Ci sono momenti in cui è imprescindibile cercare la connessione profonda tra ciò che si offre da vedere e ciò che le immagini trattengono. Di questa tensione, tra il celarsi e il rivelarsi, vive il cinema di Terrence Malick, che di opera in opera indaga la soglia tra l’uomo/la donna che siamo e ciò che il nostro desiderio ci spinge a divenire. Anche Song to Song, film corale sulla scena musicale dei grandi happening in Texas, si situa in continuità rispetto alle opere precedenti in questa indagine che ha investito non soltanto l’interiorità dei personaggi (da sempre protagonista nei lungometraggi del regista) ma anche quella delle immagini e del loro rapporto con il reale.
La prima parte della ronde amorosa tra l’ondivaga Faye (Rooney Mara), ventenne in cerca di successo nel mondo del rock, il producer iperdesiderante Cook (Michael Fassbender) e l’incantato musicista BV (Ryan Gosling) è segnata da un colloquio tra i due uomini, nel quale alle parole misurate si somma la danza tra i due corpi che misurano uno spazio pronto, di lì a poco, a trasformarsi in terreno di scontro. Sulla soglia della sua lussuosa villa, Cook chiede con fare sbruffone al giovane amico che cosa veda di fronte a sé. L’altro ondeggia, prende tempo, si volta e riguardando l’amico afferma che nel giardino c’è una piscina, descrivendo la realtà così come si offre a vedere, le sue sembianze. Cook è pronto a chiamare “palco” quella piscina: per lui la realtà sensibile è lì solo per essere trasformata dalla sua pulsione dominatrice. Ma nella scena è il regista stesso a domandarsi cosa ci sia nella profondità dell’inquadratura. Infatti, mentre i due attori ripetono le loro battute, nessuno sembra accorgersi di un’improvviso raggio di sole, che filtrando attraverso le fronde di un albero al centro della scena, crea in un baleno uno spazio luminoso, un palco dove Cook finirà per esibirsi nelle sue ridicole piroette. Eccolo il mistero, l’imprevisto accolto in seno a una danza perfetta tra la mpd e gli attori, che inizia a richiamare l’attenzione verso un’altro livello dell’opera, obbligandoci a chiederci quale sia la nostra posizione rispetto al sensibile.
Se Knight of Cups raccontava di una liberazione progressiva dalle sovrastrutture di un mondo dello spettacolo che in Malick si sostituisce al mondo del potere tipico delle parabole da cui trae ispirazione, in questo film gemello il centro si fa sempre meno manifesto. Alla figura dominante di Christian Bale e alla sua teoria di donne, si sostituisce un triangolo amoroso (che si allarga ulteriormente con la figura di Rhonda, interpretata da Natalie Portman) in cui ogni punta reclama il proprio percorso di crescita o distruzione. Nella polifonia messa in campo, le figure più nette sono quelle di Cook e BV, entrambi possibili “principi solitari alla ricerca della propria perla” che espletano il loro sentimento di completezza in maniere opposte. Cook è alla ricerca del nettare della vita, esemplificato in maniera talmente letterale eppure sorprendentemente riuscita in una delle più suggestive sequenze del film: è l’uomo che si nutre dell’adrenalina dei concerti, della bramosia del sesso, della visceralità dei rapporti. Il sensibile è lì per essere plasmato: dalla cameriera Rhonda che si trasforma in un’ammaliante oggetto del desiderio, dal cantante BV pronto per diventare star per qualche stagione, fino a se stesso, costantemente emulo delle mosse altrui, che siano quelle di una scimmia o di persone raffinate. Cook è padrone di un mondo di cui rimane schiavo, potendo soltanto riprodurne in maniera sterile le forme. Al contrario BV, totalmente opaco nella prima parte del film nella sua incapacità di cogliere l’essenza delle persone che ha di fronte, diventa l’uomo che si interroga di continuo sul rapporto con gli altri, mettendo in crisi persino una relazione apparentemente serena ma superficiale. In lui ritorna il concetto di reale come prigione, che opprime lo spirito, ampiamente esplorata nei viaggi filosofici di Knight of Cups, ma anche la scommessa che un sacrificio renderà possibile cambiare la propria prospettiva, rendendolo pronto per vedere al di là della superficie e collocandolo nel mondo crepuscolare, luce dominante nel cinema del regista che qui bacia quasi esclusivamente il finale.
Tra questi due estremi maschili, a dominare la scena è Faye, interpretata da una sconvolgente Rooney Mara, enigmatica e silenziosa quasi quanto Holly di La rabbia giovane: ammaliata da Cook e dal suo potere, innamorata della trasparenza di BV, curiosa di liberarsi da ogni orpello morale, confortata dalle cure di una fidanzata straniera, legata in maniera sempre più inconfutabile al destino di BV. Il suo volto spigoloso e alieno, è inespugnabile per la mdp che l’accarezza costantemente senza mai riuscire a svelarne il mistero. E proprio questi continui ritorni sullo sguardo attonito di Mara, fanno pensare che Song to Song possa essere la versione femminile di Knight of Cups, in cui agli “amori” della propria vita si mescolano i maestri, che siano padri accoglienti o madri capaci di raccontare con sorprendente semplicità i luoghi oscuri della propria esistenza (nella figura carismatica di Patti Smith). Ma qualcosa resta troppo sospeso per abbracciare la prospettiva di Faye, anche per vederla riconciliata in un finale che appare forse affrettato, fuggendo da quella feroce discesa agli inferi concessa soltanto ai personaggi maschili nel cinema di Malick.
Song to Song spinge più in là la pratica cinematografica del regista, che per la prima volta sceglie di fondere i suoi personaggi con il “non controllato”. Fassbender, Mara, Portman e Gosling sono corpi attoriali che si aggirano tra le risse dei concerti, guardano dall’alto gli altri mentre recitano la loro parte, si sporcano le mani con esecuzioni improvvisate, accettano di non essere al centro della scena se succede qualcosa di più interessante rispetto a quello che dicono, fanno, esprimono. C’è una sfida in atto, che sovverte gli equilibri profondi di ciò che intravvediamo tra un taglio e l’altro di sequenze girate in diverse manifestazioni musicali. Una sfida che investe in maniera significativa anche l’utilizzo del sonoro del film che non soltanto associa i fedeli Handel, Saint-Saëns, Ravel e Pärt ad autori contemporanei ed esecuzioni rock, ma soprattutto sceglie di abbandonare i ponti sonori tra una sequenza e l’altra, rendendo ancora più esplicita la volontà di creare una distanza spettatoriale rispetto alla possibile narrazione in atto.
Fuori dalla storia, soli di fronte a un’immagine, in un moto opposto rispetto al cinema dominante. Si assiste al cinema di Malick come a una liturgia, liberi di non accettarla o di rimanervi abbagliati.