Tabu di Miguel Gomes è un dittico che racconta il presente per farne poi l’archeologia. Nella prima parte, situata a Lisbona, Pilar, una donna sola e austera ma buona samaritana, si preoccupa per la sua vecchia vicina di casa. Aurora, che ha il carisma aristocratico delle donne eccentriche e delle star del cinema classico, si crede prigioniera della sua cameriera nera, Santa. Sul punto di morire, Aurora richiama la presenza di un misterioso Gian Luca Ventura. È lui che racconterà a Pilar e a Santa la sua relazione adultera appassionata con Aurora in un’Africa coloniale sull’orlo della rivolta. Questa storia – seconda parte del film – si svolge sotto il monte Tabu.
Prologo. Tutto comincia in un cinema. Pilar sta guardando un melodramma in bianco e nero. Lei è una spettatrice, ma è anche quella che poi ascolterà la confessione di Ventura. Pilar, personaggio centrale della prima parte, scompare nella seconda – rimanendo però quale testimone invisibile. Questo dispositivo fa sì che lo spettatore è anche lui un testimone. Si tratta allora di sapere che cosa potrà vedere. Di sapere come la realtà diventa racconto e come il mondo diventa immagine.
In Tabu, tutto è doppio, i contrari coesistono. Ciò che è mostrato esiste mediante ciò che è nascosto, il presente mediante il passato, la realtà mediante l’immaginario, e viceversa. Iniziamo dunque col passato. La seconda parte, dedicata al Paradiso che il presente avrà perduto, mette in scena una storia d’“amour fou”, il tipo di passione che si vive una volta sola, e forse soltanto al cinema. Girato in bianco e nero, come il resto del film, questo Paradiso appare sotto i tratti di ciò che, al cinema, ricorda un’età dell’oro perduta: il cinema muto. Sonoro ma non parlante, questo secondo momento del film conserva i codici del muto, cioè l’espressività dei visi e dei corpi. La bellezza delle immagini e dei visi è impressionante. La sensualità con cui la passione è resa viva – la sensualità delle immagini stesse – ci afferra. In una scena memorabile, priva di parole e sostenuta soltanto dal gioco degli sguardi e dall’espressione dei visi, avviene un colpo di fulmine fra Aurora e Gian Luca. Più che un semplice evento narrativo, questa scena riattiva la forza primitiva del cinema e la straordinaria potenza delle immagini. Gomes mette in moto un immaginario cinematografico, una mitologia moderna, e invoca il desiderio di vedere e di rivedere. Di vedere l’amore al cinema, e di rivedere delle immagini che ogni cinefilo conserva nella sua memoria. E così questa parte di Tabu, nel suo contenuto narrativo così come nell’immaginario che risveglia, è immediatamente nostalgica, oggetto di una nostalgia suscitata da un presente – quello della prima parte – che odora di morte.
Ma di cosa c’è nostalgia? Alla forza del colpo di fulmine risponde una violenza simbolica di grande intensità. Quando Aurora licenzia il suo cuoco nero, la partenza di costui è vista attraverso un vetro, dal comfort del suo interiore borghese insensibile a ciò che succede intorno, alle rivolte sul punto di esplodere, e che nessuno vede. L’oppressione è dappertutto. Aurora, avventuriera che non sa fare niente da sola, è seguita in un modo quasi comico dai suoi domestici, che portano l’ombrello o aprono un sentiero di caccia. I due amanti vivono soltanto la violenza della loro passione e non vogliono vedere quella di cui sono gli attori. Come se l’amore desse veramente il diritto di rimanere ciechi. E noi, che cosa vogliamo credere, che cosa vogliamo vedere? La piccola o la grande storia, gli amanti o i bastardi? Ma abbiamo il dovere di scegliere?
A due riprese, lo sguardo in macchina interroga. Mentre la voce di Gian Luca racconta che la rivolta non era ancora arrivata fino a loro, le immagini ricordano i film etnografici e mostrano degli indigeni con lo sguardo in macchina. I loro visi sono calmi ma chiusi, i loro sguardi impassibili resistono: una calma muta che precede l’esplosione oppure la calma della buona armonia? Le immagini e la voce del racconto entrano in collisione. Più avanti, mentre i due amanti sono in fuga, dopo una corsa attraverso i campi, si fermano e si girano verso la macchina. Ancora una volta, questa immagine ne suscita altre, immagini di flagrante delitto e di crimine sorpreso. Questo sguardo in macchina è un altro elemento di distanza che si aggiunge al comico e allo stravagante sempre ben presenti nel cinema di Gomes. Ed è anche una nuova domanda: chi è lo spettatore che produce queste immagini perché ha voglia di vederle? L’aver scelto una seconda parte muta è ancora più significativo. Come se avessimo proiettato su queste immagini ciò che avremmo voluto sentire in loro.
Ecco che passato e presente si illuminano mutualmente. Per esistere, il passato ha bisogno del presente della prima parte. Senza di lui, il passato non sarebbe tale e la nostalgia che questo passato suscita non potrebbe essere interrogata. Reciprocamente, questo presente è pieno del passato. Qual è questo presente? Pilar è la sua protagonista, ma cosa ne vede? Ne vede più di quanto Aurora ha voluto vedere del suo? Pilar partecipa a una manifestazione che sembra una parodia, legge articoli on line sulla crisi economica, si preoccupa per la sua vicina di casa. Aurora, che forse sente venire il tempo della confessione, le ripete che ha le mani sporche di sangue. Pilar la sente? È cieca al razzismo di Aurora nei confronti della cameriera nera? Santa, un altro personaggio del presente, funziona come un riflesso inverso di Pilar. Presenza muta e magica, non mostra empatia, non cerca di farsi amare, e porta con lei tutto l’immaginario del personaggio malefico. Nei suoi momenti liberi, legge Robinson Crusoe, un altro personaggio doppio. Figura dell’avventura e della libertà, Robinson arriva su una isola così detta deserta soltanto perché non ci sono bianchi. Chi sa cosa ne pensa Santa di questo Robinson che educa un selvaggio. Santa potrebbe essere un personaggio secondario perché fa parte di quelli che, nascosti, fabbricano il mondo che altri possono vivere e godersi. Santa potrebbe non essere vista. Tocca a noi fare una scelta, perché nel cinema è anche chi guarda che costruisce un personaggio e decide chi merita di diventarlo. Qui, come nel resto del film, c’è una dimensione politica nella scelta di vedere o di non vedere.
Allora, cosa vediamo del mondo? Una immagine ne contiene sempre altre. Le immagini di Gomes si costruiscono nella profondità, mediante un gioco di tende che velano e svelano. Mentre vediamo alberi dalla finestra di Aurora in Africa, il loro fogliame cade e appare allora l’uomo nero che, nascosto, tagliava i rami. Era già qua, davanti a noi, ma non lo vedevamo. In una singola inquadratura, la potenza e l’impotenza delle immagini. Esse nascondono per fare vedere, cieche al reale mentre lo mostrano. È necessaria la distanza dal reale per fare emergere l’immagine. Sonoro muto, immagine cieca. Ogni immagine è un tabù.