– Sabbia, polvere, e quasi sempre nebbia. Nient’altro che nebbia.
Estate e inverno, inverno e estate.
Malgrado tutto, c’è chi sostiene di avere visto alcuni cavalieri su cavalli bianchi…
Costruiscono una strada.
– Una strada? Nel deserto?
Valerio Zurlini, Il deserto dei Tartari
Premessa di sabbia
Nella storia come al cinema, il venir meno dell’utopia di un popolo ha spesso generato figure del deserto, sia esso una fabbricazione letteraria o un altrove in cui dileguarsi, un principio di evasione che puntualmente si ripete. Desertificazioni dell’essere-comunità si avvertono lì dove la folla diventa massa e infine pubblico [1]. È questa la Parigi dell’haussmannizzazione, causa di uno straniamento forzato che troverà il suo apparente controcanto (e forse il suo definitivo compimento) nella solitudine consensuale di Un homme qui dort (Perec et Queysanne, 1974), nitido ritratto di una stanza-città-deserto fatta a forma di solitudine, in cui nessun tentativo di popolo sembra più, o non ancora, possibile. «L’esistenza in mezzo alle masse come esperienza specifica della metropoli» [2] finisce qui per prosciugarsi tra la nevrosi della circolazione e la predisposizione all’isolamento di massa: il deserto rappresenta l’inizio o la fine di un popolo.
Esilio dei senza patria, spazio colmo di perdite, materia metaforica per tutti i bisogni e per tutti i miraggi, il deserto è però anche una superficie di resistenza, una sperimentazione, una carta non segnata. Dal deserto di Atacama, terra di mezzo tra l’archeologia e l’astronomia, Patricio Guzmán ci ha detto la Nostalgia della luce (2010) di un popolo desaparecido eppure ancora «nelle nostre ossa». La sommersa California di Below Sea Level (Gianfranco Rosi, 2008) è invece una tana sperimentale per homeless non addomesticabili, un incubatore di forme di vita comune ormai impossibili nella “City”.
Attraverso queste tre opere (due documentari delicati e potenti ed una finzione assai veritiera), ed altri film ad esse complementari, useremo il deserto come “luogo comune” e cangiante per descrivere tre modalità poetiche, distinte ma ugualmente radicali, di confrontarsi con l’assenza d’un popolo, laddove la scomparsa non è mai definitiva.
Uno “spettro in pieno giorno”
Comment […] ne se développerait-il pas en chaque lecteur la conviction intime, qu’on perçoit encore aujourd’hui, que le Paris qu’il connait n’est pas le seul, n’est pas même le véritable,
n’est qu’un décor brillamment éclairé, mais trop normal, […] et qui dissimule un autre Paris,
le Paris réel, un Paris fantôme, nocturne, insaisissable.
Roger Callois, Paris, mythe moderne
Esiste un pamphlet anonimo del 1868, citato da Walter Benjamin nel suo montaggio letterario della capitale francese, dal titolo Paris désert: lamentations d’un Jérémie haussmannisé [3]. È forse uno dei primi compiuti lamenti contro l’ormai noto urbanismo demolitore del Barone Haussmann. L’ironico Geremia ottocentesco definiva “gaio” il popolo di sfollati dal centro della città e “meravigliose” le ripulite vesti della Parigi haussmannizzata, finché, percorrendo un’iperbole di catastrofismo, non approda ad immagini di grande disfatta e desolazione, dedicate alle ore in cui «la Solitude, la longue déesse des déserts» [4] verrà ad adagiarsi sul nuovo, perverso e raggelato impero preparatole dall’embellissement stratégique.
Per quanto banale [5], la metafora del deserto metropolitano concede sin dall’inizio la ricca coesistenza di dissonanti percezioni: Parigi è già un deserto individuale da bramare tutto per sé ne Il popolo di Michelet (desiderio di essere e non essere nei movimenti delle folle, di situarsi al bordo di quelle solitudes peuplées per poter meglio informarsi e vedere, aveva scritto nei suoi diari) [6], divenendo in seguito la monotonia di uno sogno “ben realizzato” (specialmente negli stilemi haussmanniani del boulevard Sébastopol, grande arteria di quel coeur de la ville ormai congelato) [7], e ancora, nei celebri versi di Baudelaire, quel luogo d’uomini in cui moltitudine e solitudine divengono termini interscambiabili («Le folle»), dove il tremendo popolo-massa coincide con la brulicante distesa onirica ove s’incontrano spettri in pieno giorno («I sette vecchi») [8], ed ispira la febbrile determinazione d’indossare tutte le maschere della “folla affaccendata” («La solitudine»), pur senza desiderio d’incastrarsi in nessuna delle sue anguste infrastrutture sociali, ma decisi, piuttosto, a portare a spasso il proprio “deserto vivente, senza fuoco né luogo” («Frammenti» a I fiori del male), a farsi bestie solitarie e libere come animali diseredati, come cani randagi erranti («I buoni cani»).
