Da secoli ogni otto settembre, in cima al Monte delle Formiche, a pochi chilometri da Bologna, si verifica un evento singolare. Sciami di formiche alate si accoppiano nel cielo della Val di Zena, e quindi i maschi cadono a terra senza vita, sul sagrato di una chiesa che commemora quel fenomeno naturale che lega il compleanno della Vergine al destino di migliaia di insetti. Traendo spunto dai testi di chi sulle formiche ha scritto a lungo, come il Premio Nobel Maurice Meaterlinck e l’entomologo Carlo Emery, Riccardo Palladino – già autore di Brasimone (presentato tre anni fa a Vision du Réel) – firma il suo esordio al lungometraggio con Il Monte delle Formiche, un film che fa degli insetti un punto di partenza per interrogarsi sul nostro rapporto con la collettività, il sacro e la morte. Sospeso tra il fascino enigmatico del cinema di Franco Piavoli e lo straniamento di movimenti di mdp volti a sottolineare una tensione panica insita nel paesaggio, il documentario fa leva sulla grana delle immagini in pellicola per instaurare una nuova posizione spettatoriale, sospesa tra memoria e contemporaneità.
Il Monte delle Formiche è stato presentato alla 70° edizione di Locarno Festival nella sezione Cineasti del Presente, unico esordio italiano a scegliere la via del documentario, a fianco di Easy di Andrea Magnani e di Gli asteroidi di Germano Maccioni (nel concorso principale). A festival concluso, il regista ha parlato del suo lavoro con Filmidee.
Filmidee: In uno degli estratti che vengono letti ne Il Monte delle Formiche si dice: “la natura non conosce passato né futuro… il presente è la sua eternità… e io esalto tutte le sue opere.” La natura nel tuo film è un personaggio a sé, forse in un certo senso addirittura il protagonista. Come spieghi questa fascinazione, e che cosa ti ha spinto a filmare questo evento così singolare?
Riccardo Palladino: Stavo terminando le riprese del mio documentario precedente, Brasimone. I luoghi di ripresa distano cinquanta chilometri in linea d’aria dal Monte delle Formiche, e quando sono venuto a conoscenza di quel fenomeno così straordinario e singolare ho deciso di verificare la cosa con i miei occhi. Così un otto settembre, con incredulità e scetticismo in tasca, sono andato a fare un sopralluogo. Mi sembrava che la stessa coincidenza con la data del compleanno della Vergine fosse eccessiva – il fatto che proprio l’otto di settembre, e solo l’otto di settembre, le formiche si riunissero per accoppiarsi e morire. Eppure andò proprio così. Vidi con i miei occhi quello spettacolo, lasciai il mio scetticismo sul monte e tornai a casa con quell’immagine formidabile impressa in mente, migliaia di formiche alate che si accoppiavano in volo, e poi morivano. Quell’immagine ha poi stimolato una serie di riflessioni su molte questioni, a partire dalla consapevolezza che la natura può avere sul proprio destino. E quest’idea di una consapevolezza della natura stessa ha dato l’input per iniziare le ricerche che hanno poi fatto da base al mio lavoro.
Ne Il Monte delle Formiche la natura diventa un personaggio attraverso il monte, la faccia multiforme di quella vita lì presente, fatta di boschi, di foglie, di materiale organico e inorganico. E c’è un’altra cosa che mi interessa molto: vedere i luoghi. Sono molto attratto dai luoghi, specie dell’Appennino, dove sono nato. E mi affascinano soprattutto quei posti che hanno dei tratti somatici, e assomigliano a dei personaggi in carne e ossa. Un po’ come quando si fa scouting e si incontrano persone per la strada che poi verranno trasformate in attori: la stessa cosa vale per i luoghi. In alcuni posti mi sembra di rivedere una faccia che ho già visto – bella, interessante, con una storia alle spalle. E questo vale sia per Il Monte delle Formiche che per Brasimone: entrambi hanno dei tratti somatici che raccontano qualcosa. Questo per me è quasi fondamentale: raccontare un personaggio che è fatto di luoghi, di natura, e che è in relazione con la comunità. Non sono un naturalista che filma la natura fine a se stessa: mi piace studiarla in relazione all’essere umano.
FI: Esiste quindi un aspetto somatico nel Monte delle Formiche?
RP: Sia la signora Franca – la protagonista del documentario – sia le altre persone che popolano il film parlano del Monte delle Formiche come una sorta di essere, un posto che si va a vedere, che si va a visitare. Questa relazione particolare tra la gente e la montagna mi ha aiutato a concepire il monte come un personaggio. E poi c’era il fattore geografico: ci sono luoghi che hanno una conformazione definita, nel senso isolata, circoscritta. E questo è il caso del Monte delle Formiche, proprio per la sua conformazione naturale, essendo un monte che spicca sopra tre valli, è isolato, è ben riconoscibile e ben determinato. E questa cosa aiuta a renderlo una specie di individuo a se stante.
