Si dice che l’occhio sia l’organo prediletto dalle grandi avanguardie artistiche del Novecento: non a caso, René Claire lo immerge nel mare in una delle scene più celebri di Entr’acte, mentre Luis Buñuel arriva addirittura a tagliarlo con un rasoio nell’incipit di Un chien andalou, gesto scioccante che ci obbliga a spaziare ben oltre le antiche frontiere dello sguardo, per scrutare la realtà scandalosa dell’inconscio e archiviare il vecchio modo di vedere, neutrale e indifferente. Kubrick, mentre sfonda le barriere del tempo e dello spazio nell’epilogo di 2001, ripropone l’occhio come strumento recettore dell’infinito, macchina straordinaria che abbraccia l’eternità e si fa inglobare da essa. Infine, quattordici anni dopo, il ritorno del primissimo piano oculare all’inizio di Blade Runner sancisce il culmine artistico del post-moderno, usando la citazione «come fondamento per una scrittura che è tutta un tessuto di altre scritture»[1], dove si rievoca nostalgicamente il passato e lo si rielabora in forma creativa, fra le ombre di un mondo distopico «in cui niente è originale e tutto è replica, anche lo stile»[2].
Non c’è quindi da stupirsi che Blade Runner 2049 si apra quasi allo stesso modo: una palpebra si schiude come un sipario, movimento di apertura che ci introduce nel futuro ancor più cupo di metà secolo, stabilendo al contempo la corrispondenza quasi assoluta fra il nostro sguardo e quello del nuovo eroe, l’Agente K di Ryan Gosling. Un nome (o meglio, un’assenza di nome) che richiama il quasi omonimo protagonista de Il castello, e come l’eroe kafkiano anche l’Agente K si muove in un ambiente ostile, spesso incomprensibile, dove gli edifici del potere incombono sulla città da ogni angolazione, dando corpo a un immenso panopticon metropolitano. Denis Villeneuve conosce bene l’importanza dello sguardo nel cinema moderno e post-moderno – film come Polytechnique e Incendies lavorano proprio sul mutamento continuo del punto di vista – ma l’eredità di Blade Runner gli consente di insistere maggiormente su questo aspetto: anche stavolta, la focalizzazione esplicita sugli occhi (rivelatori della natura dei replicanti) induce una riflessione sull’atto di vedere, ma la parcellizzazione degli strumenti visivi amplia il discorso originale per adattarlo alla nostra contemporaneità. Non è soltanto l’occhio umano a “vedere”, tutt’altro: Blade Runner 2049 brulica di occhi alternativi che rievocano la moltiplicazione dei sistemi di ripresa, come il drone che si scorpora dall’auto di K o le piccole telecamere fluttuanti – curiosamente simili alle astronavi monolitiche di Arrival – usate dal costruttore di replicanti Niander Wallace per sopperire alla sua cecità. Il tratto comune fra questi dispositivi è il potenziamento della vista, il fatto che ci permettano di vedere ciò che i nostri occhi non saprebbero cogliere, o perché inabilitati (come quelli di Niander, erede sia di Eldon Tyrell – anch’egli accecato da Roy Batty prima di morire – sia del Fredersen di Metropolis) o perché gravati dai limiti umani; occhi elettronici, insomma, che scovano indizi e notano dettagli altrimenti irraggiungibili, superando persino gli ostacoli fisici. Proprio come l’obiettivo della macchina da presa.
