L’ossessione erotica non può che essere unilaterale, non corrisposta, altrimenti si entra in un altro dominio, quello della relazione. L’oggetto dell’ossessione non è che una proiezione, un fantasma del soggetto desiderante, un oggetto che non può per definizione diventare soggetto. A fronte di tante narrazioni in cui uomini sono soggiogati dalla propria passione erotica, Lolita è forse la più esemplare, proprio in virtù della sproporzione radicale, dell’asimmetria che porta in scena. Questo perché mette esplicitamente in chiaro che Humbert Humbert non è schiavo di Dolores Haze (che potrebbe essere chiunque corrisponda al feticcio necessario a Humbert per scatenare il proprio desiderio: nel suo caso, la ninfetta), bensì del proprio desiderio. Il romanzo di Nabokov non potrebbe avere la stessa forza se potesse permanere il dubbio dell’agency, della complicità della sua vittima, del mutuo scambio, una complicità scongiurata dall’età della controparte femminile – questo, almeno, nelle intenzioni dell’autore russo, come spiega bene Graham Vickers in Chasing Lolita. How Popular Culture Corrupted Nabokov’s Little Girl All Over Again, in cui l’autore offre una disamina lucidissima dello sfruttamento sistematico e sistemico del sex appeal dell’adolescente femmina nella cultura consumistica statunitense, sfruttamento massiccio che iniziava a svilupparsi proprio negli anni in cui Nabokov ambienta la sua storia.
Viceversa, dalla sirenetta di Andersen all’Adele H. di Truffaut, fino al recente madre! di Aronofsky, le storie di ossessione amorosa “al femminile” si basano sul masochismo e l’abnegazione assoluta del soggetto desiderante femmina: donne che per amore si annullano, si martirizzano, rinunciano ben volentieri al loro status di soggetto per diventare oggetto del proprio stesso sacrificio in nome dell’amato. Del resto è così che funzionano le dinamiche della violenza domestica e del femminicidio secondo i media: donne che “amano troppo” sopportano anni di abusi senza denunciare, mentre uomini che, a loro volta, “amano troppo” uccidono la partner quando sentono di aver perso il dominio su di lei, incapaci di affrontare una separazione. A parità di “troppo amore”, insomma, la narrazione culturale dominante ci ripete: gli uomini ammazzano, e le donne si fanno ammazzare. Sadismo e masochismo: i due poli che stando a questa visione sarebbero intrinsechi all’incastro eterosessuale. Si tratta di un’ideologia molto insidiosa, anche perché comprovata dall’utilizzo dello stupro come mezzo di sopraffazione trasversale a numerose culture e circostanze storiche, molto complessa da decostruire anche perché basata, si pensa, su differenze biologiche di cui sono convinte anche frange femministe che affermano che il rapporto penetrativo (PIV, penis-in-vagina) sia automaticamente stupro.
Coerentemente con un contesto storico in cui la donna è diventata (o meglio sta diventando) a tutti gli effetti soggetto nella sfera pubblica, assistiamo sempre più spesso a narrazioni che mettono in dubbio questa ideologia. Una di queste è I Love Dick, serie breve prodotta da Amazon e creata da Jill Soloway, già nota per la saga familiare Transparent in cui l’autrice ha ampiamente dimostrato la sua sensibilità e la sua competenza teorica in fatto di gender studies e queer theory. I Love Dick prende le mosse dall’omonimo romanzo di Chris Kraus pubblicato inizialmente ben vent’anni fa che però, come nota tra gli altri Livia Manera sul Corriere, sta vivendo una riscoperta massiccia in virtù del clima generalizzato di interesse per le tematiche femministe di questi ultimi anni. Il romanzo di Kraus era una sorta di “docufiction” letteraria, in cui l’autrice esplorava un’esperienza realmente accaduta: l’incontro con Dick Hedgbie, tra i fondatori dei cultural studies britannici, tramite il marito Sylvère Lotringer, editore di Semiotext(e), casa editrice che portò a conoscenza del pubblico americano i poststrutturalisti francesi. L’infatuazione che Kraus sviluppa istantaneamente per “Dick” mette in crisi il suo matrimonio ma soprattutto se stessa, la sua condizione di “plus one” nella società, il suo fallimento come artista e regista, il proprio desiderio insoddisfatto e frustrato, fino a portarla a comprendere la necessità di emanciparsi e prendere in mano la sua vita.