Un secolo dopo il nostro pamphlet, ritroveremo alcune di queste divergenti emozioni (l’isolamento forzato indotto dall’urbanismo moderno e l’ebbrezza di libertà concessa dai margini dell’esclusione) in Un uomo che dorme: storia di uno studente della Sorbona che smette di sostenere esami (quei primi gradini del progresso di se stesso), e comincia lentamente ad educarsi «all’indifferenza per tutto» [9]. Altra «figura del tempo perduto» [10], l’uomo che dorme decide di non ricopiare né scrivere più niente, di non dire quello che pensa «sulla conoscenza degli altri» [11], su Marx e Tocqueville, su Weber e Lukács. La sua unica “partecipazione” coinciderà col lasciarsi trasportare dalla folla, spiare dalle telecamere, sfiorare dai passanti, col visitare tutti i musei, osservare tutti i cittadini sulle panchine, passeggiare su tutti i ponti, leggere tutte le notizie insulse degli insulsi quotidiani nazionali. Egli affronta il popolo delle cose, lo usa senza interesse, senza obbligazioni, ogni giorno entrando e uscendo da quella chambre de bonne diventata per lui «la più bella delle isole deserte» [12], benché sia soltanto una cellula come un’altra nascosta nei meandri di palazzi hausmanniani rimasti uguali a se stessi.
Al cospetto di quella stessa baudelairiana «massa senz’anima» [13], lo studente sceglie deliberatamente di “svuotare” la sua esistenza di singolo. E per questo l’Un uomo che dorme, il libro, è stato definito una risposta radicale «agli ideali dell’attivismo moderno», alla scalata sociale del soggetto urbano, nutrita «dall’idea di un progresso illimitato, indiscutibile, e del successo come segno di una vita esemplare» [14].
Essere limpido e trasparente, essere che non vuole niente, lo studente non ha neppure un Nome: è un mero tu, un chiunque svelato o piuttosto diretto dalla calma voce femminile di Ludmila Mikaël, che ripete il romanzo sullo schermo. Lo studente è altro da lei che può raccontarlo, è altro dalla città che pure lo attraversa. E pure la città è altra da quei «paesaggi da cartolina illustrata attraversati senza fine» [15], dove “c’è gente” ma non c’è nessuno. Perché «Parigi è un deserto che nessuno ha mai attraversato» [16], in cui «sola, esiste la sua solitudine» [17].
Per il Bartleby errante di Perec [18] l’ufficio dove non lavorare è la strada di una Parigi ancora affollata e vuota, luminosa e spettrale quanto lui stesso. Ma a differenza di Bartleby, l’uomo che dorme, «fantasma trasparente» [19], non spaventa nessuno, non mette a subbuglio nessun’altra routine con la sua impertinenza silenziosa, non adesca gli altri spettri in strada. E nemmeno ha bisogno di pronunciare la beneamata formula, nel deserto urbano che di lui, comunque, non s’accorgerebbe. Perché egli non cerca i suoi simili, né da essi si lascia cercare. Guarda gli altri «come se fossero pietre» [20], ed in questa solitudine è persino libero: libero di non avere storia, di non inseguire memorie, libero di non essere “rappresentato” né tradito (da un partito, un gruppo, un post-partito, un partito digitale), libero di «imbrogliare i segni» [21] e dunque libero di liberarsi persino dal linguaggio, l’uomo che dorme è automa che la folla genera e la folla nasconde, è «flaneur minuzioso» [22] e neutro, che non si mobilita, che non si danna, che non abbraccia cause. Per questo l’uomo che dorme ci appare anche, in un certo senso, come un “cittadino modello”, che si adegua ai «luoghi della solitudine di massa, che ci separa e ci unisce tutti, nell’indifferenza o nei giri a vuoto» [23], luoghi il cui funzionamento è mostrato dai “punti di illustrazione” che scandiscono il montaggio, dettagli infimi di quel vuoto “pieno di promesse” che d’abitudine chiamiamo città.
Tuttavia il “successo” di Bartleby, quella «sospensione che tiene tutti a distanza» [24], può essere evocato ma non ripetersi. Al suo “risveglio”, l’uomo che dorme sarà scosso nuovamente dalla massa, ancora intatta e cieca, «l’ultimo e più impenetrabile labirinto», che cancella ogni traccia sia del singolo che del collettivo [25], mostruosa moltitudine fatta di immagini contrastate e insopportabili (lì dove la voce narrante di Ludmila, da cosciente e limpida, si fa sussurro). E lo sfioreranno, infine, i simili, i topi che «si incrociano senza guardarsi», le «disperazioni come te sedute sulle panchine» [26], e tutte quelle «sentinelle silenziose» [27] che aveva cercato di nascondere a se stesso, di avvolgere nel buio in pieno giorno: «messi al bando, paria, esclusi, portatori di invisibili stelle», gente che disegna e cancella «ininterrottamente sulla sabbia polverosa lo stesso cerchio imperfetto», gli altri muti, gli sconosciuti, i vecchi pazzi, gli esaltati e gli esiliati, che come lui compiono «gesti stanchi, da vinti, da mangiatori di polvere» [28]. Ma di quei marginali non verrà fatta poesia, né maschera: la sua modernità non ha più ruoli né eroi, perché non c’è più uomo che valga il mistero dell’esistere, l’impenetrabilità della folla.
