In fin dei conti, che venisse considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema «oppure l’ultima sgualdrina rimasta a battere» [1], a Mankiewicz interessava ben poco. Si definiva un tipo introverso, un eretico, un anatema per chi trova che sia molto più facile puntare una macchina da presa che dirigere un attore; e il teatro era «una ferita aperta» (ai modi del suo “caro” Fitzgerald), l’unica donna desiderata ma da cui viene sempre respinto: «I film che non ho diretto non mi mancano come le commedie e i libri che non ho scritto» [2], confessava.
Chi abbia un minimo di confidenza con i film di Mankiewicz avrà notato l’abbondanza di maschere, fantasmi e di statue, di ferite, fiori carnivori e sopratutto di un tempo dimenticato – o meglio – contraffatto. Non è un caso che proprio Deleuze definisca Mankiewicz come il più grande autore di flashback [3]: linee del tempo che hanno più voci (Lettera a tre mogli [A Letter To Three Wives], 1949), linee spezzate, circolari, interrotte (La contessa scalza [The Barefoot Contessa], 1954), linee che litigano tra di loro e prendono nuove direzioni (Eva contro Eva [All about Eve], 1950)… Sarebbe persino sbagliato chiamarle linee perché falsificano quello che c’era e lo trasformano: ancora Deleuze li chiama circuiti, punti di partenza per nuovi labirinti e biforcazioni. Un campo minato, disseminato da trappole e duelli felpati: l’esito estremo si avrà quando la messa in scena stessa prenderà le forme della pura mistificazione.
A guardare i film di Mankiewicz ci si sente minacciati perché ad un certo punto la verità s’impone sempre attraverso una lacerazione. La ritroviamo nella quarta voce di Lettera a tre mogli che spezza il bicchiere nell’inquadratura, oppure nella risata convulsa di Diello che lancia i soldi per aria in Operazione Cicero (5 Fingers, 1952). Una verità troppo dura da poter reggere.
Insomma, in tutto questo c’è un’organizzazione orchestrata finemente che cerca, strappo dopo strappo, di combattere con gli spettri che la popolano. Per semplificare al massimo la faccenda, potremo quasi dire che il cinema di Mankiewicz racconta la solita vecchia storia: il gatto che cerca di acciuffare il topo. E lo fa millimetrando lo spazio, misurando gli ambienti per sottrazione: i luoghi del suo cinema sono differenti ma incastrati gli uni agli altri, un’elegante bisca, la casa infestata, un ospedale, un labirinto, il castello gotico dove non ci sono finestre da cui scappare.
In che modo Mankiewicz, quasi alla fine della sua carriera, sia arrivato al progetto Cleopatra (1963), può sembrare incomprensibile. Una lunga depressione, seguita al suicidio della moglie, lo costringe a lasciare incompiuti diversi progetti; fino a quando, grazie al successo di Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly, Last Summer, 1959), decide di riprendere una sua vecchia ossessione, Justine di Lawrence Durell, e di farne un film. Non può sapere che, nel frattempo, Elizabeth Taylor sta pregando in ginocchio il produttore Spyros Skouras di ingaggiarlo per salvare quel disastro completo di Cleopatra, dopo che l’allontanamento del regista a cui era stato affidato in origine, Rouben Mamoulian.
Joseph Leo Mankiewicz, una delle figure più importanti e temute del periodo d’oro di Hollywood, non sa quello a cui va incontro quando accetta la proposta di Skouras, seppur per tre milioni di dollari. Innanzitutto Cleopatra è un progetto già cominciato, con una sceneggiatura già scritta e i ruoli già assegnati. Non sorprende che, anche a distanza di anni, Mankiewicz non ne volesse sentir parlare: «Per favore non nominatemelo!», supplicherà nelle interviste, ricordando le notti di quell’estate romana, passate a riscrivere la sceneggiatura. È «un film concepito in stato d’urgenza, girato in isteria e terminato nel panico» [4]. La lavorazione dura due anni, dal 1961 al 1963, a ridosso dell’uscita. Che succede in tutto questo tempo? Si potrebbero scrivere pagine e pagine per raccontare le ragioni che portarono la produzione al collasso. Innanzitutto, i capitali: Liz Taylor ha un ottenuto un cachet di un milione di dollari, più la garanzia di un benefit di tremila alla settimana, oltre a vitto/alloggio e biglietti aerei andata/ritorno in prima classe per spostarsi tra le varie location del film per lei, altri tre adulti e i suoi tre figli. Non contenta, è riuscita a farsi garantire due suite al Forchester Hotel di Londra sempre disponibili e una Rolls-Royce Silver Cloud. Per non parlare dei suoi vestiti di scena costosissimi, del ricovero per una tracheotomia a causa di una broncopolmonite contratta durante le riprese e della chiacchieratissima relazione con Richard Burton, all’epoca ancora sposato con Sybill Williams.
