Cosa ci affascinava di Rosencrantz e Guildenstern sono morti nei lontani anni ‘90? L’atmosfera surreale, certamente. O curiosità bislacche come la competizione tra i due alla pallacorda. Ma più di ogni altra cosa a permanere era la sensazione di riscoprire l’Amleto, aggiungendovi elementi spuri, e contemporaneamente di recarci altrove, in luoghi inattesi e imprevedibili. Con libertà e curiosità degne di uno spin-off da fumetto, Tom Stoppard apriva Shakespeare all’anarchia totale, lavorando tra le righe e negli spazi bianchi della tragedia. Svelando in fondo il segreto di Pulcinella, antico quanto la letteratura. I mille rivoli del ciclo arturiano e carolingio o le versioni orali contrastanti sul ritorno degli Achei da Ilio riguardavano il medesimo insopprimibile impulso a curiosare oltre la pagina scritta, sui perché, i se e i ma, i prima e i dopo, degli eroi amati. Il meccanismo su cui la Hollywood di oggi persevera è apparentemente simile, ma di segno totalmente opposto. Preda di un autentico orgasmo scopico, dominato dall’intento bulimico di mostrare ogni cosa, il cinema mainstream pare fermamente deciso a non lasciarne, di spazi bianchi. Dove Stoppard elaborava – non richiesto – storie totalmente simboliche e di nessuna rilevanza narrativa, il senso hollywoodiano odierno è di andare incontro alle richieste del pubblico e mostrare tutto. Ovvero inondare di elementi narrativi, finendo per annichilire la divagazione dello spettatore-(non più) pensatore. Volevi vedere come sono stati rubati i piani della Morte Nera? Eccone il dettaglio in Rogue One: A Star Wars Story fino al frame esatto con cui comincia il film successivo. Si deve raccontare la genesi di un nuovo eroe? Occorre un antefatto nei minimi dettagli, anche se questo comporta la realizzazione di un “sandalone” digitale, come nei primi venti inaccettabili minuti di Wonder Woman (autentico film-simbolo della credibilità declinante della critica statunitense).
In linea con la fumettizzazione del blockbuster in corso ormai da un decennio, l’inarrestabile tripudio di spin-off, remake e sequel non lascia nulla al caso, arricchendo di informazioni impossibili da ricordare i profili psicologici di personaggi a malapena bidimensionali, più spesso uni- (difficile immaginare qualcosa di meno rilevante delle genealogie vampiresche di Underworld, per dire). E dimenticando il fatto che spesso questo stesso pubblico rimane deluso, quando non vede ciò che si era immaginato. Ma la post-verità ha poca importanza, nel momento in cui l’utente/cliente ha fruito e, per fruire, ha speso. Per poi farlo ancora, obbedendo all’antico richiamo della serialità. Vedendo le proprie fantasie realizzate, lo spettatore perde automaticamente il copyright sulle stesse, insieme alla sensazione di completare a modo suo il racconto.