La separazione, ci avrebbe detto un noto anti-film di qualche anno prima è avvenuta, ed è la forma incolmabile della «distanza organizzata tra ciascuno e tutti», in cui «degli esseri separati vanno a caso» [29], tutti ugualmente in dormiveglia, esauste pedine di quella
città rumorosa o deserta, livida o isterica, città sventrata, saccheggiata, maculata, città irta di divieti, di sbarre, di inferriate, di serrature. La città-carnaio: gli stantii mercati coperti, le baraccopoli mascherate da grandi complessi urbani, i bassifondi nel cuore di Parigi, l’insopportabile orrore dei boulevard polizieschi: Hassumann, Magenta, Charonne [30].
Un homme qui dort, il film, è un paesaggio urbano circolare: l’illusione di «non offrire alcuna presa» [31], il miraggio di un’indifferenza calcolata e di un’impermeabilità alla materia umana compongono una parabola che si esaurisce tutta d’un fiato. Non c’è, infatti, alcuna rivoluzione senza gli altri [32]: il passante non è niente se nessuno ricambia il suo sguardo, l’indifferenza un inganno borghese. Perché non c’è diniego possibile del corso delle cose, neppure in così minuscola misura. Non c’è rifugio neppure nel non essere nessuno, e dalla solitudine non si impara niente, se non che, senza gli altri «si è così poca cosa» [33].
Non restano che dettagli derisori a disposizione dello spettatore malinconico, del perduto fante, dello studente inoperoso. Nessuna avventura «si costituisce direttamente per noi» [34], e anche la lotta è uno spettacolo esteriore e lontano, l’ennesimo al quale non possiamo partecipare, perché non abbiamo trovato, né osare costruire, le armi necessarie.
Tutto il XIX secolo, notava Deleuze, è stato attraversato dalla «ricerca dell’uomo senza nome», del nessuno «schiacciato e meccanizzato delle grandi metropoli, da cui ci si attende tuttavia che nasca l’Uomo del futuro o di un nuovo mondo», che può essere il proletario o un cittadino qualunque [35]. Qui il mondo nuovo, persino nelle rapide forme d’una rivolta, non è ancora arrivato. Ma nemmeno la rassegnazione è una certezza: anche la stasi dell’avvenuta separazione è ciclicamente infranta. L’inquieta veglia dei fantasmi urbani sopra descritti predispone, in qualche modo, le fratture a venire.
Alla Parigi deserta del nostro pamphlet, avrebbe succeduto la Comune [36]. Un uomo che dorme, il libro, è stato scritto nel 1967. Mancava poco ad esser sommossa, ad essere riapparizione di un popolo che già covava nella stessa stanca Sorbona, nello stesso suolo urbano ancora tutto da riconoscere, o da conoscere altrimenti [37], quando il letto di sabbia urbana è ricoperto dai pavés delle barricate [38]. «Chi resisterà? Bisogna andare più lontano di questa disfatta parziale. Si certo. E come fare?» [39].
Piccolo popolo nomade. Il sottoproletario in fuga di Below Sea Level
In Below Sea Level la fuga da un’altra città haussmannizzata [40] (che probabilmente, per alcuni aspetti, è stata la “capitale del XX secolo”, benché meno discussa la sua “conversione”) diventa effettiva. E il deserto non è più la forma metaforicamente assunta dall’a-demia (ovvero da un’assenza di popolo più o meno consapevole, più o meno rappresentabile) [41], quanto l’immagine reale e tangibile dell’unica soluzione possibile al proprio essere minoritario. Respinti dalla Città degli Angeli (e da chissà quali altre), Mike, Lily, Wayne, Cindy, Carol e Kenneth vivono nell’accampamento chiamato Slab City, sorto su una base militare dismessa a 300 km da L.A. e a 40 metri sotto il livello del mare. «Un deserto effettivamente, pietre e terra secca» [42]. Da cosa sono fuggiti? Quale forma di governo urbano non era disposta ad accoglierli? Non potremmo comprendere le ragioni degli Slabs senza affrontare la “Città di quarzo”, spiegata e descritta nell’irriverente saggio di Mike Davis che ha già fatto storia. Città tra le più narrate dal cinema e dalla letteratura oltre che dalla sociologia urbana, alla fine del secolo scorso Los Angeles incarnava il paradigma del gigantismo urbano. E se, sostiene Davis, la “città diffusa” divenne un’ottima e prelibata merce già dalla fine degli anni ottanta, non sorprende che essa rappresentasse un’avanguardia anche nel mercato della sicurezza interna, mercato divenuto talmente popolare da generare nella costa meridionale «una sua domanda paranoica» [43].