Pur modificando l’impostazione del testo originale, tagliando molte parti per costituire un’orizzonte narrativo concluso soprattutto in termini spazio-temporali (la cornice è offerta da Marfa, in Texas, in un contesto in cui la comunità artistica e accademica è fortemente permeata dal tessuto sociale locale preesistente) e aggiungendo nuovi personaggi (vedremo alla fine perché), tutti questi elementi sono presenti nella serie di Soloway, che si concentra però soprattutto sull’elemento dell’ossessione erotica come strumento di scoperta e costruzione del sé. Un elemento fondamentale soprattutto per l’inconsueto ribaltamento dei ruoli di genere. Apparentemente, utilizzando un’equazione molto schematica, si potrebbe dire che I Love Dick sta alle donne come Lolita sta agli uomini. La protagonista Chris (interpretata da un’ottima Kathryn Hahn) è a tutti gli effetti una stalker, una persecutrice dell’oggetto desiderato. La storia del cinema è piena di “donne cattive”, ma quando questo accade la donna solitamente usa il suo corpo come uno strumento, si oggettifica a sua volta, il suo desiderio è quello di sfruttare il proprio corpo per ottenere dei benefici sociali o economici, non di soddisfare il suo appetito sessuale. Chris invece non ha niente da guadagnare, semmai da perdere, in termini di dignità e prestigio sociale, nel suo processo di sessualizzazione. Anzi, il suo desiderio diventa un modo per scivolare nell’abiezione. È il coronamento di un fil rouge storico che sulla scia delle donne martiri citate all’inizio passa dalla vulnerabilità cute (come osservava Angela MacRobbie in The Aftermaths of Feminism) di una Bridget Jones o della Jesse di Zooey Deschanel in New Girl, e arriva fino all’autoridicolizzazione messa in atto dalla nuova ondata di comiche donne, in cui l’espressione del desiderio femminile, proprio come accadeva nei personaggi di Mae West, diventa un espediente esilarante se non grottesco (dalla Hannah Horvath di Lena Dunham in Girls, a Broad City, a Amy Schumer, a Fleabag e a Chewingum – per spostarci in ambito anglosassone). Come tutte loro, Chris non ha paura di diventare patetica, di tirare fuori la sua abiezione crogiolandosi nel disagio e nella repulsione che provoca nell’oggetto desiderato.
Se è vero che c’è qualcosa di intrinsecamente “femminile” (inteso come concetto storico e non essenzialistico) in questo compiacimento, o, per meglio dire, in questo investimento erotico nel rifiuto, nella protagonista di I Love Dick c’è anche l’avvicinarsi a tutta una serie di personaggi maschili erotomani ma impotenti di cui è costellato lo storytelling moderno e postmoderno. Più Alexander Portnoy che Madama Butterfly, Chris scopre una scorciatoia comune a tanti autori maschi per mantenere una forma di dominio e controllo anche nella perdita di sé rappresentata dall’ossessione erotica. Nell’idealizzazione del suo oggetto inaccessibile, Chris trova la fonte a cui abbeverare il suo ego ferito dall’insuccesso professionale, la forza per uscire da un matrimonio castrante e soprattutto trova una storia, una narrazione, trova, cioè, un modo per esprimersi. È il rapporto tra autore e musa, per una volta a generi invertiti. Il suo processo di soggettivazione passa attraverso l’oggettivazione feticistica dell’altro. In una delle tante lettere che scrive a Dick e con cui a un certo punto tappezza letteralmente la cittadina esponendosi al pubblico ludibrio e mettendo a nudo i suoi desideri in un gesto di rivalsa (ancora una volta autolesionista), afferma “I don’t care if you want me. It’s enough that I want you”. È una dichiarazione che in bocca a una donna suona liberatoria, ma che pronunciata da un uomo suonerebbe sinistra e minacciosa.
Dovremmo plaudire all’avvento della donna impotente come segno di una raggiunta parità tra i sessi, come fa Maxine Swann sulle pagine del Guardian, sostenendo che la libertà delle donne include la loro capacità di “march boldly into self-abasement, or for that matter, to jack off into a bowl of potato chips” [addentrarsi coraggiosamente nell’umiliazione o anche, se è per questo, masturbarsi strafogandosi di patatine fritte] e che questa libertà viene finalmente riconosciuta nelle narrazioni contemporanee, o viceversa stabilire che il male gaze, lo sguardo oggettificante sull’altro solitamente ascritto agli uomini, è intrinsecamente violento, indipendentemente dal fatto che sia esercitato da un uomo o da una donna? Come ha osservato Lauren Oyler su Broadly (ma anche Bridget Read su Vogue), l’ossessione erotica puramente narcisistica di Chris per Dick è perfettamente in linea con la più recente retorica femminista, in cui, da strumento di riappropriazione critica della sfera del privato a cui la donna era sempre stata condannata (la “stanza tutta per sè” di woolfiana memoria, potremmo dire), è andata a innestarsi in un contesto generale in cui il self-management individuale viene imposto a uomini e donne indiscriminatamente da un mercato che necessita di soggetti sempre più capaci di vendersi, in una pratica di soggettivazione che passa attraverso la pubblicità, l’abbellimento sistematico e la mercificazione della propria individualità fatta di gusti, competenze e desideri. In cui il narcisismo, visto precedentemente come tipicamente femminile, è diventato comune a tutte le categorie (incluse naturalmente quelle non banalmente binarie, vale a dire i soggetti LGBTQI etc.), e sembra aver perso ogni possibilità emancipativa.
