“Molti credono che il dolore ci riporti a una dimensione privata, ci confini nella solitudine e, in questo senso, sia depoliticizzante. Ma io credo che il dolore dia vita a un senso complesso di comunità politica, e sia in grado di fare ciò innanzitutto evidenziando quei legami e quelle relazioni necessari a teorizzare ogni forma di dipendenza fondamentale e di responsabilità etica”.
Judith Butler
Una settimana e un giorno è l’opera prima del giovane regista Asaph Polonsky: nato a Washington ma cresciuto in Israele, questo trentaquattrenne ha portato all’interno della sua poetica tutto il sentire che scorre tra il senso del lutto occidentale e la stoica accettazione della perdita di un popolo millenario. Del resto ci sono punti cardine molto importanti che legano la storia del film alla cultura ebraica e al luogo fisico di Israele dove è ambientato. La vicenda si svolge all’indomani un lutto, mettendo in scena la reazione di due genitori dopo la morte prematura del proprio figlio. Nella tradizione è previsto un periodo apposito durante il quale ai parenti di un defunto è permesso sospendere tutte le attività svolte solitamente, per dedicarsi all’esclusiva elaborazione della perdita: questo periodo si chiama Shiv’ah. Il film comincia proprio alla fine di questa pausa, quando ai due protagonisti è richiesto di riprendere le loro vite di sempre.
La programmazione di un tempo stabilito per affrontare un lutto serve dunque drammaturgicamente da evento scatenante per mettere in scena un’insolita forma di ribellione da parte del protagonista maschile, Eyal, che rifiuta di tornare al ruolo di maschio adulto borghese, regredendo verso uno stadio quasi adolescenziale: Eyal comincia ad accompagnarsi con un ragazzo poco più che ventenne e con una bambina, destrutturando il tempo di una giornata e disertando ogni consapevolezza sugli impegni di una vita che deve continuare, nonostante tutto. A prendere il sopravvento a questo punto sono quei movimenti di coscienza che permettono a Eyal di superare a modo proprio una situazione tragica, declinandosi in pensieri ai suoi occhi consolatori o addirittura salvifici che a chiunque altro risultano invece incomprensibili, come il distaccarsi dal reale per immedesimarsi nel lutto del parente di un’altra vittima, l’attaccarsi testardamente a una delle coperte del figlio, oppure lasciare che il dolore si tramuti in rabbia, che emerge incontrollata nei momenti meno adatti. Tutta questa anarchia emozionale contrasta malinconicamente con una società che tenta di dare una regola anche ai sentimenti, provando a riempire il vuoto con l’abitudine, e inanella una serie di paradossi che dotano il film di pennellate umoristiche mantenute vive in buona parte dell’arco narrativo.
Se il personaggio di Eyal gioca il ruolo più istrionico, fin dalla scrittura Polonsky attribuisce alla figura della moglie Vicky una dignità quasi totemica, senza che questa madre privata dell’unico figlio si scomponga mai davvero, se non con versando una lacrima durante una visita dentistica: incamerando insomma dentro di sé una visione quanto mai personale del dolore. Lo scontro di queste due reazioni opposte da parte di due persone così vicine per sentimenti e comuni esperienze è forse il motore che alimenta il ritmo complessivo del lavoro.
Ma Una settimana e un giorno è anche un film politico, dove per politico si intende un rapporto, o non-rapporto, con la polis di cui si fa o non si fa parte. La nazione di Israele diventa un microcosmo chiuso di fronte al quale emerge, agli occhi dello spettatore, la contraddizione tra il valore assoluto che ogni vita al suo interno ritiene (e dunque l’enorme peso fuori dall’ordinario di ciascuna morte), e lo spettro rimosso della guerra sanguinosa che viene combattuta appena fuori da incerti confini, dove invece la perdita sembra ormai essere all’ordine del giorno. L’assenza di questo controcampo pesa su tutta la storia e solleva un interrogativo morale che Polonsky rivolge indirettamente al pubblico: in quale misura è eticamente permesso a un paese colonizzatore di pensare esclusivamente alle proprie morti? Per quanto questa domanda aleggi sempre all’interno della narrazione, avvertiamo empaticamente che Eyal e Vichy potrebbero essere i nostri vicini di casa, oppure proprio noi. L’evidenza disarmante di come ormai Israele sia un pezzo di Occidente, e di come quindi si rintani nel nostro sentire e condividere comune, in questo film si riversa sullo schermo dalle prime inquadrature. Il fuori campo è un’altra cosa, a volte sembra quasi non esistere, ma la sua assenza pesa sempre di più.