Non certo pionieri del settore, ma sempre estremamente fantasiosi e prolifici, i cittadini statunitensi hanno sperimentato tutte le modalità di blindare il proprio spazio privato e fortificare il proprio quartiere (case-bunker, stealth house, Privatopias, walled cities e gated communities) [44], privatizzando quegli spazi comuni già ridotti nella “fortezza Los Angeles” alle misere intersezioni tra un block e l’altro. Forse ancor prima che altrove, l’acquisto della propria incolumità personale divenne, a Los Angeles, l’unità di misura del prestigio, “ma più ancora dell’isolamento dell’individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell’habitat, del lavoro e dei viaggi” [45]. E se lo spazio urbano dev’essere ridisegnato all’insegna della “sicurezza interna”, ad agire è anche una “sorveglianza morbida”: per farla finita col vagabondaggio, si circoscrivono persino le piccole “possibilità di scampo” che prima offrivano i parchi pubblici, mettendo in atto l’unpleasant design dei dispositivi anti-homeless [46]. E così il centro della città è circondato da parchi purificati e scomodi (ma finalmente gangless), da zone sorvegliate dai comitati di quartiere e (seconda recinzione) dai sopraccitati villaggi recintati del ceto medio. «“Comunità” a Los Angeles significa omogeneità di razza, di classe, ma soprattutto di quotazioni immobiliari»[47].
Ce lo racconta subito Bus Kenny, nel film, che «da dove viene lui» è illegale vivere e persino dormire «on the public lands»: in un parco, per strada, come pure su una montagna. In Città devi sempre e da tutto nasconderti, e «la sopravvivenza è legata al caso, non al diritto» (ovvero alla fortuna di non essere “beccati” nel delitto di voler sopravvivere, anche senza risorse immobiliari). E così Kenny si è detto «vado nel deserto», dopo aver cercato per tutta la vita di evitare la California (perché l’arida “ultima spiaggia” di Slab City, che pure formalmente ne fa parte, «non è la California, è un paese straniero», afferma più avanti Mike Bright).
“Senza-classe” [48] e senza guida alcuna, senz’acqua né servizi, l’eterogenea comunità di Slab City si autogoverna, senza dire mai a nessuno, neanche al più prossimo vicino, «come vivere la propria vita». Nell’accampamento provvisorio e duraturo [49] che hanno scelto di abitare, si entra “in punta di piedi”, esseri fragili ancora scettici della possibilità di vivere di nuovo assieme ad altri. Perché anche concedersi la possibilità di costruire una relazione è difficile, è doloroso. Eppure è solo lì «dove tutto è arido, formeless», e dove «niente deve essere perfetto», che il popolo degli homeless attribuisce un senso nuovo alla diade biopolitica “libertà e sicurezza” [50].
Prima di fermarsi a filmare Slab City, Rosi aveva percorso per otto anni i deserti americani. «Perché solo visitandoli è possibile capire l’America» [51], che «muore o rinasce proprio in quello spazio» [52]. Con simile prospettiva si poteva leggere nell’ouverture di Città di quarzo che «il miglior punto di osservazione sulla Los Angeles del prossimo millennio sono le rovine del suo futuro alternativo», ovvero le fondamenta dell’Assemblea Generale della colonia socialista di Llano del Rio, fondata agli inizi del Novecento nel deserto del Mojave, «agli antipodi utopici della Los Angeles dell’Open Shop antisidacale» [53].
Come per tutti i suoi primi film, Rosi ha dedicato molti anni al travail de terrain di Below Sea Level, vivendo in un camper di Slab City per alcuni anni, tempo necessario anche per comprendere che «la distesa arida non costituisce lo sfondo del film, ma è sia il campo d’azione sia un personaggio della comunità» [54]. Essa è il tassello, fisico e allo stesso tempo extra geografico, che permette a quel focolare d’anime di riformare il proprio spazio, sia pubblico che privato.
Slab City, una delle poche e più longeve comunità nel deserto ancora in piedi, è dunque l’ultima immagine di un popolo americano superstite? O forse, come afferma Rosi, «in loro c’è qualcosa di ulteriore, sono come un’ultima frontiera dell’America» [55], ancora lì a ricordarci che il popolo, se popolo c’è, è sempre l’immagine di “un resto” [56], è sempre un popolo altro. Perché ci saranno sempre due popoli che costantemente si sovrappongono per poi nuovamente scindersi, generando un popolo che qui non coincide qui né con una classe “tutta intera”, né con uno specifico “tipo urbano” (deviante o meno, criminale o meno), né, infine, con un generico contenitore d’anomalie (“i freaks”, termine usato dal primo recensore di Below Sea Level [57]).
«Nomadi, vagabondi, straccioni e truffatori. Pensionati migratori, vecchi strampalati scorbutici, abitanti del deserto, rettili, umanoidi»: Mike Bright enumera cantando le identità inaccette che in quel “deserto pseudo-straniero” si sono rifugiate ed espresse. Mal foraggiati, e a loro modo indomabili, questi “signori del deserto” non avrebbero potuto adeguarsi al “concetto di sicurezza” urbanizzato nelle floride mura di Los Angeles. Per questo sono, e sono sempre stati, migranti che “non vengono da fuori”, non l’hostis né il barbaros ma «il nostro straniero interiore» [58], che riemerge dallo stesso cuore pulsante della civiltà americana, dalle stesse frontiere interne che la città securitaria quotidianamente instaura. Se la sociologia ci mostra una Los Angeles svuotata di popolo e deprivata di spazio pubblico, gli abitanti di Slab City rendono visibile lo “spazio liscio” del deserto, limite interno e transitorio della megalopoli biopolitica. E allora, più che di “popolo”, parleremmo di una certa (foucaultiana) “qualità della plebe”, che si dà «nei corpi, nelle anime, negli individui, nel proletariato, ma con estensione, forme, energia e irriducibilità ogni volta diverse. Questa parte di plebe non rappresenta tanto un’esteriorità rispetto alle relazioni di potere, quanto piuttosto il loro limite, il loro rovescio, il loro contraccolpo» [59]. La plebe non rappresenta il germe di un nuovo soggetto politico, la plebe tout court non esiste nemmeno: si afferrano soltanto dei luoghi di provenienza, degli esercizi di resistenza. «C’è della plebe in tutte le classi come un solvente da attivare per reazione chimica, una potenza, che sonnecchia di un sonno agitato» [60]. Al suo risveglio, essa si mostra come lo scarto della “vita infame” rispetto alla norma, dell’abitare rispetto alla sua amministrazione [61], elemento incontenibile nella “griglia popolazione” [62] che, in un dato luogo ed in un preciso momento della storia, raccoglie armi improprie ed “esce allo scoperto”.