Per converso, sull’Independent, Chantal da Silva ha criticato la scelta di fare interpretare a Kevin Bacon il ruolo di Dick: dare un volto a Dick, e soprattutto dargli quello di un sex symbol, metterebbe nuovamente in ombra lo status di demiurgo del proprio desiderio di Chris, come se la sua ossessione fosse “giustificata”, o emanata, generata, dall’oggetto del suo desiderio: l’uomo (che non deve chiedere mai, si potrebbe aggiungere). Il Dick di Soloway, che nel romanzo è praticamente inesistente (proprio come Dolores Haze nel romanzo di Nabokov, per proseguire nel nostro parallelismo), acquisisce invece dei connotati precisi. Diventa appunto un uomo piacente, ma anche connotato dal suo maschilismo ipertrofico e un po’ patetico. Anche la sua professione è riveduta e corretta: da antropologo ad artista di land art, una delle forme artistiche che più chiaramente esplicitano la volontà fallica di improntare la natura secondo la propria visione impositiva. La scelta di casting di Soloway è ben consapevole: era necessario da un lato offrire un’eye candy, in modo da costringere lo spettatore a desiderare con Chris il maschio come oggetto di attrazione erotica, e dall’altro acuirne gli aspetti più idiosincratici. Renderlo un personaggio deprecabile, ma desiderabile. È questa in fondo la storia del cinema secondo la feminist film theory classica: un tentativo di generare il desiderio a partire dal disprezzo, dalla soggiogazione, dalla riduzione a oggetto sessuale, e non dalla stima o dal reciproco riconoscimento tra soggettività. Se, come osserva Emily Gould, il romanzo di Kraus ha il grande merito di far capire che le “women who love men are going to have to come to terms with their complicity in their own repression and subjugation” [le donne che amano gli uomini devono fare i conti con la loro complicità nella propria repressione e oppressione], questo avviene nella serie di Soloway chiarendo la fascinazione del soggetto oppresso per il potere su due piani. Su quello dell’attrazione esercitata su Chris da Dick inteso come modello della virilità patriarcale, e su quello più radicale che mette la donna (e la spettatrice) nella posizione che storicamente è spettata allo spettatore maschio, dimostrando che cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Ma la serie ideata da Soloway, e girata in molti episodi da Andrea Arnold, fa un passo ulteriore rispetto al semplice ribaltamento di genere. Una scena del sesto episodio è particolarmente indicativa. Finalmente, dopo settimane di stalking (e dopo aver pattuito con Sylvère l’incontro, di fatto contrattando la persona di Chris come un oggetto di scambio tra maschi), Dick si presenta a casa di Chris, con la chiara intenzione di concedersi a lei. Eppure, Chris non è in grado di cantare semplicemente vittoria e approfittarsi della situazione. È incredula e grata, ma nervosa: si precipita goffamente a indossare biancheria sexy e poi gli domanda “what do you want me to do?” [cosa vuoi che faccia?]. Quando Dick le risponde “quello che vuoi”, la sua delusione è come un brusco risveglio. Non è che un anticipo di quello che accadrà nel finale, quando prima di consumare quella che sembra una raggiunta complicità tra i due, Dick rimane disgustato dal suo ciclo mestruale e va a lavarsi. Per Chris questa è la conferma definitiva del fatto che tutto si era svolto davvero nella sua testa. Il suo idolo crolla definitivamente, il disprezzo per la virilità caricaturale ma in fondo ipocrita e vulnerabile di Dick ha la meglio sul suo desiderio. Chris getta la spugna, semplicemente si arrende e se ne va. Non c’è trionfo nell’accorgersi che il suo desiderio veniva da sé e non da Dick: solo la conferma della propria solitudine. Chris non sa, e non vuole, desiderare chi non la corrisponde. Necessità e volontà vengono a coincidere, e questo è il momento della sua liberazione: una liberazione non trionfale, ma disorientata, amara. Essere oggetti era stare in gabbia, ma diventare soggetti desideranti (nell’accezione gerarchica che conserva la nostra concettualità patriarcale) non è bastato. Quella di Chris che vaga nel deserto con un rivolo di sangue mestruale che le cola tra le gambe è forse una delle immagini che meglio racchiudono la situazione del rapporto tra i sessi oggi. Lo status di soggetto che prima spettava agli uomini non è più solo maschile, così come il diventare oggetto non riguarda più solo le donne, ma non per questo sembra offrire una soluzione (“il narcisismo consiste nell’alienarsi nel proprio io” diceva Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso). Il matrimonio di Chris è fallito, ma anche la sua antitesi, Dick, è venuta a mancare, e noi, come Chris, ci troviamo in un interregno, in cui, con l’ancien règime del patriarcato sempre più in crisi ma in cui, viceversa, la nuova parità sopraggiunta sembra assomigliare, più che a una conquista, al diffondersi trasversale del paradigma del dominio, non sappiamo cosa aspettarci né dove dirigerci.