FI: Guardando Il Monte delle Formiche ho pensato molto alla filmografia di Franco Piavoli. Immagino questa sia una somiglianza che ti è già stata segnalata più volte. Che legame hai con la sua opera, e in che misura pensi che abbia influenzato il tuo percorso di regista?
RP: Ho conosciuto Piavoli quando ancora studiavo all’università. Assieme ad altri tre compagni studenti andammo a intervistarlo a casa sua, a Pozzolengo, nei primi anni Duemila. Tre cose di Piavoli mi hanno sempre affascinato: la tipologia di linguaggio cinematografico che caratterizza la sua poetica, la modalità di produzione, e il suo essere persona. Penso al suo lungometraggio d’esordio, Il Pianeta azzurro, che realizzò solo con la moglie – un’ode alla natura fantastica. Ho molti amori cinematografici, che spaziano da Kubrick a Tarkovsky, ma Piavoli è riuscito a entrare nel mio Olimpo del Maestri anche perché oltre che il suo cinema ho avuto modo di conoscere la sua persona – di una cortesia e di una umiltà straordinaria. Detto questo, quanto Piavoli abbia influenzato Il Monte delle Formiche non lo so. È un accostamento che effettivamente ha fatto più di qualcuno, ma per quanto lusingato mi senta dal paragone credo di essere ancora ben lontano dal Maestro Piavoli [ride].
FI: L’analisi delle formiche di Maurice Maeterlinck non è mai fine a se stessa, ma cerca sempre di tracciare un paragone con gli esseri umani, esattamente come fai tu ne Il Monte delle Formiche. Che cos’è che ti affascina della relazione (e delle differenze) tra uomini e insetti che sta alla base del tuo film?
RP: La base è stata l’idea di vivere in società. Fin dalle favole la formica si contraddistingue come l’essere che vive in società e per la società. Questo in un certo senso è stato il punto di partenza – poi il testo di Maeterlinck sviluppa il paragone del formicaio e degli esseri umani. La formica viene considerata una cellula dell’organismo, proprio come se fosse una delle nostre cellule, e quindi il formicaio assume l’estensione di un individuo, di un essere umano. Questa corrispondenza, quest’idea di un’unità frammentata mi affascinava molto. Mi piaceva questo paragone tra formicaio-essere umano e la formica cellula, da cui trarre un paragone più grande con l’uomo come cellula di un organismo, magari dello stesso pianeta terra. Avevo voglia di continuare questo gioco di scatole cinesi che Maeterlinck metteva in atto, dal momento che in questo film avevo intenzione di parlare di questa estensione di vita che va anche oltre le cose organiche. Fino a che punto possiamo dire di essere la cellula di un organismo, noi esseri umani?
FI: Penso alle parole di Emery e Maeterlinck che hai scelto per accompagnare il tuo lavoro. Ce ne sono alcune che mi sembrano più o meno implicitamente osservazioni politiche. Come quando si parla dei due sensi di immortalità a cui aspirano uomini e formiche: da un lato la nostra immortalità individuale, dall’altro l’immortalità collettiva degli insetti, alla quale dovremmo cercare di ritornare.
RP: Credo che l’umiltà e l’abbandono della sopraffazione siano due concetti fondamentali alla base de Il Monte delle Formiche. A un certo punto del film si dice che l’ostilità difensiva dell’essere umano porta alla sopraffazione. In altre parole: si diventa ostili in modalità di difesa, si attacca per difesa. È un’osservazione implicitamente politica che nasce dalla nostra paura della morte: davanti a lei ci troviamo sempre soli e impauriti, e per questo tendiamo a difenderci con ostilità. E da qui la critica all’individualismo. Credo che la continua ricerca del proprio meglio, del proprio benessere personale, alla fine ci convinca a cercare di affrontare e superare la morte come singoli individui. Sono due cose legate tra di loro, due facce della stessa medaglia: da una parte l’individualismo che tende alla sopraffazione dell’altro – inteso come altro essere umano o altro essere vivente – e dall’altra questa ricerca di sopravvivere del singolo, questa immortalità per se stessi. E questa ricerca di un’immortalità individuale, come ricordano i brani di Maeterlinck, non porta da nessuna parte, anzi si rivela fallimentare. Una soluzione alternativa è quella che propone Braibanti in un altro testo citato nel film, entrare con umiltà in se stessi e riconoscersi come fratelli potrebbe annullare sia la paura della morte sia la nostra ostilità difensiva. E penso che questi concetti siano legati alla metafora di cui parlavamo prima, quella del formicaio inteso come individuo.