Ultimo canto delle sabbie
L’unico soggetto politico in senso stretto che affrontiamo in questo saggio è il popolo della Unidad Popular, popolo torturato e oppresso durante la dittatura cilena, popolo smembrato i cui minuscoli resti si perdono ancora nel deserto di Atacama. Immenso e “disorganico”, antichissimo e sterile, questo incredibile spazio teso tra la Cordigliera e le Ande non può far nascere nel suo “suolo duro e salino” [63] alcuna forma di vita nuova. La più arida tra tutte le terre del mondo spalanca tuttavia agli “arqueólogos-astrónomos” di Nostalgia della luce una visione accresciuta: è infatti solo in quell’aria tersa che giunge a leggibilità la nostra storia più remota, la nostra materia più antica. Dal Big Bang alle civiltà preispaniche, dalla violenza coloniale che del Cile è rappresenta ancora il passato prossimo (le stragi degli indios) alle impronte architettoniche di prigionie appena dimenticate, Atacama è il «grande libro aperto della memoria» d’infiniti popoli scomparsi. E i desaparecidos di Unidad Popular non sono che gli ultimi di questi vinti senza nome.
La «misma materia» di Atacama ha interrogato negli ultimi quarant’anni i più impavidi ricercatori: gli astronomi di Tololo, gli interpreti di civiltà precolombiane e le donne di Calama che cercano i resti dei loro cari abbandonati nel deserto, rimaste sole a ricordarci che «la lotta di classe è sottoterra» [64].
I loro sguardi non si erano mai incontrati. Ed è solo nell’immagine documentaria concepita da Guzmán che «queste diverse forme di rituale convergono secondo un mimetismo via via dialettico» [65] in quella «costruzione narrativa rigorosa, ma dinamica e alchemica» [66] in grado di percepire tutta la luce, asciutta e polifonica, emanata dalla “materia segnaletica” di Atacama.
E se il deserto è ancora, più di prima, l’immagine dispiegata di indicibili assenze, dell’impossibilità di ricomporre per intero anche un singolo corpo di quel popolo sterminato dalla dittatura, esso è anche la materia visiva di un popolo che sopravvive «nella ricerca continua» delle mujeres buscadores, che con incredibile ostinazione scavano e interpretano i «restos des restos», nel tentativo di dare un nome a quei frammenti dispersi di scheletri ancora non riconosciuti, non riconoscibili. Le donne di Calama sono le uniche “portatrici” di un popolo minore che, da tempo sconfitto, attende memoria e sepoltura.
Come ricorda l’astronomo Gaspard, il nostro sguardo non è mai “contemporaneo” a ciò che si vede, ma arriva, ed è esperito, sempre un attimo dopo. E il deserto non fa che estremizzare la nostra “sfasatura”: «sperimentato dalla prospettiva del deserto, stare nel tempo – o addirittura nel proprio tempo – sembra più che altro una superstizione», perché il deserto è il luogo in cui «al tempo è data la possibilità di rarefarsi e di ricoagularsi in zone che esistono simultaneamente» [67]. Sprofondando nel deserto, “l’immagine visiva diventa archeologica”, rilevando gli strati che ricoprono i nostri stessi fantasmi [68], anche qui fantasmi in vita, ignorati eppure visibili: dai minatori indigeni alle donne “senza sonno”, figlie, sorelle e mogli compagne di un popolo senz’armi, che ha ceduto al deserto i suoi dolorosi resti. Sole, le donne di Calama lottano contro la rimozione a cielo aperto operata dal Cile nuovo, apparentemente riconciliato, in cui “vittime e carnefici sono libere di ignorarsi quando si incontrano per strada”, perché nel loro paese il più salvifico oblio convive con la memoria più feroce, secondo la dialettica inquieta che pervade ogni ritratto di famiglia in Nostalgia della luce.
Ma nemmeno tutta la luce di Atacama, la più grande immagine dialettica che avevamo a disposizione, può dirci il popolo di Allende per intero. Se il deserto ne restituisce il silenzio imposto, le sue voci, tutte, le abbiamo udite nei tre intensi capitoli de La batalla de Chile, la lucha de un pueblo sin armas (1975-1979), trilogia in presa diretta iniziata da Guzmán nove mesi prima del colpo di stato di Augusto Pinochet. Cosa ci dicono i cori interminabili di quelle avenide sempre colme, sempre sommerse di cori e cordoni nella capitale cilena e nei suoi bordi? Cosa insegnano le lucide immagini di questa «nobile avventura, che ha risvegliato dal sonno» [69] chi questa lotta l’ha vissuta e filmata, l’ha agita e compresa?