I confini tra lo status di soggetto e quello di oggetto, così come quelli tra sussunzione e resistenza sono oggi storicamente più labili che mai. L’abnegazione tipica delle donne non è così selfless come siamo stati portati a credere, sembra piuttosto una strategia adattativa, una sindrome di Stoccolma che ha consentito alle donne di godere anche in un sistema che negava il diritto al loro desiderio, tanto quanto lo sguardo oggettivante del maschio si rivela in ultima analisi impotente, incapace di generare la reciprocità del desiderio che consente di superare la frustrazione e la violenza che ne consegue. In questo senso la trasposizione audiovisiva del romanzo di Kraus operata da Soloway diventa quasi una forma di risposta agli interrogativi che si poneva Kraus nel suo libro. In una delle ultime scene della serie, Devon, artista gender-fluid di origini messicane, organizza una performance in cui coinvolge i maschi della comunità locale in una “danza della bellezza”. Gli uomini ballano, capitanati dalla donna più mascolina del gruppo, di fronte alle donne che a un certo punto li raggiungono. Una scena collettiva, in cui i ruoli di genere sono messi in discussione intersoggettivamente. È attraverso l’arte, così come è attraverso il cinema, che siamo costretti a confrontarci con la porosità e alla fluidità dei generi sessuali, attraverso la singolarità delle situazioni che mettono in rapporto individualità che altre forme espressive tendono a categorizzare e lasciare irrelate. Se davvero la storia del cinema, come dicevamo prima, è stata la storia dell’oggettificazione femminile, questo è accaduto per volontà (condivisa ma) deliberata, e non per la natura intrinseca del dispositivo, che invece ha la capacità di farci entrare nelle individualità di ciascuno e mostrandone l’interdipendenza scompaginare le dinamiche gerarchiche che invece permeano la nostra società.
Torniamo per un istante a Lolita. Forse non è stato un caso se i tentativi di portare sullo schermo il romanzo di Nabokov sono stati pochi, nonostante il suo successo planetario, e anche i due film di Kubrick e Lyne si siano mostrati, pur con i loro rispettivi meriti, incapaci di cogliere il punto dell’ossessione, cioè il suo solipsismo. Perché come è possibile rendere sullo schermo un’ossessione, questa psicosi (cronica o momentanea), senza dare un volto e un corpo alla controparte, senza correre il rischio di inscenare un rapporto, invece di un delirio? Per questo Soloway popola la già affollata “camera da letto” in cui si svolge il triangolo tra Chris, Sylvère e Dick anche di tutta una serie di altri personaggi non presenti nel testo originale. Toby, studiosa di pornografia e attivista; Paula, curatrice dell’istituto d’arte di Dick; e la sopracitata Devon. A loro dedica un intero episodio in cui, sotto forma di lettera a Dick, ognuna racconta la propria storia individuale e soprattutto sessuale, che non prescinde né dal feticismo intrinseco in ogni desiderio, né dall’opportunità di soggettivarsi attraverso l’oggettivazione. Tutti questi personaggi non sono accessori, né aggiunte: sono fondamentali per comprendere come il desiderio della protagonista e dei suoi comprimari si sviluppino a partire dall’interno di una rete di condizionamenti, relazioni e interessi che cooperano o confliggono. È il segnavia che emerge da questo racconto collettivo, fatto di individualità che non potrebbero esistere se non in relazione reciproca.