particolarità estetiche? Già Gramsci notava: «Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello. Esaurire la questione limitandosi a scrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere utile e necessario, anzi lo è certamente, ma in un altro campo: in quello della critica politica, della critica del costume, nella lotta per distruggere e superare certe correnti di sentimenti e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il mondo: non è critica e storia dell’arte, e non può essere presentato come tale, pena il confusionismo e l’arretramento o la stagnazione dei concetti scientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti della lotta culturale» (Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1972, p. 6).
Procedere a una lettura esclusivamente politica di un film – cioè leggere un film come un volantino o un bollettino d’informazione, omettendo di prestare attenzione alla sua natura specifica di opera d’arte, in cui il concatenarsi dei significanti conta almeno quanto i significati – può inoltre condurre a controsensi (e a controsensi politici). Ad esempio, quando il critico italiano Guido Aristarco dichiara nel suo intervento ai primi Rencontres pour un nouveau cinéma, a Montréal, nel 1974 [12], che, in L’uomo con la macchina da presa, Dziga Vertov « aveva dimostrato (…) che a causa degli individui le classi in Unione Sovietica esistevano ancora», compie un’analisi errata, per non aver tenuto conto di determinate particolarità estetiche del film.
Aristarco cita come prova «un montaggio parallelo e di opposizione di piani di donne occupate le une a danzare e a divertirsi, le altre nel lavoro piuttosto duro». Ora, i piani evocati da Aristarco non «si oppongono»: non sono nemmeno montati «in parallelo». Sono anzi molto distanti gli uni dagli altri, poiché quelli che mostrano una donna che lavora alla catena e quelli che presentano diverse donne che fanno ginnastica sono separati da molte decine di minuti. Avvicinandoli abusivamente, Aristarco non commette solo un errore strutturale – che consiste nel dimenticare che la struttura di L’uomo con la macchina da presa, come di Rien que les heures o di Berlino, sinfonia di una grande città, è innanzitutto cronologica, se si presume che il film mostri i diversi momenti di una giornata (sonno, risveglio, lavoro, svago), e che i piani finali non si «oppongono» a quelli centrali, ma sono successivi ad essi, semplicemente – dimentica anche uno dei punti importanti dell’estetica vertoviana: a imitazione del Dott. Frankenstein, Vertov-il-Kinok vuole essere un «costruttore» [13]: i luoghi, le azioni, i personaggi che presenta sono sintetici, costruiti con elementi di origine diversa: «Io sono il Cineocchio. Io creo un uomo più perfetto di Adamo (…). Io prendo da uno le mani più forti e agili, da un altro le gambe più snelle e veloci, da un terzo la testa più bella ed espressiva, e con il montaggio, creo un uomo nuovo, perfetto» (p.40). «Altro esempio: si interrano le bare degli eroi nazionali (girato ad Astrakan nel 1918), si riempie di terra una fossa (Kronstadt 1921), una salva di artiglieria (Pietrogrado 1920), omaggio alla memoria, ci si toglie il berretto (Mosca 1922): tutte cose che si combinano tra loro perfino quando si abbia a che fare con un materiale sfavorevole (…).» (p. 39).
Ora, questa concezione del montaggio-creatore, che Vertov desume dalla pratica del montaggio dei Kinonedelis verso il 1919-21 (è perciò come fa notare Sadoul, l’inventore del film di montaggio di attualità), ci permette di capire come, in L’uomo con la macchina da presa, la donna che lavora e la donna che balla siano, con voli differenti, la stessa donna, semplicemente mostrata in due momenti della giornata. E lungi dall’opporre due classi (che gli capita di contrapporre altrove, certamente, ad esempio in La sesta parte del mondo, ma che sarebbe paradossale mostrare così tranquillamente coesistenti, come se la Rivoluzione non avesse avuto luogo, in questo Inno alla città [e alla Vita] Socialista che è L’uomo con la macchina da presa), Vertov ci suggerisce al contrario che, nella nuova società, se c’è un tempo per il lavoro, c’è anche un tempo per lo svago, e che un’operaia alla catena, in particolare, può essere anche ginnasta o ballerina.
Si capisce che al limite, l’interpretazione è nulla senza analisi strutturale. «Criticare, è analizzare». Vuol dire smontare le totalità negli elementi che le compongono, non (o non solo) per enumerarli o classificarli, non (o non solo) per mettere in evidenza tratti pertinenti o ossessivi (spesso più rivelatori dell’ossessione del critico che dell’autore), ma 1. tenendo scrupolosamente conto del posto degli elementi nella struttura (analisi macro-strutturale) e 2. interrogandosi almeno in ugual misura sui legami tra elementi (analisi micro-strutturale).
Ritroviamo in quest’ultimo punto, la teoria, capitale nell’estetica vertoviana, degli intervalli:
«La scuola del Kinoglaz esige che il cineoggetto si fondi sugli intervalli, cioè sul movimento tra le inquadrature. Sulla correlazione visiva delle inquadrature. Sui passaggi da uno stimolo visivo all’altro.
«Spostamento tra le inquadrature (intervallo visivo, correlazione visiva di inquadrature) è (per il Kinoglaz) una grandezza complessa, risultante dalla somma delle differenti correlazioni, di cui le principali sono:
« 1. Correlazione dei piani (primi piani, campi lunghi, ecc.)
« 2. Correlazione di scorci.