Che nella lotta intestina tra i popoli cileni, giorno dopo giorno ostracizzato da ogni infiltrazione esterna (i militari, la Cia, i fascisti e i democristiani) il poder popular ha difeso fino all’ultimo la sua minoranza costitutiva [70], serrando il morso, auto-organizzandosi, auto-provigionandosi, invertendo gli “scioperi sediziosi” ed eterodiretti, innescando ogni giorno un «concreto potere popolare» in tutte le strade, nelle industrie, nelle miniere, nei quartieri nei commandos comunales, nei “negozi popolari” dove si pianifica dal basso l’approvvigionamento di un’intera nazione. «Per tutto il 1973 il germe del potere popolare si estende a tutto il paese, il vasto settore della popolazione dà prova di un’attitudine sempre più creativa per appoggiare il governo e sopravvivere alla crisi» [71], si dice nel terzo capitolo del La batalla de Chile, testimonianza in bianco e nero del preciso momento storico in cui la lotta, e con essa il cinema in lotta, ha saputo e voluto diventare «analisi della realtà», sviluppando quante più forme possibili di quel potere popolare per affinare tale analisi, e con essa le armi autoprodotte di un popolo senz’armi.
Anche questo tentativo di «aprire alle masse lavoratrici una nuova prospettiva politica», così circoscritto nel tempo e nella storia, così travagliato e irripetibile, è oggi seppellito come “avventura incompleta”, il cui indicibile prezzo il popolo cileno sta ancora scontando. Tra la La batalla de Chile e Nostalgia della Luce, tra il Cile di prima e il Cile di ora, una sola immagine coincide: quell’ultima inquadratura della trilogia che mostra in campo lungo il deserto cileno. «Un giorno ci rivedremo, compañero» [72], annuncia su questo sfondo l’ultimo minatore intervistato da Guzmán.
Onorare i senza nome che hanno composto tale lotta non è, qui, un “risarcimento etico” offerto dal cinema, un memoriale visivo in grado di “riscattare” la loro nobile e infranta avventura, o di alleviare l’atroce ricordo della morte dei vinti, ma è la presa in atto, storica e politica, di una «mutilazione storica di cui in un certo senso noi stessi siamo vittime» [73], noi “vincitori” e vivi, eredi di discorsi battaglieri. Noi che non potremmo altrimenti più ascoltare quel popolo che avremmo potuto essere.
Non solo lo sguardo all’erta sul passato, ma anche «l’affanno di andare oltre» [74] è il motore necessario della pratica documentaria. Esso coincide con la lucida e vorace lettura delle potenze interrotte d’ogni battaglia perduta, e forse nessuna sequenza più dell’hombre del carretón che appare nel mezzo di El Poder Popular (magia militante filmata dal desaparecido Jorge Müller Silva), ne visualizza lo spirito in maniera più incisiva: un volo ben piantato a terra, prodezza cinetica e povera che spinge ad andare ancora più avanti.
NOTE
[1] Vedi, in particolare, G. Tarde, L’opinione e la folla, tr. it., La città del sole, Napoli 2005, p. 62, come pure S. Curti, Folla, prestigio e suggestione. Un confronto tra Gabriel Tarde e Gustave Le Bon, in G. Tarde. Sociologia, psicologia, filosofia, a cura di S. Prinzi, Orthotes, Napoli-Salerno 2016, pp. 83-108.
[2] W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 919.
[3] W. Benjamin, Charles Baudelaire, E 4, 2, pp. 322-323 e 328.
[4] Paris désert: lamentations d’un Jérémie haussmannisé, G. Towne, Paris 1868, p. 8.
[5] P. Citron, La poésie de Paris dans la littérature française de Rousseau à Baudelaire, Ed. de Minuit, Paris 1961, vol. 2, p. 347. Ad esso ci rifacciamo per la maggior parte delle occorrenze letterarie della metafora del deserto, qui brevemente riproposte.
[6] J. Michelet, Journal, t. I (1828-1848), a cura di Paul Viallaneix e Claude Digeon, Gallimard, Paris 1959, p. 290 e A. 379-I, 38.
[7] W. Benjamin, Charles Baudelaire, E 2, 9, p. 310 [in cui si cita Le Corbusier, Urbanisme, Champs-Flammarion, Paris 1994 (1925), p. 149].
[8] «Fantômes parisiens» era il titolo originario dei «I sette vecchi», da cui prendiamo anche il titolo per questo paragrafo.
[9] G. Celati, Postfazione a G. Perec, Un uomo che dorme, tr. it., Quodlibet, Macerata 2009, p. 157.
[10] Cfr. F. Rella, Miti e figure del moderno, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 71-73.
[11] G. Perec, Un uomo che dorme, cit., p. 22. Il film riproduce esattamente il testo del romanzo, benché ridotto. Per comodità riportiamo dunque la traduzione italiana del volume.
[12] Ivi, p. 53.
