Se è indubbio che un filo invisibile colleghi Irma Vep, Sils Maria e Personal Shopper, in un percorso coerente e ascendente sul divismo nell’era crossmediale, sorprende comunque la natura radicale di quest’ultimo. In Personal Shopper Olivier Assayas si assume coraggiosamente il rischio di fallire e di essere sbeffeggiato dai più, come forse non succedeva dai tempi di Demonlover. Anche perché la portata dell’ultimo lavoro del regista francese è, con ogni probabilità, destinata a essere compresa nella sua pienezza solo di qui a qualche anno, tali sono la sua aderenza alla contemporaneità e la spinta propulsiva a indagare cosa si nasconda nel suo “non visto”. Attraverso la tensione spirituale che avvolge Maureen, Olivier Assayas sembra dirci, o meglio svelarci, che l’ignoto si nasconde sotto i nostri occhi. Non è certo il primo a farlo, ma il suo è un differente approccio al fantastico, compiuto con occhi vergini, quasi ingenui. Un viaggio che ha inizio da un’apparizione, ma che intende indagare altrove – in un irresistibile parallelo con il Victor Hugo, incarnato da Benjamin Biolay, in una finta serie tv d’antan rivissuta da noi (e Maureen) attraverso YouTube.
Intorno a noi, nello spazio invisibile e incorporeo, ma affollatissimo di parole e immagini, si nasconde qualcosa, o forse molto. Man mano che cresce l’information overload del nostro quotidiano, aumenta esponenzialmente anche il vuoto, il suo contraltare, l’eterno inappagato. E con lui la brama di riempirlo, di conoscerlo, sviscerarlo.
Personal Shopper si muove su molteplici livelli, in una complessa, e talora apparentemente diseguale, architettura a strati, che Assayas gestisce ricorrendo volutamente a espedienti immediati, “a effetto”. L’apparizione di uno spettro o l’allusiva apertura di una porta automatica, forse attraversata da un essere incorporeo, non rappresentano solo il portato della fascinazione del regista per l’interpretazione che del fantastico in letteratura dà Tzvetan Todorov, ossia quella di un’eterna ed efficace ambiguità tra dubbio scettico e fede nella stessa. Sono brusche interruzioni della narrazione che invitano a nuove interpretazioni, a ridiscutere (e ridiscuterci su) quanto visto. Un fantasma in una magione abbandonata o un messaggio di ignoti su un iPhone, letto in metropolitana, costituiscono due manifestazioni esteriormente antitetiche del medesimo disturbo sensoriale, della medesima mancanza di Maureen. Kristen Stewart, corpo divistico su cui Assayas costruisce la propria opera, conduce ed è condotta da Personal Shopper e dalle inquietudini che lo innervano. Lo stalking di cui potrebbe essere vittima, il suo rapporto subalterno con una star irraggiungibile (e invisibile anch’essa), l’ambiguità sessuale propria di un oggetto di seduzione – ma che tuttavia sembra non essere mai realmente sedotto – proseguono e intensificano il gioco di rimandi tra realtà e finzione iniziato in Sils Maria. Il peculiare metodo recitativo della Stewart, incentrato sulle proprie nevrosi, plasma la sequenza centrale del film, in cui le sue dita si muovono nervosamente sui tasti di uno smartphone, mentre le pupille si spostano lateralmente, in continuazione: il passaggio di immedesimazione nell’altro da sé, da Kristen a Maureen, è quasi annullato, nel segno dell’inquietudine.
Ed è altresì curioso che Personal Shopper sia stato girato nello stesso periodo di Daguerrotype, a cui talora pare accomunato da un parto gemellare: sebbene il film di Kurosawa Kiyoshi sia meno riuscito di quello di Assayas, molti elementi accomunano le due opere, ambedue riflessioni sull’evoluzione dell’immagine fotografica (e quindi cinematografica) e sul rapporto tra questa e il mondo dell’aldilà. Se, specie nella prima sequenza di Personal Shopper, il richiamo al regista giapponese è evidente e consapevole, il prosieguo metropolitano della vicenda accarezza altri immaginari. Una porta automatica apre su una situazione precognitiva dalle parti di Mulholland Drive, dove una tensione depalmiana resta latente nella commistione di pubblico, privato e sovraesposizione mediatica, che sfocia nella voyeuristica sequenza di vestizione e svestizione di Maureen. Ma le influenze e le micro-citazioni che contribuiscono a comporre il mosaico di Personal Shopper, cangiante come l’abito colpevolmente indossato da Maureen, rafforzano, anziché sminuire, il vigore radicale della poetica di Assayas, spintosi qui ancora più in là nell’instancabile ricerca di una direzione in cui veicolare il medium cinematografico, attraverso il caos comunicazionale odierno.