« 3. Correlazioni di movimenti all’interno delle inquadrature.
« 4. Correlazione di chiaro e scuro.
« 5. Correlazione di diverse velocità di ripresa» (p. 141) ».
C’è qui un vero e proprio programma di lettura, prezioso in particolare per rendere conto di un film come L’uomo con la macchina da presa, la cui progressione è regolata dalle leggi di associazione o di contrasto delle forme, dei movimenti o delle inquadrature almeno tanto quanto lo è dal senso.
Quello che cerca Vertov – e tanti altri cineasti , anche se con meno rigore di lui – è «un ordine ritmico in cui tutte le connessioni di senso coincidono con i nessi visivi» (p.130) (il che permette di capire che questi ultimi sono determinanti).
Per riassumere in modo del tutto provvisorio, diciamo dunque che «CRITICARE UN FILM ATTRAVERSO LA SCRITTURA (E, AL BISOGNO, LO SCHEMA O IL DISEGNO), È DARE UN’IDEA GIUSTA E IL PIÙ POSSIBILE COMPLETA DEL FILM STESSO CONSIDERATO NELLO STESSO TEMPO COME CONCATENAMENTO DI ELEMENTI, COME TUTTO E COME PARTE DI TONALITÀ PIÙ VASTE: È DUNQUE ANDARE PERPETUAMENTE DAL SEMPLICE AL COMPLESSO, DAL PLURALE AL SINGOLARE, E VICEVERSA».
NOTE
[1] Tranne forse quella di Joe Brainard, nello stesso numero:
I like Sleep. I like Sleep.
I like Sleep. I like Sleep. (Per trenta righe).
[2] Contrariamente a ciò che pensano i critici che ritengono da decenni che si dia un’immagine giusta di un film quando lo si è «raccontato», cioè trattato come un romanzo, cosa che non è vera. Si «racconta» forse un quadro? Bisognerebbe cominciare a rendersi conto che la critica del cinema ha almeno altrettanto a che vedere con la critica pittorica che con la critica letteraria. C’è tra i film e l’«immagine» che ne danno i critici-narratori una somiglianza ancora minore che tra un corpo in carne ed ossa e ciò che di esso rivela una radiografia ai raggi X.
[3] Si veda a questo proposito l’importante articolo di Christian Metz, Le perçu et le nommé, in Vers une esthétique sans entraverse, Mélanges Mikel Dufrenne, Paris, 10-18, 1975, pp. 354-377.
[4] In particolare quelle di David Curtis (Experimental Cinema. A Fifty-Year Evolution, London, Studio Vista Ltd, and New York, Universe, Books, 1971) e di Jean Mitry (Le cinéma expérimental. Histoire et perspectives, Paris, Seghers, coll. «Cinema 2000», 1970. Trad. it. Il cinema sperimentale, Milano, Mazzotta, 1971).
[5] In «Cahiers du cinéma» n. 229 (maggio 1971), n. 231 (agosto-settembre 1971), n. 233 (nov. 1971), n. 234-235 (dic. ’71, genn-febbr. 1972) e n. 241 (sett.-ott. 1972). Editore di Burch: Gallimard, coll. «Le chemin», Paris, 1969. Editore di Metz: Klincksieck, Paris, 1973. Trad. it. La significazione del cinema, Milano, Bompiani, 1975.
[6] Trucchi e cinema, in La significazione del cinema, cit, pp. 269-293. L’étude semiologique du langage cinématographique: à quelle distance en sommes-nous d’une possibilité réelle de formalisation?. In Cinéma: théorie, lectures, numero speciale della «Revue d’Esthétique», Paris, Klincksieck, 1973, pp. 138-141.
[7] La significazione nel cinema, cit., p. 272.
[8] Si veda ad esempio: Annette Michelson, L’homme à la caméra. De la magie à l’epistémologie, in Cinéma: théorie, lectures, op. cit., pp. 295-310.
[9] Roland Barthes, Introduction à l’analyse structurale des récits, in «Communication» n. 8 (Paris, Seuil, 1966, p. 4): «metonimico (racconto), metaforico (poesia lirica, discorso sapienziale), entimematico…».
[10] Nel senso marxista più corrente (cfr, L’ideologia tedesca), l’ideologia si definisce come una delle tre istanze (o luoghi, o gradi) della struttura sociale, essendo le altre due la base economica, determinante, e l’istanza politica. L’ideologico, invece, sarebbe, nella sfera dell’ideologia – e, più esattamente delle produzioni culturali di una società – l’insieme delle tracce, più o meno consapevoli, più o meno in ombra, delle determinazioni di classe.
[11] Il che probabilmente non va del tutto nel senso di una dichiarazione come quella che diversi critici americani, quebechesi, francesi, italiani ecc, hanno un po’ frettolosamente firmato in occasione dei Rencontres pour un nouveau cinéma a Montréal, nel giugno 1974 (si veda più avanti, p.?).
[12] Pour un retour à Marx dans le cinéma d’aujourd’hui, in «Cahiers édités par les Rencontres», Montréal, Comité d’Action Cinématographique, 1975, vol. III, p. 20.
[13] D. Vertov, L’occhio della rivoluzione, Milano, Mazzotta, 1975, p.40.
(pubblicato originariamente in Il cinema diversamente [Cappelli, 1979]; con il contributo di Brigitta Loconte)