[13] W. Benjamin, Charles Baudelaire, J 69, 2, cit., p. 273.
[14] G. Celati, Postfazione, cit., p. 161.
[15] Critica della separazione (Debord, 1961).
[16] G. Perec, Un uomo che dorme, cit., p. 53.
[17] Ivi, p. 114.
[18] In Ivi, p. 136, Perec evoca, senza riferimenti espliciti, il noto racconto di Herman Melville. In una recente “non rappresentazione” dello stesso racconto (Bartleby. Racconto per suono e immagini, 2016, opera teatrale realizzata dai Muta Imago nel 2016), un’unica silhouette impiegatizia appare alle finestre di una Manhattan deserta (nella video installazione di Maria Elena Fusacchia che accompagna la lettura al buio del testo).
[19] Ivi, p. 110-111.
[20] Ivi, p. 57.
[21] Ivi, p. 92. Il bisogno di liberarsi dai “segni d’uomo” in un luogo «senza lingua, né strade», ci ricorda il mutismo di Travis all’inizio di Paris Texas (Wenders, 1984), personaggio disperso in un altro deserto-esilio volontario.
[22] Ivi, p. 95.
[23] G. Celati, Postfazione, cit., p. 165.
[24] G. Deleuze, Bartleby o la formula, in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993, pp. 13-14.
[25] Lettera di Walter Benjamin a Max Horkheimer, 16 aprile 1938, in W. Benjamin, Charles Baudelaire, cit., p. 55 (come pure M 16, 3, p. 244).
[26] G. Perec, Un uomo che dorme, cit., p. 115.
[27] Ivi, p. 144.
[28] Ivi, pp. 115-116.
[29] Dal monologo di Critica della separazione.
[30] G. Perec, Un uomo che dorme, cit., p. 119.
[31] Ivi, p. 113.
[32] Dal dialogo iniziale di Zabriskie Point (Antonioni, 1970).
[33] G. Perec, Un uomo che dorme, cit., p. 140.
[34] Dal monologo di Critica della separazione.
[35] G. Deleuze, Bartleby o la formula, cit., p. 18.
[36] Sulla Comune come “risposta insurrezionale” al modello urbanistico haussmanniano, cfr. H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, Gallimard, Paris 1965, come pure I Passages di Walter Benjamin (e l’interpretazione che ne dà M. Löwy in La ville, lieu stratégique de l’affrontement des classes. Insurrections, barricades et haussmannisation de Paris dans le Passagenwerk de Walter Benjamin, in Capitales de la modernité, a cura di P. Simay, Editions de l’Éclat, Paris 2005, pp. 19-36). Sulla classe rivoluzionaria che emerge dall’allentamento della massa compatta provocato dalla solidarietà (principio che non incarna la vecchia e cara “buona intenzione dell’ego”, ma, in opposta direzione, sopprime l’adialettica contrapposizione tra individuo e massa), vedi invece A. Cavalletti, Classe, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
[37] «Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come la propria città: propria, poiché dell’io e al tempo stesso degli «altri»; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.», F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 25.
[38] Sous les pavés, la plage!, l’esotico slogan coniato e ripetuto nel maggio del ’68, fu ispirato proprio dalla vista della sabbia che, nascosta in genere al di sotto la pavimentazione, riemerse quando la strada fu divelta per costruire le barricate. À l’assaut du désert è invece apparso, benché una volta sola, su un muro francese più recente, in occasione delle mobilitazioni contro la riforma del lavoro della scorsa primavera.
[39] Dal finale, dichiaratamente incompiuto, di Critica della separazione.
[40] M. Davis, La città di quarzo. Indagine sul futuro a Los Angeles, tr. it., Manifestolibri, Roma 1993, p. 144.
[41] «Solo l’esposizione dell’a-demia interna alla democrazia permette di far apparire il popolo assente che esso pretende di rappresentare», G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 348. Sull’assenza di popolo, vedi anche Id., Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 79–80, e Id., Stasis. La guerra civile come paradigma politico, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 59.
[42] D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 1997 (1940), p 15.
[43] M. Davis, La città di quarzo, cit., p. 122.
[44] Ad oggi, almeno il 40% delle nuove case californiane è fortificato. H. El Nasser, Gated communities more popular, and not just for the rich, in “USA Today”. Sul tema, cfr. anche E. McKenzie, Privatopia: Homeowner Associations and the Rise of Residential Private Government, Yale University Press, New Haven 1994; A. Petrillo, La città perduta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, ed. Dedalo, Bari 2000, pp. 210-22; e Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, tr. it., Bruno Mondadori, Milano 2005.
[45] M. Davis, La città di quarzo, cit., p. 122.
[46] In special modo le cosiddette “panchine anti-vagabondaggio”, «deterrenti di design» (M. Davis, La città di quarzo, cit., p. 130).
[47] M. Davis, La rivoluzione urbana, in “Millepiani”, n. 10: Geografia dell’espressione. Città e paesaggi del terzo millennio, Mimesis, Milano 1997, p. 11.
[48] Deleuze lo scrisse dei personaggi di Marguerite Duras e di Capra in L’immagine-tempo. Cinema 2, trad. it. it., Ubulibri, Milano 1989, p. 286 e p. 256.
