Tra le ombre che popolano l’alba della seconda guerra mondiale, le sorelle Laura e Kate Barlow – Natalie Portman e Lily-Rose Depp – lasciano gli Stati Uniti per reinventarsi una vita nel Vecchio Continente, in quell’Europa che si sogna garanzia di un rinnovamento ma non è ancora pronta ad abbandonare i fantasmi del passato, e sul cui futuro aleggiano le minacce xenofobe di un conflitto imminente.
Un passato che, per le due giovani donne, sembra essere incentrato unicamente sulla loro professione di medium, attraverso sedute spiritiche che offrono a un pubblico attratto dalle novità, fino all’incontro con il produttore cinematografico Korben, alla ricerca di spunti avanguardisti che possano rivoluzionare la propria arte e al tempo stesso ansioso di entrare in contatto con frammenti di memoria e presenze che ancora lo ossessionano. In un susseguirsi di voci, pettegolezzi e turbamenti, Laura tenta di addentrarsi nei meandri degli oscuri trascorsi del fascinoso produttore, rischiando di incrinare il rapporto, fino a quel momento protettivo e simbiotico, con la giovanissima sorella.
Se alcune sfumature psicologiche delle due esuli protagoniste finiscono per perdersi nel doppiaggio italiano – entrambe le attrici hanno infatti recitato in francese nella versione originale –, Planetarium mescola in maniera brillante fiction ed elementi tratti da vicende realmente accadute. Da un lato, le Barlow rappresentano un omaggio alle tre sorelle Fox, medium americane precorritrici del movimento spiritista ottocentesco, che l’autrice ha scelto di trasporre alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Dall’altro, la fine di Korben (in yiddish, il sacrificato), costretto alle dimissioni dalla propria casa di produzione in quanto ebreo, fa da eco finzionale all’epurazione del vero produttore Bernard Natan, protagonista di una sorta di “affare Dreyfus” d’ambito cinematografico. Natan, inoltre, aveva fondato il proprio studio presso quella che adesso è la sede de La Fémis, celebre scuola di cinema parigina presso cui si è formata la stessa Zlotowski…
L’amalgama di elementi reali e di fiction funziona, e la Zlotowski sceglie felicemente di trasportare la storia delle sorelle in un periodo carico di tensioni politiche e razziali, lasciando campo libero al destino subìto da Korben/Natan. Ma alla sua opera terza, presentata alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, la regista sembra restare vittima di una maniacale messa in scena in cui ogni singolo dettaglio – l’agreste e patriottico canto della Marsigliese a seguito di una gara sportiva, l’uso posticcio di mascherini a iride – suona come il tentativo di ergersi a simbolo, a marcatore temporale di un momento storico ben preciso. Planetarium finisce così per rimanere vittima di un didascalismo fine a se stesso e di tradursi (e ridursi) in specchio, in imago, in quelle stesse ombre di un tempo e di una figura perdute che si cercano (invano?) di evocare e impressionare sulla pellicola messa a disposizione da Korben, costi quel che costi.
Nonostante l’indubbia padronanza del soggetto e l’originale intrecciarsi delle piste narrative, la sceneggiatura della Zlotowski con Robin Campillo (autore, tra le altre cose, di Les revenants, presentato sempre a Venezia nel 2004, da cui la serie TV francese diretta da Fabrice Gobert) sembra non riuscire a contenere la sovrabbondanza della materia e a restituire un’effettiva coerenza alla narrazione, vanificando l’epilogo di una miscela votata all’eccesso, ridondante e arzigogolata. Il sottotesto politico, gli spettri di un passato scomodo, la seduzione ipnotica di uno spiritismo giunto da oltreoceano, la bramosia di rigenerazione di due sorelle che si muovono in un ambiente a loro del tutto sconosciuto finiscono quindi per scivolare lentamente sotto gli occhi dello spettatore mancando di trovare un punto di convergenza sul finale.
A risultare maggiormente sacrificata è la stessa riflessione metacinematografica: in un’epoca in cui il cinema viveva desideri di metamorfosi, Korben cerca compulsivamente di impressionare l’oltre-reale e l’oltre-mondano, ma proprio nella sua patina di mondanità Planetarium sciupa le trame trasparenti di quello che vuole essere un film animato da misteri – siano essi immanenti o soprannaturali -, con i suoi tentativi sin troppo palesi di pedinare e ricalcare forme e maniere di un’epoca, rimescolando le tracce messe a disposizione dalla Storia che si arenano in un’ossessione figurativa che toglie afflato vitale alla vicenda e ai suoi personaggi.