FI: Al centro de Il Monte delle Formiche c’è una ricorrenza religiosa, che pur essendo fortemente cattolica nasconde un certo sincretismo tra Dio e natura. Nel monte dove si raccolgono i fedeli, la Vergine e le formiche sono indissolubilmente legate tra di loro: che cos’è di questa mescolanza che ti ha affascinato?
RP: I sincretismi sono interessanti in generale, soprattutto se poi si manifestano come avviene nel Monte delle Formiche. Già nell’iconografia del santuario del monte il connubio tra religione e Natura è evidente: la pala dell’altare raffigura la Vergine con il Bambino in mano, e ai piedi le formiche alate. È un’associazione affascinante, perché lega un evento naturale con il compleanno della Vergine, ed è prova di come l’essere umano sia riuscito a creare una sacralità nei confronti della natura stessa: lo spettacolo estatico dell’arrivo delle formiche alate entra a pieno diritto nei festeggiamenti religiosi. E poi c’è il fatto che queste riflessioni sulla morte e l’aldilà vengono spesso condivise dagli abitanti dei villaggi che circondano il monte, e non è difficile ascoltare la gente interrogarsi su questi temi, come ci è capitato quando stavamo girando una scena notturna e abbiamo finito per registrare una conversazione sulla ricerca della religiosità.
FI: Il sincretismo religioso, questa mescolanza tra cattolicesimo e natura, ne Il Monte delle Formiche si rispecchia anche in un sincretismo formale: alle scene in 16mm ne alterni altre in Super8, alle sequenze a colori ne alterni altre in bianco e nero accompagnate da una musica di sottofondo che si fa via via più inquietante. Perché queste scelte?
RP: L’intenzione era quella di sposare molte prospettive, e in un certo senso l’alternanza stilistica fa riferimento ai diversi punti di vista che si sviluppano nel film. Non c’è solo il mio, non c’è solo quello dei fedeli o della signora Franca, e per ritrarre lo sguardo di tutti si è cercato di seguire degli approcci stilistici diversi. I formati ridotti utilizzati, 16mm e Super8, fanno riferimento a un’epoca e a uno sguardo passato, e lo spettatore che assiste a una proiezione senza aver letto nulla prima potrebbe pensare che le immagini siano di repertorio. E questo era l’effetto che cercavamo di ottenere: girare le scene come se si trattasse di un grande archivio, creare un finto archivio per recuperare uno sguardo del passato, lo sguardo di un ipotetico cineoperatore degli anni Sessanta e Settanta che oggi si ritrova spesso nei filmati delle feste religiose e degli spaccati di vita in famiglia di quel tempo. Ci interessava uno sguardo antico, un testimone del passato. Volevamo che il presente divenisse remoto, creare un cortocircuito con i tempi di modo che quello che era il presente fosse visto da uno spettatore di oggi come qualcosa di già successo, passato. In quanto al sonoro, la musica via via più inquietante vuole ritrarre il senso di paura che si prova di fronte al mistero. Credo che ci sia qualcosa in ciò che non si comprende, nel mistero, che di per sé fa paura. E quest’aspetto di inquietudine è legato a questo senso di mistero, a questo qualcosa di inconoscibile.
FI: E quest’interesse nel ritrarre il presente come se fosse qualcosa di remoto da dove viene?
RP: L’idea di smarcare lo sguardo ne Il Monte delle Formiche è un qualcosa di indissolubilmente legato alla tradizione. La gente del posto mi raccontava che tanti anni fa la festa riuniva tutti gli abitanti dei paesi vicini, e anche quelli delle zone più lontane. La gente lasciava i campi, non lavorava e si riuniva nel monte a festeggiare. Oggi la ricorrenza non attrae più fiumi di gente, per molti motivi, vuoi per i cambiamenti della nostra società, vuoi per la trasformazione del nostro rapporto con fede e religione. Così la festa del Monte delle Formiche è un simbolo di qualcosa che sta svanendo: non è solo una festa, ma il ritratto di un nostro modo di essere nei confronti della collettività che non c’è più, di uno di quei riti sociali che ci hanno contraddistinto. Queste due cose stanno venendo meno, e l’intento era ritrarre la loro morte come fosse qualcosa che è già avvenuto, qualcosa di già successo. Come guarderemo tra cinquant’anni queste ricorrenze che durano da secoli? Riusciranno a tramandarci dei residui, dei modelli di socialità e religione? E che ne sarà di questi modelli? Riusciranno a sopravvivere o si estingueranno? Non ho risposte a questo domande, ma so che volevo ritrarre la ricorrenza del Monte delle Formiche come se la si stesse rivedendo da un futuro prossimo, come una cosa che è già passata, finita.