Chi, a cavallo tra Settanta e Ottanta, ha vissuto i lunghi silenzi prima che I predatori dell’arca perduta divenisse il capostipite di una saga, o che Il ritorno dello Jedi smettesse di significare la fine della saga di Star Wars (senza contare ciò che a breve avverrà con Blade Runner), sa di cosa si parla. Di quanto sia mutata la fantasia di un ragazzino, bombardato di genealogie e interi universi a cui probabilmente fatica a star dietro, dove un tempo sugli “spazi bianchi” si ricamava al punto di inscenare storie parallele do-it-yourself, magari giocando in cortile con gli amici. La stessa sensazione, in fondo, che ha portato almeno un paio di generazioni (parliamo di X-ers che avevano tra i 5 e i 10 anni sul finire dei Settanta) a “scoprire” il gioco di ruolo e il librogame, due entità ludiche fondate sulla propria natura incorporea. Dungeons & Dragons era una scatola di cartone contenente un dado e dei libri, con qualche illustrazione. The Warlock of the Firetop Mountain, il capolavoro biblioludico di Steve Jackson e Ian Livingstone che darà vita e identità al librogame, era addirittura “solo” un volume cartaceo: matita e dado ce li dovevi mettere il fruitore. Niente di tattile, di immediatamente percepibile. Il drago o l’orco del caso era il frutto della fantasia, per sua natura unica e individuale: lo sforzo collettivo di condivisione diveniva così un racconto reciproco dell’esperienza, in cui provare a unire le proprie menti, mantenendo le loro diversità di approccio. Non c’è mai una verità unica e totalizzante, o quando questa emerge significa che il Game Master (figura di giocatore-arbitro-regista dei giocatori-personaggi-attori) non ha fatto bene il proprio mestiere, dimostrando scarsa malleabilità ad adattare schemi rigidi all’improvvisazione del momento. Un microcosmo così lontano dal gusto odierno e così difficile da raccontare – era faticosissimo spiegare ai coetanei e potenziali player che cosa fosse un gioco di ruolo – da stimolare Steven Spielberg in E.T. oppure oggi il revivalismo di Stranger Things, unico spazio in cui può vivere il disperato tentativo di ricreare quella magia. Se in quel mondo vinse, con spietato darwinismo, l’immediatezza di Magic, dove l’ausilio di carte da gioco abbassava drasticamente lo sforzo creativo dei player, al cinema è andata in maniera simile. I mondi inesplorati delle grandi storie, gli “Hic sunt leones” che segnavano la fine di una carta geografica dell’universo conosciuto, hanno lasciato spazio alla fagocitosi dell’industria dello storytelling, guidata – non casualmente – da una Disney sempre più accentratrice.
Il trailer di Jumanji, ennesimo superfluo remake di prossima uscita, esemplifica ulteriormente il concetto. I meccanismi del role playing, già resi visivi dall’ibridazione con il video game, che ha gradualmente sostituito l’originaria versione cartacea, vengono scomposti nei minimi termini e tradotti in immagini. Un ragazzino diventa The Rock, e si stupisce del suo corpaccione, mentre una ragazzina diventa Jack Black, con i gridolini di stupore e di ribrezzo del caso. Mentre il gioco diventa già giocato (dal regista e dai produttori). Vedere quel che prima si fantasticava non produce lo stesso effetto, in quanto inevitabilmente figlio dell’immaginazione altrui e di un’altra soggettività. Ma l’importante non è accontentare tutti, è provvedere, anche con un surrogato sintetico, a un bisogno, togliendo autonomia, esentando dallo sforzo di pensare.
È seguendo questo principio, o coniugandosi felicemente ad esso, che il succitato Rogue One ha creato dei sinistri precedenti, abusando di simulacri digitali dissociati dal corpo degli attori; è così che si generano gli spettatori-mostri che rifiutano l’immagine senile di Carrie Fisher e la sua evidente imperfezione (così settantesca, nella sua decadenza priva di orpelli) in Star Wars: Il risveglio della Forza, mentre plaudono alla sua perfetta ricostruzione digitale, che diverrà in breve tempo funesto presagio.
La necessità di raccontare il prima, il dopo e il durante, di invadere il mercato di storie e appendici coincide con la possibilità di farlo in maniera artificialmente impeccabile. Abbattendo i costi “umani” e l’inevitabile caducità dei corpi. In sostanza prende corpo l’orgasmo turbocapitalista del riuso e della spending review al suo apice. Senza attori e senza soggetto, se la stessa storia potesse essere riscritta e “ridisegnata” infinite volte, in accordo con il progresso lineare dell’evoluzione tecnologica, a quanto ammonterebbe il plusvalore? Chi si ricorderebbe della prima volta, di quella versione dal make-up poco credibile? Degli innumerevoli futuri distopici a cui ci tocca assistere su grande schermo, nessuno sembra far paura come quello che riguarda il cinematografo stesso.