[49] Il luogo, e la comunità che con esso coincide, è già mitologico, è appare anche nel film del Into the Wild – Nelle terre selvagge (Sean Penn, 2007), come pure nelle peregrinazioni foto-letterarie (in stretto e costante dialogo con l’immaginario filmico dei deserti americani) di Giorgio Vasta e Ramak Fazel. Anche qui The Slabs sono descritti come «il posto giusto per finire e per ricominciare», il posto dove «ognuno ha la sua seconda chance». (G. Vasta e R. Fazel, Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, Quodlibet Humboldt, Macerata-Milano 2016, p. 55).
[50] Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), tr. it., Feltrinelli, Milano 2005 e A. Cavalletti, La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Bruno Mondatori, Milano 2005.
[51] G. Rosi, Nel deserto con i nuovi homeless, Testo raccolto da S. Stefanutto Rosa in “Cinecittà News”.
[52] M. G. Vagenas, Intervista a Gianfranco Rosi. Con Below sea level sbaraglia Parigi, in “Schermaglie. Cinema, inoltre”.
[53] M. Davis, La città di quarzo, cit., p. 7. Sulla rapida ma a suo modo radicale utopia di Llano e New Llano, vedi tutto il primo capitolo «Uno sguardo dai passati futuri». A vent’anni da quella prefazione, anche in forma di rovina, o in forma di ghost town, Llano del Rio è oggi introvabile, ci dicono due nuove prede del deserto americano. (G. Vasta e R. Fazel, Absolutely nothing, cit., pp. 37-41).
[54] G. Rosi, Nel deserto con i nuovi homeless, cit.
[55] M. G. Vagenas, Intervista a Gianfranco Rosi, cit.
[56] Lascito “politico immediatamente attuale” che Agamben riconosce nelle lettere di Paolo, il “concetto di resto” è ciò che permette “di dislocare in una prospettiva nuova le nostre antiquate e, tuttavia, forse non rinunciabili nozioni di popolo e di democrazia. Il popolo non è né il tutto né la parte, né maggioranza né minoranza. Esso è, piuttosto, ciò che non può mai coincidere con sé stesso”, ovvero mai colmare nessuna delle sue “scissioni interne”, dell’anfibolie costitutive che da sempre si porta dietro (popolo e moltitudine, popolazione e popolo, popolo grasso e popolo minuto), G. Agamben, “Terza giornata: Aphōrismenos“, in Id., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 599.
[57] J. Weissberg, Review: ‘Below Sea Level’, in “Variety”.
[58] F. Carnevale, La plebe o lo straniero interiore, in “Antasofia 4”, Play. Cronache dall’epoca del trionfo dello spettacolo, Mimesis, Milano 2005.
[59] M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, tr. it. Mimesis, Milano 1994. Che il controllo sia ormai a tal punto introiettato da non lasciare nemmeno nel deserto un’esteriorità possibile rispetto al paradigma securitario ce lo dice anche Bus Kenny, quando chiede se serve una targa per guidare a Slab City una vecchia bicicletta elettrica.
[60] F. Carnevale, La plebe o lo straniero interiore, cit., p. 139. Sulla dialettica plebe-popolo, vedi anche M. Ojakangas, Il sovrano: “chiunque”…? in “Aut Aut”, n. 298, luglio-agosto 2000, La politica senza luogo. Biopolitica, cittadinanza e globalizzazione.
[61] Dice bene M. Gandolfi: «Below Sea Level è innanzitutto un film sull’abitare, o meglio sulle alternative all’abitare. Una riflessione in immagini sulle disgregazioni delle città contemporanee e sul sorgere di nuove geografie e mappe emotive per ospitare vite deragliate».
[62] Ci riferiamo qui al concetto di “popolazione” come obbiettivo finale e soggetto politico del biopotere, la cui genealogia è ricostruita nelle lezioni del 18 e 25 gennaio del già citato corso Sicurezza, territorio, popolazione.
[63] B. Buzi, Cosmologie della mimesis e rituali minoritari: Nostalgia de la luz di Patricio Guzmán, in “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni”, anno VI, n. 17 (maggio-agosto 2012), Rito, p. 221.
[64] G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 281.
[65] B. Buzi, Cosmologie della mimesis e rituali minoritari, cit., p. 223.
[66] Ivi, p. 220.
[67] G. Zucco, Il mio amore è un deserto. Intervista a Giorgio Vasta su Absolutely Nothing, in “Minima et Moralia”.
[68] G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 269 (Dove si parla dei deserti nel cinema nel senso di “un’archeologia del presente”).
[69] Prologo, P. Guzmán, voice over di Nostalgia della luce, traduzione di B. Buzi.
[70] G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 59. Che el pueblo es siempre minoria, persino quando raggiunge un consenso del 43%, nessuna “vicenda governativa” l’aveva forse dimostrato in maniera più drammatica.
[71] Voice over di El poder popular, traduzione mia.
[72] Ibidem.
[73] C. Ginzburg, Prefazione a Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1976, p. XXV.
[74] Intervista video a Patricio Guzmán, citata e tradotta in B. Buzi, Cosmologie della mimesis e rituali minoritari, cit., p. 223.