Nel suo L’America e il cinema, pubblicato nel 1975 e divenuto col tempo un piccolo classico, il critico inglese Michael Wood osservava come il cinema hollywoodiano degli anni che vanno grosso modo dal 1939 al 1962 – insomma, il cinema che si suole chiamare “Classico” – ben lungi dal descrivere l’America reale, «se la inventava, si sognava un’America tutta sua» e ci persuadeva della sua esistenza. «E noi», concludeva Wood, impastando la prosa del critico e dello storico con le proprie memorie di comune spettatore, «lo condividevamo con piacere, perché il sogno era a suo modo fedele – fedele a tutta una serie di desideri americani – e perché non c’erano molti altri sogni a disposizione» [1].
Nulla sembra turbare i sonni tranquilli del pubblico americano (e non solo) almeno fino agli ultimi anni Cinquanta. Proprio in quel momento, infatti, il passaggio da un decennio all’altro si trasforma repentinamente in una vera e propria faglia geologica, superata la quale sarà di fatto impossibile tornare indietro. Lasciamo nuovamente la parola a Wood: «All’inizio degli anni Sessanta sono avvenute nel cinema innumerevoli cose concrete e decisive: la contrazione dei mercati esteri, l’afflusso di film stranieri […] l’apertura di cinema d’arte; lo sviluppo delle produzioni indipendenti; l’ascesa del regista-produttore; l’avvento di tutto un nuovo pubblico più giovane, più istruito e più attento del precedente» [2].
Il cambiamento degli assetti produttivi e distributivi si somma a una riconfigurazione dell’estetica hollywoodiana, in primis quella divistica: «Se ripensiamo ai miti espressi da Marilyn Monroe e da Gene Kelly – una rovinosa innocenza e una fiducia trascinante – vediamo in loro una disperazione che […] ha molto a che vedere con la maniera in cui gli americani vedono se stessi e il proprio paese. Sono miti che sembrano malati, che sembrano avere i giorni contati» [3].
Se i divi hanno dunque i giorni contati, qual è il destino dei registi? È singolare che, proprio mentre nella Francia dei Cahiers si ridefinisca il concetto di autore all’interno dell’industria hollywoodiana, intonando il peana a robusti artigiani come Hawks, Ford, Hitchcock, Minnelli, costoro stiano nel frattempo imboccando l’estrema fase della propria carriera, sempre più ostacolati, oltre che dai cambiamenti cui accenna Wood, dall’età ormai avanzata (erano quasi tutti nati fra l’ultimo decennio del XIX secolo e il primo del XX), dalla diffidenza delle Majors e dalla complessità crescente di una società (quella della “Nuova Frontiera” kennedyana, delle rivendicazioni civili, della contestazione e del Vietnam) che non sono evidentemente più in grado di capire né di raccontare.
È ciò che, nel 1963, riconosce persino un giovane Jean-Louis Comolli, non ancora teorico dei rapporti tra cinema, critica, tecnica e ideologia, ma già arresosi all’evidenza che la Politique des Auteurs non è più praticabile (nonostante lui stesso, all’inizio, abbia testardamente provato a raccogliere il testimone di Jacques Rivette). Davanti al poco difendibile 55 giorni a Pechino (55 Days at Peking, 1963), Comolli è costretto ad ammettere con scoramento che una nuova soglia è stata attraversata: adesso che l’Autore è salito sul piedistallo, la gloria di Hollywood è tramontata; adesso che Nicholas Ray, appunto in 55 giorni, è balzato davanti alla macchina da presa, dietro di essa è come non ci fosse più nessuno.
Registi e film di questo periodo sono l’oggetto di questo percorso un po’ anomalo di Filmidee. Un’incursione che nasce innanzitutto dal nostro piacere di spettatori e dall’affetto (vagamente colpevole) che proviamo nei confronti di queste opere, sovente sbeffeggiate dalla critica e rapidamente dimenticate dal pubblico. Opere variamente senili e improbabili (e spesso con un budget spropositatamente alto rispetto ai risultati: si pensi solo alla Cleopatra di Joseph Mankiewicz, qui analizzata da Mariella Lazzarin), patentemente fuori fase rispetto al presente in cui si trovarono a uscire, ma che alla luce del senno di poi hanno ancora molte cose da dire. Si tratta insomma di opere il cui valore ha poco a che vedere con le categorie del bello e del brutto, slegate per varie ragioni da qualsiasi esigenza industriale/commerciale, e che proprio per questo sfoggiano un’inusitata libertà.
C’è ovviamente una seconda ragione, meno “sentimentale”, che ci ha spinto a confrontarci in modo diretto con questi film. Nelle ultime pagine del suo libro, Wood scrive che «ciò che è morto, negli anni Sessanta […] è stata l’abitudine di andare al cinema, quella sorta di coazione culturale che ti spingeva fedelmente al cinema una volta o due la settimana, qualunque cosa si stesse proiettando» [4]. Ci siamo cioè resi conto che anche oggi, proprio come cinquant’anni fa, il cinema nel suo complesso sembra essere colpito da una sorta di inattualità, lontano com’è dal centro della scena mediatica allargata. Pertanto non stupisce più, per esempio, che ex genii del botteghino come i vecchi autori della New Hollywood (i Lucas, gli Spielberg, ma anche, in misura minore, gli Scorsese e gli Schrader) si siano messi sempre più di frequente a fare film la cui libertà sopravanzi ampiamente qualunque plausibilità commerciale, da War Horse al quarto capitolo della saga di Indiana Jones, allo stesso reboot di Guerre Stellari – per non parlare della radicale messa in discussione del proprio “capitale autoriale” che Coppola sta portando avanti da oltre un ventennio.
Insomma, l’eccentricità senile non è più una patologia ai margini del cinema. Al contrario, sta diventando sempre più la definizione del cinema stesso. Proprio per questo motivo, i film senili ed eccentrici dei vecchi maestri, che retrospettivamente la prefigurarono, vanno presi sul serio per quelli che sono. Il tutto, chiaramente, senza bisogno di ricorrere a fascisteggianti revisionismi o esaltazioni del kitsch fine a se stesso. Bisogna solo guardare lucidamente in faccia la libertà di cui sono fatti, senza prestarsi al gioco del capovolgere il brutto in bello.
Nel tentativo di armonizzare le due “anime” da cui il percorso ha preso le mosse (quella “affettiva” e quella più analitica), abbiamo lasciato ai collaboratori la massima libertà possibile sia nella scelta del film, sia nell’approccio critico da adottare. Partendo da Due settimane in un’altra città di Vincente Minnelli per giungere all’estremo (in tutti i sensi, come dimostra la lettura di Giuseppe Paternò di Raddusa) Fedora di Billy Wilder, passando per il già citato Cleopatra e il liminare Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer (il più giovane del gruppo, classe 1913), l’obiettivo è quello di offrire una panoramica il più possibile ampia e completa, sia sotto il profilo dei generi (sebbene, guarda caso, almeno due dei titoli presi in considerazione siano esplicitamente metadiscorsivi) sia sotto quello della cronologia: dal 1962 al 1978, dalle prime crepe nello Studio System al “ritorno all’ordine” dei “movie brats”. Quando l’America dei sogni si è da tempo tramutata nell’America degli incubi.
NOTE
[1] Michael Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano, 1979, p. 26.
[2] Id., p.174.
[3] Id., pp. 174-75.
[4] Id., p. 174.