Così facendo, Villeneuve suggerisce una visione attenta e contemplativa: la stessa esercitata dal detective nella sua indagine, rigorosamente vecchio stile a causa di un blackout che ha spazzato via tutti gli archivi digitali precedenti al 2022. La cesura tra le due epoche – e i due film – è quindi palese: il ricordo del passato, già volatile di per sé, non può nemmeno contare su quei supporti mnemonici che tendiamo a dare per scontati. Accade allora che tutto, nel futuro di Blade Runner 2049, sia evanescente come quella memoria dimenticata, e infatti Los Angeles è popolata da enormi ologrammi luminosi che allettano il passante con promesse di piacere, mentre K allevia la sua solitudine con una fidanzata incorporea che non potrà mai nemmeno sfiorare. La Joi di Ana De Armas è un’intelligenza artificiale che si manifesta a sua volta in forma di ologramma (come la Samantha di Her, ma visibile), e stabilisce con K un dialogo paradossale: entrambi creati per uno scopo preciso, entrambi fondamentalmente soli, entrambi capaci di sviluppare sentimenti a partire da una programmazione predefinita. Se l’idea dell’androide è radicata nell’invenzione di Philip K. Dick, l’I.A. olografica di Joi rimanda invece all’attuale dibattito sui computer senzienti e sull’utopia della singolarità tecnologica, ben sviscerata in Ex Machina e Westworld. Qui però l’accento è soprattutto emotivo, e Villeneuve fa di lei una figura tragica perché incompleta, mai realmente libera (le sue emozioni sono sincere o frutto del software?) e legata sentimentalmente a un altro paria sociale: una coppia che forse non vanta le sfumature enigmatiche di Deckard e Rachel, ma suscita compassione per la sua carnalità soppressa e frustrata. Ancora una volta, si tratta di un rapporto basato esclusivamente sullo sguardo.
E noi, cosa ricaviamo da questo film in rapporto al cinema di oggi? Cosa ci “dice” dell’epoca in cui è stato concepito e realizzato? Rispetto ad altri prodotti hollywoodiani o televisivi, Blade Runner 2049 è obbligato ad adottare il post-moderno come propria chiave interpretativa, poiché esso risiede nella sua natura: non solo è un sequel, ma deve relazionarsi con un’opera di culto che faceva del citazionismo e della rielaborazione creativa la propria cifra stilistica. La stessa immagine dell’occhio diviene quindi una citazione della citazione, all’interno di un meccanismo che fagocita se stesso e rimastica all’infinito i suoi riferimenti, come nei blockbuster contemporanei e nelle serie televisive più feticiste. Eppure, Villeneuve ha l’intelligenza di radicalizzare quel modello fin quasi a denudarne i codici rappresentativi, esasperandone le condizioni esistenziali (la solitudine) e ramificandone la mitologia, che stavolta contrappone la maternità “naturale” dei replicanti alla paternità artificiale di Wallace. Nelle mani del cineasta canadese tutto diventa più controllato e trattenuto, similmente a quanto accadeva in Sicario: pur conservando l’ovvia spettacolarità dell’opera, l’approccio è sempre per sottrazione, e l’azione stessa cerca soluzioni non banali e mai gratuite, restando confinata in segmenti circoscritti. Il passo del racconto è infatti ponderato, graduale, come succede spesso nei film di Villeneuve, che si aprono progressivamente a partire da un’illusione di verità. Quest’ultima, peraltro, sarà svelata senza risvolti ambigui, senza indizi sibillini o potenziali teorie speculative: Hollywood non ha mai amato certe sfumature, nemmeno ai tempi del primo Blade Runner, che fu costretto a numerose Director’s Cut per rispecchiare la visione del regista.
Nulla di tutto questo sarà invece necessario per il sequel, opera grandiosa e rigorosa che non lascia spazio ai quesiti irrisolti, e in tal senso è forse ancor più debitrice del genere noir: l’indagine si risolve, il cerchio si chiude, mentre il sacrificio è l’unico modo per affermare la propria umanità. Villeneuve trasforma così un potenziale fiasco in un mirabile esempio di fantascienza matura, dove l’ansia di omaggiare il predecessore (evidente in taluni passaggi visivo-sonori) è mitigata sia dall’abilità del regista nel costruire le inquadrature sia dallo straordinario talento di Roger Deakins alla fotografia, vero scultore di luci che seziona la scena con tagli luministici affilatissimi, o caratterizza le ambientazioni con precise dominanti cromatiche. Lo sguardo ritorna centrale: ottenebrato dal grigio della nebbia, offuscato dal giallo della sabbia o accecato dai neon, esso viene perennemente stimolato ad affinarsi davanti alla sfida del vedere “oltre”, superando limiti fisici e culturali. Non a caso, invece di chiudere il sipario, quell’occhio resta spalancato verso il cielo.
[1] Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venezia 2007, p.315.
[2] ibidem, p. 316.