Il 1962 procede così, con una manciata di articoli sui giornali scandalistici e una montagna di foto che raffigurano i due divi in preda alla loro follia d’amore: un press-book involontario per un film che sarebbe uscito oltre un anno dopo. Il Giornale d’Italia riassume l’opinione generale dicendo che nessuno si sarebbe potuto dimenticare di Elizabeth Taylor: una donna in grado di lasciarsi alle spalle quattro mariti e che, per suo unico personale vantaggio, è forse arrivata al punto di distruggere il matrimonio di Richard Burton. Persino Papa Giovanni XXIII sente il bisogno di esporsi in prima persona: «Amiamo chiamare Roma “Città Santa”. Dio non voglia che diventi una città di perversione». Chissà, se le spese non fossero state esorbitanti e incontrollate, raggiungendo quasi i 45 milioni di dollari, Hollywood avrebbe ringraziato per tutto quel chiacchiericcio.
Tuttavia non c’è solamente questo: Cleopatra è troppo anche per il Cinemascope; quel formato non sarebbe riuscito a contenere pienamente il tutto, qualcosa sarebbe rimasto ai margini, fuori dai bordi dell’inquadratura, i colori non sarebbero mai stati così brillanti e l’immagine nitida al punto giusto. Ci vuole qualcosa di più grande, eccessivo. Ci vuole il Todd-AO, un formato cinematografico rivoluzionario, messo a punto da Mike Todd (defunto marito di Liz, guarda caso) e usato per la prima volta nel 1955 in Oklahoma! di Fred Zinnemann. Per utilizzarlo, però, è necessario l’impiego di un proiettore speciale e la stampa della pellicola costa il triplo.
Il kolossal è un complesso meccanismo progettato in ogni circuito, una risposta muscolare alla crisi che da più di un decennio ha colpito Hollywood. E il peplum è l’espressione pura di questo filone, che pure comprende anche il western, il musical, il film comico o bellico. Un iper-genere «capace di generare – nel suo mettere in scena masse e “massa” – masse di spettatori» [5]. Mankiewicz non vi si avvicina con la svogliatezza di Lang né con il mestiere anonimo di Richard Thorpe. Non lo vede come il punto d’arrivo di una personale ricerca formale come Ray né come l’occasione di sperimentare percorsi mai battuti come Wyler. Il kolossal di Mankiewicz è un grande film manierista, che rilegge con la consapevolezza dell’intellettuale sospettoso delle forme già standardizzatesi a partire da La tunica (The Robe,1953) di Henry Koster. Egli utilizza, certo, le cifre tanto care al suo cinema fondendole ai meccanismi – qui decostruiti – del peplum, dando vita al suo film più teatrale, il più freddo e radicale, non lontano da Il cavaliere della Valle Solitaria (Shane, 1953), con cui George Stevens, dieci anni prima, realizzava il primo western “autoconsapevole”, per dirla con Bazin.
Due atti, due tragedie, la prima politica, la seconda amorosa. A Mankiewicz non basta più trasformare la bellezza in marmo, come aveva fatto con Ava Gardner, ma si spinge più in là, oltre le colonne d’Ercole, facendo fuggire l’amore dalle contingenze della Storia. Il corpo di Liz Taylor, con quelle scollature e quella cascata di capelli neri, è così ingrandito e amplificato che facciamo fatica a coglierlo nella sua interezza. Rimangono solo alcune parole ad avvolgerci: «Tu ed io proveremo che la morte è meno forte dell’amore, tu ed io faremo della morte un ultimo abbraccio, le tue labbra si porteranno via il mio respiro». È qui che il peplum diretto alla maniera di Mankiewicz, raggiunge la sua massima estensione, in quella musica che sentiamo in lontananza, in quella retorica delicatezza prima del collasso, causato dall’arrivo dell’esercito romano.
Così, quello che ricorderemo del film sarà l’immagine finale, il volto di Cleopatra incorniciato dalla sua stessa tomba in una meravigliosa maschera d’oro. Insieme a Spartacus di Kubrick (1960), nel quale le cifre del peplum assumono una natura astratta, una spettacolarità pura, e a La caduta dell’impero romano (The Fall of the Roman Empire, 1964) di Anthony Mann, in cui i toni funerei lasciano presagire la fine di quella fase cinematografica, Cleopatra rappresenta il massimo esempio della tarda fase della stagione del kolossal, quella che collasserà sotto il proprio peso, prima che arrivino i movie brats a spazzarla via del tutto.
Di quel mondo continueremo a leggerne le storie, le leggende, a immaginarci gli eterni occhi viola di Liz Taylor non degnare neanche di uno guardo Rex Harrison e Richard Burton al suo arrivo a Roma.
NOTE
[1] John Howard Reid, Cleo’s Joe, Film & Filming, agosto-settembre 1963.
[2] Alberto Morsiani, Joseph L. Mankiewicz, Firenze, La Nuova Italia, 1991.
[3] Gilles Deleuze, Cinema I L’immagine – tempo, Milano, Ubulibri, 1989.
[4] Walter Wanger, Joe Hyams, My Life with Cleopatra: The Making of Hollywood Classic, New York, Vintage Books, 2013.
[5] enrico ghezzi, Paura e Desiderio: cose (mai) viste 1974 – 2001, Milano, Bompiani, 1995.